biologica driver sviluppo principale

L’agricoltura biologica driver di sviluppo dell’economia italiana

Secondo un rapporto dell’Eurostat l’Italia si conferma terza economia agricola in Europa, con 12 milioni di ettari di superficie utilizzata e il 12% del fatturato del settore dell’area Ue. L’Italia leader anche nel settore dell’agricoltura biologica: in testa alla classifica Sicilia, Puglia e Calabria. L’agricoltura biologica tema centrale al Salone Internazionale del biologico e del naturale in programma a Bologna dal 7 al 10 settembre.


L’Italia si conferma terza economia agricola in Europa

Con circa 12 milioni di ettari di superficie utilizzata, l’agricoltura italiana realizza oltre il 12% del fatturato del settore nell’area Ue, confermandosi terza economia agricola in Europa dopo Francia (17% del fatturato e 28 milioni di ettari) e Germania (13% e 15 mln di ettari). Questo è quanto emerge da un recente rapporto dell’Eurostat, l’Ufficio statistico dell’Unione europea, sul settore agricolo in Europa. In particolare, l’agroalimentare, nel suo complesso, rappresenta una delle maggiori risorse economiche per l’Italia: 61 miliardi di euro di valore aggiunto, 1.4 milioni di occupati (pari al 5,5% degli occupati in Italia), di cui 900 mila impiegati nell’agricoltura, oltre 1 milione di imprese e 41 miliardi di euro di esportazioni. Questi alcuni dei dati presenti nell’ultimo Rapporto sulla Competitività dell'agroalimentare italianorealizzato da ISMEA (Istituto di Servizi per il Mercato Agricolo Alimentare). Dal rapporto emerge che il settore agricolo italiano, confrontato con quello degli altri Paesi europei, sembra che abbia retto e che stia reggendo tuttora meglio negli anni di crisi economica. La riduzione del numero di occupati in ambito agricolo, registrata in questi anni, risulta essere inferiore alla media europea: -6,7% a fronte del 17,5% di media all’interno dell’Unione europea. Inoltre, il settore, sebbene si sia arrestato a partire dal 2013, ha tuttavia recuperato circa il 3% negli ultimi 5 anni. Ciò è dovuto, sottolinea l’ISMEA, soprattutto alla spinta della componente giovanile tra gli occupati in agricoltura, in controtendenza rispetto alla dinamica negativa prevalente nel resto dei Paesi europei (-7,4%). Tuttavia, in Italia il salario medio annuo per il lavoratore agricolo risulta essere ancora tra i più bassi d’Europa: 7.930 euro rispetto ai 20.133 medi di tutte le altre attività economiche del Paese. Altra problematica che riguarda il settore agricolo nostrano è l’uso dei pesticidi, che ha drammatiche ricadute sulla salute degli ecosistemi e dei consumatori. Secondo l’Annuario dei dati ambientali ISPRA (Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale), aggiornato al 2018, le acque superficiali e sotterrane italiane risultano contaminate da pesticidi e altri prodotti fitosanitari, in particolare da glifosato.

Tuttavia, fa sapere Legambiente nel suo rapporto “Stop Pesticidi – Analisi dei residui di pesticidi negli alimenti e buone pratiche agricole”, nel 2017 si sono registrate tracce di un solo residuo di pesticida nel 19,9% dei campioni di frutta, verdura e prodotti trasformati analizzati. Però, emerge dal rapporto, il 38,8% dei campioni analizzati mostrava la presenza di mix di sostanze particolarmente pericolose a causa degli effetti potenziati dall’azione sinergica dei vari componenti. Di qui e dall’urgenza di tutelare la salute del suolo e degli ecosistemi, nonché quella dei consumatori, nasce la richiesta sempre più crescente di prodotti ottenuti da colture biologiche, quindi senza l’utilizzo di sostanze di sintesi. A questo proposito, secondo un rapporto dell’ISPRA, nel 2016 oltre 300 mila ettari di terreno agricolo sono stati convertiti ad agricoltura biologica. Inoltre, secondo i dati SINAB (Sistema d’Informazione Nazionale sull'Agricoltura Biologica), aggiornati al 2017, la superficie adibita ad agricoltura biologica in Italia ha raggiunto quota 1 milione e 796 mila ettari, con una crescita del 20,4% rispetto al 2016. A detenere il record di maggiore superficie coltivata con metodo biologico in Italia è la Sicilia con 363.688 ettari. Seguono la Puglia con 255.853 ettari e la Calabria con 204.527 ettari. Nel complesso, la superficie biologica di queste tre regioni messe insieme detiene il 46% della superficie adibita ad agricoltura biologica a livello nazionale. Le stesse tre regioni sono prime anche nella classifica del numero di operatori nel settore: la Sicilia è in testa con 11.451 aziende operanti nel settore; seguono Calabria con 11.330 e Puglia con 10.029.
 

Al via a Bologna il Salone internazionale del biologico e del naturale

L’agricoltura biologica sarà il tema chiave del Salone Internazionale del biologico e del naturale  in programma a Bologna dal 7 al 10 settembre. Giunto quest’anno alla sua 30esima edizione, il Salone ospiterà numerose aree espositive, convegni e workshop sui temi dell’agricoltura biologica, della sana alimentazione, della cura del corpo attraverso metodi naturali e del green lifestyle. Il Salone è organizzato da BolognaFiere in collaborazione con FederBio e con il patrocinio del ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare e rappresenta un punto di riferimento per coloro che operano nel settore dell’agricoltura biologica, dove l’Italia è tra i maggiori leader in Europa e la cui crescita nel mondo dura ininterrottamente da oltre quindici anni (Figura 1).

 

Figura 1. Paesi dove è presente il comparto dell’agricoltura biologica

 

Secondo BioBank, la banca dati del settore biologico italiano, i negozi specializzati in prodotti bio in Italia sono 1.437, di cui oltre la metà concentrato nel Nord del Paese. In testa alla classifica dei prodotti bio più venduti compaiono uova, gallette di riso soffiato, confetture e affini, sostituti del latte, olio extra vergine d’oliva, latte, pasta integrale/farro (Figura 2). Inoltre, i prodotti bio sono confezionati in modo tale da distinguersi da quelli presenti sugli scaffali dei negozi che non vendono biologico (per il 40% dei consumatori italiani, ad esempio, il packaging ecologico di un prodotto è fondamentale per la vendita del prodotto stesso). In particolare sono due le categorie di prodotti che stanno incontrando sempre maggior interesse tra i consumatori italiani: quelli con proprietà benefiche per la salute e quelli vegetariani e vegani.

 

Figura 2. Prodotti biologici più venduti in Italia (fonte: Nielsen Trade Mis per Assobio, 2018)

 

La vendita dei prodotti vegani e vegetariani è in forte crescita: Mintel stima che l’11% di tutti i prodotti alimentari e delle bevande lanciati sui mercati internazionali nel 2018 siano stati vegetariani (il 5% è stato vegano). Questo significa che circa un prodotto su sei che ha fatto ingresso nel mondo dei consumi afferisce alla sfera “veg” (note a fine articolo). La crescita nelle vendite di prodotti vegetariani e vegani è a livello globale e riguarda non solo i consumatori che hanno intrapreso stili di vita vegetariani e vegani, ma un pubblico sempre più ampio, che attribuisce loro un valore sotto l’aspetto salutistico, etico e qualitativo. Non fa eccezione l'Italia, dove vegetariani e vegani rappresentano oggi circa l’8% della popolazione e dove sono presenti oltre 53 mila ristoranti con menù dedicati ad un'offerta “veg” (Rapporto Eurispes 2018). Al Salone Internazionale del biologico e del naturale a Bologna si parlerà anche di alimentazione vegana: è, infatti, in programma negli stessi giorni del Salone il VeganFest, il più importante appuntamento in Italia sul mondo del vegano.


Nota:

“Vegetariano”: deriva dall’ingl. “vegetarian”, tratto da veget(able), cioè “vegetale”. Il “vegetarianismo” consiste in una alimentazione limitata a cibi vegetali o, nelle forme meno radicali, estesa ad alcuni prodotti animali come uova, latte e i suoi derivati.

“Vegano”: adattamento ital. dell’ingl. “vegan”. Il “veganismo” è la concezione dietetica che rappresenta la forma più radicale del “vegetarianismo”, escludendo dall’alimentazione umana qualsiasi alimento di provenienza animale (e quindi anche latte e derivati, uova, miele) e consentendo solo l’uso di alimenti vegetali.

Fonte: Enciclopedia Treccani (www.treccani.it)

Nel mirino dello spreco principale

Nel mirino dello spreco un terzo della produzione europea di frutta e verdura

Sprechiamo ogni anno a livello globale 1,6 miliardi di tonnellate di cibo per un valore economico di 1.200 miliardi di dollari. Secondo uno studio dell’Università di Edimburgo un terzo della produzione europea di frutta e verdura, circa 50 milioni di tonnellate, viene sprecato perché non rispetta gli standard estetici. Tutto ciò avviene a fronte degli oltre 800 milioni di persone nel mondo che soffrono di denutrizione cronica.


Quanto costa lo spreco alimentare

Nel 2030 sprecheremo in tutto il mondo una quantità di cibo pari a 2,1 miliardi di tonnellate con una frequenza media di circa 66 tonnellate ogni secondo per un valore economico di 1.500 miliardi di dollari. Questo è quanto emerge dal rapporto sul tema dello spreco alimentare del Boston Consulting Group, multinazionale statunitense di consulenza di management. Già oggi, sottolinea il rapporto, vengono sprecate ogni anno 1,6 miliardi di tonnellate di cibo, circa un terzo del cibo prodotto a livello globale, per un valore di 1.200 miliardi di dollari (Figura 1). Tutto ciò avviene a fronte degli oltre 800 milioni di persone, ovvero il 10,7% della popolazione globale, che, secondo le ultime stime della FAO (Organizzazione delle Nazioni Unite per l'alimentazione e l'agricoltura), soffrono di denutrizione cronica. Inoltre, sempre secondo i dati dell’Organizzazione, i rifiuti alimentari e le perdite rappresentano un peso ambientale non indifferente, dal momento che causano l’8% delle emissioni globali di CO2.

 

Figura 1. Lo spreco alimentare in termini economici (fonte: Rapporto 2018 del Boston Consulting Group)

 

In particolare, i maggiori sprechi si registrano nei paesi in via di industrializzazione dove la popolazione è in forte crescita. Tuttavia, mentre nei paesi in via di sviluppo i rifiuti si generano soprattutto durante i processi produttivi, nei paesi ricchi i rifiuti sono causati principalmente dalla grande distribuzione e dai consumatori che buttano via il cibo perché ne hanno acquistato troppo o perché non soddisfa determinati standard estetici (la Figura 2 riporta gli standard estetici per alcuni tipi di frutta presi in considerazione soprattutto dalla grande distribuzione). Tuttavia, ancora oggi, il mondo della piccola agricoltura produce il 70% del totale dei prodotti alimentari. Inoltre, le filiere corte-biologiche-locali contribuiscono a ridurre gli sprechi pre-consumo al 5% a fronte del 30-50% dei sistemi industriali; ciò significa che chi si rifornisce solo attraverso le reti alternative spreca un decimo di chi si usa solo canali convenzionali. Infatti, i sistemi di agricoltura supportata da comunità (CSA) abbattono al 7% gli sprechi contro il 55% dei sistemi di grande distribuzione organizzata. Il tutto considerando solo gli sprechi convenzionali, ovvero sprechi/perdite dalla produzione al consumo (dati ISPRA, 2017).

 

Figura 2. Standard estetici di alcuni tipi di frutta (fonte: Agea – Agenzia pubblica per i controlli  in agricoltura)

 

Lo studio dell’Università di Edimburgo

Del tema degli standard estetici di frutta e verdura si è occupata l’Università di  Edimburgo che in un suo recente studio ha tratteggiato una situazione sconcertante: oltre un terzo della frutta e della verdura prodotto ogni anno in  Europa, circa 50 milioni di tonnellate di prodotti agricoli, non arriva sugli scaffali perché troppo “brutto”, o per la forma, o per dimensioni, secondo gli standard estetici imposti dalla grande distribuzione organizzata. Dallo studio emerge che, all’interno dell’Unione europea, si seguono degli standard estetici ben precisi che vengono usati per la classificazione, l'accettazione, la vendita e il consumo di cibo. Il team di ricercatori che ha condotto lo studio spiega che alcuni standard imposti dall’Unione europea potrebbero essere modificati a vantaggio di tutti, compresi i consumatori. Ad esempio, le carote classificate come “imperfette” per le loro ridotte dimensioni potrebbero rientrare nella categoria “baby carote”. Infatti, secondo lo studio, il 10% della produzione totale di carote in Europa viene scartato ogni anno a causa della forma e o delle dimensioni, incompatibili con gli standard imposti dall’Ue. I ricercatori sottolineano che gli agricoltori che hanno dei contratti con i supermercati generalmente coltivano più cibo di quello che sono obbligati a fornire, dal momento che una percentuale della frutta e della verdura consegnate non saranno ritenute adatte ad essere vendute. Al contempo, i consumatori si sentono più propensi ad acquistare qualcosa di familiare e, a causa della scarsa conoscenza e informazione, ritengono che sia più rischioso acquistare frutta e verdura che non corrispondo a determinate caratteristiche. A ciò si aggiungono, sottolineano i ricercatori dell’Università di Edimburgo, gli enormi costi legati allo spreco alimentare in termini di impatto ambientale: il cambiamento climatico collegato alla coltivazione del cibo sprecato, si legge nello studio, è, ad oggi, pari alle emissioni di anidride carbonica di 400 mila automobili e sarà destinato ad aumentare, se non si prenderanno al più presto provvedimenti al riguardo.
 

I principali provvedimenti contro lo spreco alimentare

La Tabella 1 riporta i principali provvedimenti a livello nazionale ed europeo contro lo spreco alimentare:

PROVVEDIMENTO

FONTE

OBIETTIVO

“Pacchetto “economia circolare”

Commissione Europea, dicembre 2015

Riduzione dei rifiuti alimentari nelle fasi di vendita al dettaglio e consumo finale del 30% per il 2025 e del 50% entro il 2030, rispetto ai valori del 2014.

Piano nazionale di prevenzione dello spreco alimentare (PINPAS)

MAATM, 2014

Si pone l’obiettivo di individuare le azioni prioritarie per la lotta allo spreco alimentare.

Legge n. 166 del 3.8.2016

Parlamento Italiano, 2016

Il provvedimento definisce per la prima volta nell'ordinamento italiano i termini di “eccedenza” e “spreco alimentare”. Le eccedenze alimentari non idonee al consumo umano possono essere cedute per alimentare animali e per autocompostaggio o compostaggio aerobico di comunità.

Strategia nazionale di sviluppo sostenibile

Consiglio dei Ministri, 2 ottobre 2017

Mette in relazione l’obiettivo 12.3 dell’Agenda 2030 sullo spreco alimentare con l’obiettivo strategico “Garantire la sostenibilità di agricoltura e silvicoltura lungo l’intera filiera” all’interno della scelta strategica “Affermare modelli sostenibili di produzione e consumo”.

Nota: Per maggiori dettali, si veda il Rapporto 267/2017, ISPRA (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale.

Tabella 1. Provvedimenti nazionali ed europei contro lo spreco alimentare

Foto da www.izsvenezie.it/

Cibi etnici. Una categoria di alimenti in crescente diffusione in Italia

Introduzione

Un fenomeno che sta riguardando in questi ultimi anni il comparto alimentare è la crescente diffusione dei cibi etnici, al punto che nel 2011 il fast food etnico è entrato nel paniere ISTAT dei prezzi al consumo per il calcolo dell’inflazione. Con la definizione di “cibi etnici” sono stati indicati gli alimenti originari di paesi diversi dall’home market, che contribuiscono ad una cultura alimentare diversa dalla tradizione del paese ospitante [1]. Nella pratica si fa riferimento essenzialmente ai prodotti di provenienza extraeuropea, i quali stanno conquistando in Italia quote di mercato sempre più importanti per effetto di una serie di fattori, tra i quali la presenza significativa di comunità straniere, la globalizzazione, che ha favorito i flussi di persone e di tradizioni gastronomiche diverse, il ruolo avuto dall’EXPO 2015 nel far conoscere i cibi esotici, il prezzo contenuto e la curiosità di alcune fasce della popolazione di sperimentare gusti diversi.

Nel seguito riporteremo alcuni dati indicativi dell’entità del fenomeno, soffermandoci su alcuni degli alimenti etnici di maggiore diffusione nel nostro Paese, senza sottacere, tuttavia, le perplessità destate dalle carenze igienico-sanitarie talvolta segnalate.

 

I consumi di cibi etnici

Com’è noto, l’alimentazione è fortemente influenzata dall’identità culturale, sociale e spesso religiosa dei popoli. Basti pensare, per citare solo qualche esempio, ai musulmani, dalla cui dieta sono rigorosamente banditi la carne di maiale e le bevande alcoliche, agli ebrei, per i quali sono vietate le carni di suini, cavallo e coniglio, nonché gli animali acquatici privi di pinne e squame, come molluschi, crostacei, pesci come l’anguilla, o agli induisti, essenzialmente vegetariani o addirittura vegani e per i quali è in ogni caso assolutamente vietato il consumo di carne di vacca, in quanto animale considerato sacro. Con le migrazioni le abitudini alimentari invalse nelle terre di origine si diffondono nei paesi ospitanti, perché il cibo rappresenta per i migranti un legame inscindibile e irrinunciabile con le proprie tradizioni e un modo per avvertire meno la nostalgia ed il distacco dal proprio mondo, almeno nella fase iniziale del loro insediamento; con il tempo, poi, si assiste generalmente anche in campo gastronomico ad una integrazione fra le culture autoctone e quelle dei nuovi arrivati e ad una contaminazione delle diete, con conseguente arricchimento reciproco. Così, se da una parte l’alimentazione degli stranieri residenti in Italia viene influenzata dalla nostra cucina, per cui li vediamo assumere pasta, pizza ed altri alimenti tipicamente nostrani, anche noi ci stiamo orientando in una certa misura verso il consumo di cibi lontani dalla nostra tradizione mediterranea (Corona, 2014). Del resto, ciò è sempre accaduto: si possono citare, come esempio, i derivati della soia, che, presenti fino a non troppi decenni fa sui nostri mercati essenzialmente in quanto destinati alle comunità asiatiche, sono ormai entrati a far parte della dieta di un numero cospicuo di nostri connazionali.

Ovviamente la quota prevalente dei consumi di cibi etnici è coperta dai cittadini extra-comunitari, la cui presenza nel nostro Paese ammontava, al 1° gennaio 2016, a 3.931.133 (dati forniti dal Ministero dell’Interno e diffusi dall’ISTAT), cui vanno aggiunti i non regolari, nonché i richiedenti asilo ed i rifugiati. Tuttavia, come si diceva, contribuiscono ormai a tali consumi anche gli italiani, che hanno cominciato a conoscere questi alimenti attraverso il racconto di parenti e amici o in occasione di viaggi all’estero ed hanno poi iniziato a sperimentarli nei ristoranti stranieri, che stanno sorgendo sempre più numerosi nelle nostre città, ammontando nel 2012 a circa 50.000 in tutta Italia. Recentemente si sta anche affermando la tendenza a consumare questi cibi a casa, acquistandoli in take away stranieri o preparando delle ricette a partire da prodotti comprati in piccoli negozi gestiti da extracomunitarie, soprattutto, nelle grandi catene di ipermercati [2]. In commercio si trovano anche alimenti etnici modificati, che rappresentano una versione modificata rispetto agli “originali”, ossia rispetto al modo in cui sono preparati nei Paesi di origine, per adattarli al gusto e alle preferenze degli italiani (Marletta et al., 2006). Spesso si combinano ingredienti importati con altri locali.

Così, da diversi anni ormai si assiste ad una intensa e continua crescita dei consumi, che, secondo dati della Coldiretti, sono quasi raddoppiati (+93%) dal 2007 al 2014, aumentati ulteriormente del 18% rispetto all’anno precedente, nel 2015 [3], dell’8% nel primo semestre del 2016 [4] e di poco meno del 7% nel primo semestre del 2017 (tra gli altri, si è registrato un aumento del consumo di sushi, couscous, kebab, bistecca algerina e jamon iberico) [5]. Inoltre, il primo Rapporto Coldiretti/Censis sulla ristorazione in Italia, presentato al Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione del 20 e 21 ottobre 2017 a Cernobbio, riporta che, nel 2016, 28,7 milioni di italiani, ossia quasi la metà della popolazione, ha mangiato regolarmente o occasionalmente in un ristorante etnico [6].

Un ruolo importante nella crescita dei consumi va attribuito alla Grande Distribuzione Organizzata, che sta rendendo via via più ricca l’offerta di tali alimenti e sta dando ad essi una visibilità sempre maggiore negli spazi espositivi. Negli ipermercati, accanto ai cibi esotici rivolti alla clientela italiana, si rinvengono prodotti e ingredienti destinati in particolare agli immigrati, con le marche che trovano nei loro Paesi.

Ovviamente l’intensa crescita dei consumi di cibo etnico ha comportato un incremento sensibile delle importazioni, il cui fatturato, facendo riferimento alla sola GDO, ha raggiunto nel 2015 quasi i 160 milioni di euro, con un incremento del 18,6% rispetto all’anno precedente e circa doppio rispetto al 2007 [7]. Si possono distinguere tre macroaree di provenienza: l’oriente, l’America latina e il nord-Africa. In particolare, secondo EURISPES, nel carrello della spesa degli italiani prevalgono i prodotti per la cucina cinese o giapponese (38,8%), latino-americana/messicana (25,7%), araba-mediorientale (14,2%), Sud-Est asiatica (10,6%) e africana (5,4%) [8].

Un gruppo di studio dell’Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Venezie ha condotto recentemente un’indagine su un campione di 1.317 persone, allo scopo di tracciare un identikit dei consumatori di cibi etnici, inquadrandoli per sesso, fasce di età, titolo di studio, città di residenza ecc., e di analizzare la percezione del rischio che essi hanno rispetto a questo tipo di alimenti [9].  Dalla ricerca è risultato che ben l’84,7% degli intervistati ha mangiato cibi etnici almeno una volta, mentre solo il 15,3% non li ha mai provati; i consumatori sono prevalentemente donne (52,5%), hanno un’età superiore ai 55 anni (39,1%), un grado di istruzione medio-alto (poco meno del 46% ha un diploma di scuola media superiore e quasi il 31% una laurea), hanno un lavoro e risiedono per il 46% circa al Nord e per il 34% al Sud e nelle isole. I non consumatori motivano la loro scelta essenzialmente con una preferenza per la gastronomia italiana (44,3%), ma anche con una scarsa fiducia nei metodi di preparazione di questi cibi (19%) e negli ingredienti usati (14,4%); altri dichiarano di non gradirne il gusto (12,4%). Quanto alla percezione del rischio le cucine considerate più pericolose sono risultate quella giapponese, per la presenza di pesce crudo in molte ricette, la cinese, per la presenza di ingredienti sconosciuti, e quelle araba e sud-est-asiatica, percepite come scarsamente rispettose delle norme igieniche.
 

Alcuni cibi etnici di crescente consumo in Italia

Riportiamo in questa parte una breve rassegna dei piatti stranieri più diffusi in Italia, limitandoci a quelli di origine extracomunitaria ed escludendo, dunque, i tanti alimenti europei, come ad esempio la paella spagnola o la moussakà greca.

 

Kebab 

È la pietanza etnica più popolare nel nostro Paese, specialmente fra i giovani: le kekaberie si stanno diffondendo a ritmo sostenuto in molte città, come alternativa ai fast food tradizionali, e ormai anche alcune pizzerie nostrane prevedono nella loro offerta delle pizze con kebab e patatine.

Si tratta di un piatto di origine persiana, diffusosi poi in Turchia e nel mondo arabo, di cui esistono più versioni, in relazione alle differenti modalità di preparazione seguite nei vari Paesi in cui si è diffuso: Asia centrale e meridionale, Europa, USA ecc. E’ un misto di carne di diversi animali, agnello o montone, pollo, tacchino, manzo (non maiale, essendo questa carne vietata dall’Islam), la quale viene tagliata a fette, condita con sale ed una miscela di spezie e aromi e lasciata macerare per oltre venti ore in un succo di cipolle e yogurt per intenerire le fibre muscolari. Le fette, quindi, vengono infilzate in uno spiedo verticale rotante e cotte alla griglia. La carne può essere servita in panini arabi (döner kebab) o in una specie di piadina (durum kebab) con verdure miste, patatine fritte e vari condimenti della gastronomia orientale, ma oggi anche occidentale, come maionese, ketchup, mostarda e barbecue. Queste salse, così come l’elevata percentuale di grassi della carne, che si sciolgono e colano con la cottura, ma non vengono allontanati per la tenerezza e la sapidità che conferiscono, rendono il panino kebab un alimento decisamente sconsigliato dai nutrizionisti. Infatti, il suo contenuto calorico, considerando un peso tra i 200 e i 300 grammi, si aggira mediamente sulle 500 kcal, ma può arrivare anche a 1.000. A ciò si aggiunge l’impiego di quantità elevate di sale, un componente di cui si dovrebbe fare sempre un uso limitato, anche in assenza di problemi renali o cardiovascolari. Inoltre, le sostanze in esso contenute, proteine, fibre, lipidi e carboidrati, che lo rendono un piatto unico, sono presenti in un mix non equilibrato [10].  

 

Couscous 

Il couscous è un alimento tradizionale del Maghreb, diffuso anche in tutto il Nord Africa e in Medioriente, in particolare in Israele, Palestina, Giordania e Libano. L’origine è incerta, anche se, secondo Lucie Bolens, dell’Università di Ginevra, risalirebbe ai Berberi, che lo avrebbero preparato già tra il III e II secolo a. C., come dimostrerebbe il rinvenimento di pentole da couscous in tombe algerine dell’epoca del re berbero Massinissa. E’ costituito da granuli di semola di frumento duro impastati con poca acqua e cotti al vapore; vengono serviti con verdure lessate in un brodo piccante e carne di pollo, agnello o montone, ma in alcuni luoghi si ritrovano anche varianti a base di pesce. Attualmente il couscous reperibile nei supermercati occidentali è, in massima parte, ottenuto con una produzione meccanizzata ed è precotto, per cui può essere servito in pochi minuti, previa aggiunta di acqua o brodo bollente e rimescolamento con una forchetta. Tradizionalmente, invece, la preparazione era lunga e laboriosa e veniva effettuata dalle donne, che per vari giorni spruzzavano la semola con acqua e la lavoravano con le mani, dandole la forma di grani; questi venivano poi aspersi con semola asciutta, setacciati ed essiccati al sole per quattro-cinque giorni [11].

 

Sushi e Sashimi 

Sono piatti della cucina giapponese molto diffusi ed apprezzati da diversi anni in occidente. Differiscono sostanzialmente fra loro per il fatto che il sushi è una pietanza a base di riso con diversi ingredienti, crudi o cotti, e varie salse e condimenti, mentre il sashimi è costituito da pesce, molluschi o crostacei rigorosamente crudi, tagliati a fettine sottili di 5-8 millimetri, perché risulti il più tenero possibile, senza altri ingredienti. Del sushi esistono numerose varianti, che si caratterizzano per la diversità dei componenti e le modalità di presentazione. L’ingrediente base, come si è detto, è il riso, acidulato con aceto di riso, nel quale si sciolgono zucchero e sale: la varietà più adatta è quella giapponese, caratterizzata da chicchi piccoli e tondeggianti, con un buon equilibrio tra le componenti dell’amido, amilosio e amilopectina, tale da conferire in cottura la collosità giusta per formare delle polpettine. Ad esso possono aggiungersipesce, molluschi, alghe, carne o vegetali, come carote, cetrioli, avocado, semi di soia fermentati. E’ assolutamente importante che il pesce, qualunque sia la specie utilizzata, salmone, tonno, orata, branzino, anguilla o altra, prima di essere servito crudo, sia “abbattuto”, ossia congelato in abbattitore a -18 °C per almeno 96 ore, per evitare il rischio di infezioni e parassitosi; tra queste, va citata, in particolare, quella causata dall’Anisakis, un nematode le cui larve infestano diverse specie ittiche e, se ingerite dall’uomo, possono provocare gravi disturbi intestinali, ma fortunatamente vengono distrutte dalla cottura e dal congelamento [12].

Tra i tipi di sushi più famosi vi è certamente il nigiri, formato da una pallina di riso lavorata a mano con sopra unafettina di pesce o anche dei molluschi (polpo, seppia, calamaro) o crostacei (granchio o gambero); talvolta,per legare il pesce al riso, si aggiunge una strisciolina di alga nori, un’alga rossa del genere Porphyra, caratterizzata da un elevato contenuto proteico e da una presenza equilibrata di vitamine, sali minerali e acidi grassi Omega 3. Vi sono poigli hosomaki, delle polpettine di riso cilindriche ripiene di pesce o verdura avvolte in una foglia di alga nori; gli uramaki, delle polpettine di riso anch’esse cilindriche, in cui, però, l’alga è all’interno a contenere il ripieno composto da due o più ingredienti, sempre  tra pesce e verdure; il temaki, che è il sushi di maggiori dimensioni, potendo raggiungere anche la lunghezza di 10 centimetri, costituito da una polpetta diforma conica avvolta in una foglia di alga e ripiena di diversi ingredienti che sporgono dall’estremità aperta; i futomaki, che sono dei rolls, ossia dei rotolini di riso di grandi dimensioni con un ripieno di due o tre ingredienti [13]. Il peso medio di un pezzo varia dai 15 grammi circa per l’hosomaki ai 70-80 grammi per il temaki.

Il sashimi, come si è detto, non contiene il riso ed è costituito solo da pesce, molluschi o crostacei freschissimi serviti crudi. I pesci generalmente usati variano da quelli dal sapore più delicato, come il salmone, l’orata e soprattutto il branzino, a quelli dal sapore più forte, come il tonno e l’anguilla. Tra i crostacei è molto apprezzato il gambero e tra i molluschi il polpo. Altri prodotti ittici impiegati sono lo sgombro, il calamaro e il riccio di mare. L’assenza della fase di cottura rende il potere nutritivo del sashimi più elevato rispetto a quello del sushi, così come la mancanza di salse e condimenti pesanti ne riduce il potere calorico. La salsa utilizzata è in genere quella di soia con pasta di wasabi (una pianta della famiglia delle Brassicacee), alquanto piccante. Poiché il valore economico di una pietanza è legato alla quantità del componente più pregiato in essa presente, il maggior contenuto di pesce nel sashimi, in assenza di altri ingredienti, rende quest’ultimo evidentemente più costoso rispetto al sushi [14]. 

 

Problemi igienico-sanitari

Un aspetto da valutare con attenzione relativamente ai cibi etnici è quello della sicurezza alimentare, risultata spesso “problematica”. Sebbene anche i prodotti nostrani non siano sempre scevri da rischi, anzi la cronaca segnala frequentemente episodi di adulterazioni e cattiva conservazione, sono soprattutto gli alimenti di importazione, in particolare quelli di origine asiatica, a destare le maggiori preoccupazioni: decine e decine di tonnellate di prodotti, importati anche regolarmente e destinati a negozi e ristoranti etnici, sono stati spesso sequestrati dai NAS, in quanto talvolta scaduti o tenuti in ambienti malsani, addirittura con escrementi di roditori e volatili, o contenuti in confezioni lacerate e contaminate da muffe o larve di insetti.

Un recente rapporto del Sistema di allerta rapido europeo (RASFF), che segnala gli allarmi per i rischi alimentari nell’Unione Europea nel 2016, riporta la presenza in alcuni alimenti provenienti dall’estero di micotossine, residui chimici, diossine, metalli pesanti, additivi e contaminanti microbiologici. La Coldiretti, dal canto suo, ha elaborato un dossier, che ha presentato al già citato ForumInternazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione dell’ottobre 2017 a Cernobbio, in cui ha riportato una black list dei cibi più pericolosi.Tra questi figurano i peperoni e le albicocche secche provenienti dalla Turchia, rispettivamente per il contenuto eccessivo di pesticidi e di solfiti, il peperoncino indiano, per la presenza di salmonella, nonché una serie di alimenti contaminati da aflatossine, micotossine notoriamente cancerogene, come le arachidi provenienti dalla Cina e dagli Stati Uniti, i pistacchi dell’Iran, le nocciole e i fichi secchi turchi e la noce moscata indonesiana. Nella lista figurano, tuttavia, anche cibi di provenienza europea, come le carni di pollo dei Paesi Bassi, per le contaminazioni microbiologiche, e, addirittura al primo posto per numero di segnalazioni, il pesce importato dalla Spagna, in particolare tonno e pesce spada, per l’alta concentrazione di metalli pesanti, quali mercurio e cadmio [15].

Talvolta, sono state rilevate delle frodi commerciali, come nel caso del kebab, che, pur essendo certificato come privo di carne di maiale, in alcuni esercizi commerciali è risultato contenere questa carne in sostituzione di quella di montone, non solo contravvenendo in tal modo ai divieti imposti dalla religione musulmana, ma rischiando anche di determinare in alcuni soggetti delle serie allergie alimentari [16].

 

Conclusioni

Indubbiamente l’assunzione di cibi etnici e la frequentazione dei locali in cui essi vengono consumati rappresentano un modo per favorire una maggiore conoscenza della cultura delle popolazioni immigrate da parte dei residenti. Al di là, tuttavia, degli aspetti sociologici, la diffusione dei cibi esotici in Italia è dovuta essenzialmente alla curiosità, che induce molti a sperimentare modelli alimentari diversi dalle proprie tradizioni, al cambiamento dei gusti e al desiderio di trascorrere una serata diversa in compagnia degli amici.

Attualmente i menu etnici sono in via di introduzione anche nelle mense scolastiche di alcuni comuni, non solo per i bambini stranieri, per i quali è sancito il diritto alla disponibilità di cibi rispondenti alle loro esigenze religiose, ma anche per gli italiani, allo scopo di favorire, per l’appunto, l’integrazione e l’educazione al multiculturalismo. Tale tendenza, secondo un’indagine condotta dalla Coldiretti, vede contrario il 23% dei genitori, che temono un mancato gradimento di queste pietanze da parte dei loro figli o ritengono comunque che la cucina italiana sia la migliore in assoluto, mentre risulta favorevole il 43% delle famiglie [17].

In generale, bisogna, comunque, fare molta attenzione, perché, come si è detto, spesso i livelli di sicurezza dei cibi etnici potrebbero risultare insoddisfacenti, così come alcuni alimenti non sono l’ideale dal punto di vista dietetico, come si è visto, ad esempio, per il kebab, per cui conviene che di tali cibi si faccia un consumo oculato ed occasionale, senza abusarne.
 


Bibliografia:

Corona S., “Le migrazioni del cibo”,Eurocarni, 31(2014), pp.77-79.

Marletta L.et al., “Alimenti etnici, un fenomeno in espansione in Europa: studio in un Progetto europeo”, La Rivista di Scienza dell’Alimentazione, 35 (2006), pp.9-15.

 

Sitografia:

[1] Morrone A. – Scardella P., “Alimentazione e migrazione”, Convegno su Prevenzione Alimentazione Nutrizione, Roma, 23 maggio 2008, www.dossetti.it/convegni/2008/0523pan/relazioni/scardella.pdf

[2] www.izsvenezie.it/cibo-etnico-caratteristiche-abitudini-consumatori-italiani

[3] www.lapresse.it/coldiretti-18-consumi-cibi-etnici-e-boom-nel-2015.html

[4] Rapporto COOP 2016, www.italiani.coop/rapporto-coop-2016

[5] Rapporto COOP 2017, www.italiani.coop/wp-content/uploads/2018/01/coop-consumi-2017-V6-bassa.pdf

[6] www.coldiretti.it/economia/coldiretticensis-78-miliardi-mangiare-casa-8

[7] Ratti M, “Quanto vale il cibo etnico”, 14 novembre 2016, http://espresso.repubblica.it/affari/2016/10/12/news/il-cibo-etnico-muove-milioni-e-non-conosce-crisi-1.285655

[8] www.ansa.it/sito/notizie/politica/2017/01/26/eurispes-cibo-etnico-piu-sfizio-che-passione-per-italiani_b77f6ed8-a0d4-45f9-9b39-796ddfdf9a56.html

[9] Mascarello et al., “Ethnic food consumption: habits and risk perception in Italy”, Journal of Food Safety, 10 April 2017, http://onlinelibrary.wiley.com/doi/10.1111/jfs.12361/full

[10] http://ornelladalessionutrizionista.blogspot.it/2012/10/kebab-valori-nutrizionali-e-aspetti.html

[11] https://it.wikipedia.org/wiki/Cuscus

[12] www.iodonna.it/benessere/diete-alimentazione/2016/02/08/generazione-millenials

[13] https://sushisenpai.it/guide/tutti-tipi-di-sushi/  

[14] https://sushisenpai.it/guide/sushi-sashimi-differenza/

[15] www.coldiretti.it/salute-e-sicurezza-alimentare/salute-la-black-list-dei-cibi-piu-pericolosi

[16] www.lastampa.it/2017/05/09/societa/cucina/notizie/attualita/kebab-i-rischi-del-piatto-araboturco-9C9sIALpzYodKixeH0HkfM/pagina.html

[17] www.coldiretti.it/archivio/scuola-coldiretti-no-a-cibi-etnici-in-mensa-da-1-italiano-su-4