Cristina Cattaneo

Il nostro obiettivo è restituire un nome alle vittime del Mediterraneo. Intervista a Cristina Cattaneo

A conclusione del Premio Galileo 2019 per la divulgazione scientifica, pubblichiamo l’intervista alla vincitrice Cristina Cattaneo, professore ordinario di Medicina Legale presso l’Università degli Studi di Milano e direttore del LABANOF (Laboratorio di Antropologia e Odontologia Forense), autrice del libro "Naufraghi senza volto. Dare un nome alle vittime del Mediterraneo".


Prof.ssa Cattaneo, cosa significa restituire un nome alle vittime del Mediterraneo?

Significa innanzitutto restituire serenità ai familiari delle vittime. Questo è senz’altro l’aspetto più importante. Si tratta di un lavoro complesso e gli ostacoli sono molti, soprattutto quelli di carattere amministrativo. E poi, naturalmente, ci sono forti implicazioni per la salute mentale dei familiari delle vittime.

 

Quando ha scelto di dedicarsi all’identificazione dei migranti che muoiono nel Mediterraneo?

Al LABANOF, il Laboratorio di Antropologia e Odontologia Forense di Milano, ci occupiamo di identificare cadaveri dal 1995. Quando ho visto, io come altri miei colleghi, che di fronte a quella che si può definire la più grande emergenza di tipo umanitario dei nostri giorni, cioè l’immigrazione, nessuno faceva nulla, ho deciso di dedicarmi al problema in prima persona.

 

Qual è il suo primo dovere come medico legale?

Il mio primo dovere è quello di dare un’identità ai migranti che muoiono nel Mediterraneo. Per me, non esistono morti di serie A e morti di serie B. Insieme con i miei colleghi collaboro all’identificazione delle vittime. La nostra attività è supportata inoltre dal Commissario straordinario per le persone scomparse.

 

Una curiosità: i social network possono aiutare nell’identificazione delle vittime?

Assolutamente. Abbiamo cominciato ad utilizzare i social network dopo il naufragio di Lampedusa del 3 ottobre 2013.

 

Quindi, non solo prove scientifiche, ma anche i social possono essere utili?

Naturalmente, usiamo prove scientifiche come, ad esempio, il DNA. Tuttavia, anche i social network possono tornare utili. A volte, si presentano i familiari delle vittime per identificare i loro cari. Ci mostrano fotografie presenti nei profili che le vittime avevano sui social network e questo può aiutare nell’identificazione della vittima.

 

Mi parli di un episodio che, più di altri, l’ha colpita nel corso delle sue ricerche per identificare i migranti.

Nel mio libro ne racconti diversi. Forse, la storia che più mi ha toccato di più è quella di un ragazzo eritreo vittima di un naufragio nel 2013. Ispezionando i vestiti del ragazzo ho trovato un sacchetto di terra e la prima cosa che ho pensato è stata che si trattasse di droga. Poi, un poliziotto che assisteva all’identificazione dei morti mi ha spiegato che i migranti che provengono dall’Eritrea sono soliti portare con sé un sacchetto contenente della terra raccolta nel loro Paese. La prima cosa che si fa quando si abbandona il Paese di origine per un viaggio simile è portarsi un elemento che in qualche modo ce lo ricordi.

 

Torniamo al suo libro. Lei dedica un capitolo al “barcone di Melilli” (provincia di Siracusa) che simboleggia la drammaticità del fenomeno migratorio. È recente la notizia che il relitto del barcone è stato trasportato a Venezia per essere esposto alla Biennale (Figura 1). Secondo lei è una giusta collocazione?

Non lo so e non conosco le intenzioni dell’artista che ha realizzato l’istallazione esposta alla Biennale di Venezia. Spero si valorizzi la storia del relitto e, soprattutto, la storia delle vittime che in quel naufragio sono morte. Il barcone naufragò nel canale di Sicilia il 18 aprile 2015 causando la morte di oltre mille persone. La gente deve conoscere ciò che accaduto.

 

Figura 1. Il relitto del barcone all’Arsenale di Venezia (foto: Andrea Campiotti)

 

Cosa pensa dell’azione del Governo sul fronte dell’immigrazione?

Non sono un politico e non so, di conseguenza, quale sia la migliore soluzione dal punto di vista politico. Sono un medico legale e mi occupo da molti anni di identificare cadaveri. L’unica cosa che posso dire è che bisogna agire affinché non accadano più tragedie come quelle che racconto nel mio libro. Tornando all’esposizione alla Biennale di Venezia, spero che il relitto del barcone di Melilli possa simboleggiare la drammaticità del fenomeno migratorio e quanto non deve più verificarsi.

Roberto Defez

La ricerca scientifica può cambiare l’Italia. Intervista a Roberto Defez

Continua il ciclo di interviste organizzato dalla nostra rivista in occasione del Premio Galileo 2019 per la divulgazione scientifica, il principale evento della Settimana della scienza e dell’innovazione di Padova. Questa volta pubblichiamo l’intervista a Roberto Defez, direttore del laboratorio di biotecnologie microbiche presso l’Istituto di Bioscienze e Biorisorse del CNR di Napoli e autore del libro “Scoperta. Come la ricerca scientifica può aiutare a cambiare l’Italia”, nella cinquina dei finalisti.


Dott. Defez, nella premessa al suo libro lei riporta una serie di dati, in particolare quelli relativi al rapporto del World Economic Forum sulla competitività (dati aggiornati al biennio 2017 – 2018), quanto mai scoraggianti. Come si esce da una tale situazione?

Da una tale situazione si esce avendo una precisa visione politica del Paese.

 

In che senso?

Nel senso che l’Italia non può certamente competere a livello europeo e con il resto del mondo per bassa qualità della manodopera, bensì attraverso un’elevata qualità del lavoro. Se si vuole intraprendere questo percorso, però, bisogna investire maggiormente nel comparto della ricerca, in innovazione e nelle nuove tecnologie, seguendo una strategia a lungo termine.

 

Qual è a suo avviso il più grande ostacolo alla ricerca in Italia?

L’ostacolo più grande alla ricerca, secondo me, è rappresentato dalla incapacità da parte dei governi di avere una visione a lungo termine, rivolta ai prossimi dieci anni. Le scelte di questi anni, infatti, sono ad una visione a breve termine.

 

Nel suo libro riporta alcuni casi di disinformazione sui temi scientifici. Perché la gente non crede più alla scienza ma si affida, spesso e volentieri, alle fake news?

Perché si tratta di informazioni ritagliate sui bisogni del consumatore.

 

Ovvero?

Vede, è più facile allarmare le persone sui rischi connessi, ad esempio, al glifosato presente nei prodotti alimentari che consumiamo, piuttosto che informare sui dati pubblicati da istituti e agenzie internazionali che operano nel settore. È più facile raccontare bufale sull’agricoltura spontanea che spiegare alle persone che si tratta, invece, di un’agricoltura che richiede più tempo e attenzione e che non può certamente avere gli stessi risultati di quella tradizionale.

 

Per quanto riguarda l’agricoltura biologica?

Il biologico è una pratica agricola difficile, poco produttiva e che garantisce basse rese. L’etichetta apposta su un prodotto ci dice che un prodotto è “bio” e noi consumatori ci fidiamo di quanto riportato dall’etichetta. Tuttavia, non abbiamo la conferma che ciò che finisce sulle nostre tavole è naturale al 100 per cento. Il biologico è diventato un vero e proprio business rivolto ad una parte dei consumatori che possono permettersi di spendere di più. In realtà, dovrebbe rimanere una pratica agricola confinata alle piccole realtà produttive e ai gruppi agricoli equosolidali. Inoltre, mi sembra che il biologico sia diventato un trend che distoglie l’attenzione sulla carenza di innovazione di cui soffre il settore dell’agricoltura in Italia.

 

Cambiamo argomento. Nel quarto capitolo del suo libro, in un episodio da lei ideato con i personaggi della saga di Harry Potter, scrive: “Una parte degli scienziati italiani dovrebbe essere chiamata a un maggior grado di responsabilità e autocritica”. Cosa intende dire?

A mio avviso, in Italia non esistono sistemi per isolare chi racconta volutamente sciocchezze e inventa dati senza avere dietro prove scientifiche. In Italia è diffusa la credenza che l’autore di un articolo scientifico dice sempre la verità. Ma così non è, e alcune vicende accadute nel nostro Paese nel corso degli anni lo confermano.

 

A conclusione del suo libro lei cita un’organizzazione scientifica internazionale dal nome molto evocativo, “Tempesta di cervelli”. Come si fanno tornare i cosiddetti “cervelli in fuga” nuovamente in Italia?

Si riportano in Italia con enorme difficoltà. È davvero difficile per uno scienziato che ha avuto la possibilità di fare un’esperienza lavorativa all’estero tornare nuovamente in Italia. Il nostro Paese soffre di una sorta di emorragia interna di scienziati e di ricercatori che se ne vanno via dai nostri istituti e laboratori. E la colpa è nostra. Dobbiamo poter creare occasioni per farli rientrare in Italia.

 

Sembra complesso. Potrebbe fare un esempio.

Ad esempio, si potrebbe pensare di coinvolgere coloro che hanno fatto delle esperienze lavorative all’estero nelle commissioni che si occupano di valutare i progetti, assegnare le borse di studio ecc. Sarebbe un modo per chiedere scusa all’enorme fiume di scienziati italiani che si formano in Italia e che poi vanno all’estero.

Pietro Greco

Tra scienza e impegno civile, il ruolo della fisica per la pace nel mondo. Intervista a Pietro Greco

In occasione della Settimana della scienza e dell’innovazione di Padova, la nostra rivista ha deciso di conoscere un po’ più da vicino i finalisti del Premio Galileo 2019 per la divulgazione scientifica, che da 13 anni seleziona i migliori libri di divulgazione scientifica pubblicati in Italia nel biennio precedente. In attesa della cerimonia di consegna del Premio, che si terrà il prossimo 10 maggio, pubblichiamo l’intervista a Pietro Greco, giornalista scientifico e scrittore, autore del libro “Fisica per la pace. Tra scienza e impegno civile”, nella cinquina dei finalisti. 


Dott. Greco, quest’anno ricorrono cinquant’anni da quando l’uomo mise piede sulla Luna (1969). Qual è stato il contributo di Edoardo Amaldi, al quale dedica ampio spazio nel suo libro, per la fisica spaziale?

Edoardo Amaldi, fisico molto attivo nel campo della fisica delle particelle, è stato forse il più grande “politico della scienza” in Italia e nel mondo.

 

In che senso un “politico della scienza”?

Edoardo Amaldi intuì che se l’Europa voleva avere un ruolo chiave nell’esplorazione dello spazio doveva agire in modo comune, unendo le proprie energie. Solo così, avrebbe potuto competere con le grandi potenze mondiali di allora, Stati Uniti e Unione Sovietica. Inoltre, ha contribuito in modo determinante alla creazione dell’Agenzia spaziale europea, l’ESA, grazie alla quale l’Europa ha acquisito un ruolo di primo piano sul fronte della ricerca in campo spaziale a livello globale.

 

Nel suo libro dedica un capitolo al Centro Internazionale di Fisica Teorica (ICTP) di Trieste. Me ne parli. 

L’ICTP fu fondato nel 1964 dal fisico teorico Paolo Budinich che, anche grazie al sostegno di Edoardo Amaldi, ebbe l’idea di restituire un’anima alla città di Trieste che, in seguito alla Seconda Guerra Mondiale, ne aveva perduta una. Budinich ritenne che la città di Trieste, essendo un importante crocevia a livello europeo, potesse rinascere e diventare un polo scientifico di livello internazionale.

 

Tra i fondatori dell’ICTP c’era anche un fisico pakistano. 

Abdus Salam, unico islamico ad aver ottenuto il premio Nobel per la fisica (1979). Salam e Budinich decisero di fondare una scuola d’eccellenza, l’ICTP, con lo scopo di promuovere gli studi e le ricerche nel campo della fisica, in particolar modo accogliendo studenti e ricercatori dai paesi in via di sviluppo. Questi, terminato il periodo di studio o di ricerca presso l’Istituto, avrebbero fatto ritorno nei loro paesi di origine con un importante bagaglio di conoscenze e competenze.

 

Si tratta perciò di uno dei più importanti centri di ricerca a livello internazionale. Eppure, in Italia se ne parla poco. Perché? 

Assolutamente. Si tratta della prima scuola di formazione scientifica al mondo di alta eccellenza delle Nazioni Unite. Se ne parla poco perché probabilmente noi italiani siamo un poco esterofili.

 

Esterofili?

Vede, l’ICTP è stato fondato in Italia, da un fisico italiano ed è stato finanziato quasi interamente dallo Stato italiano fino al 1994, quando ha iniziato a beneficiare di un supporto finanziario da parte dell’UNESCO. Pertanto, si tratta di un’idea nata e coltivata nel nostro Paese. Inoltre, l’ICTP non è stato solamente un polo d’eccellenza nella ricerca scientifica, ma anche un fattore d’integrazione tra i popoli. Infatti, l’Istituto è riuscito ad attrarre nel corso degli anni giovani scienziati da tutto il mondo.

 

Un altro esempio di come la fisica può unire i popoli?

Un’altra importante dimostrazione di come la fisica può essere un efficace ponte tra i paesi è il SESAME (Synchrotron-light for Experimental Science and Applications in the Middle East), in Giordania, che rappresenta forse l’unico luogo al mondo dove israeliani, palestinesi e iraniani collaborano ad un progetto comune. Il direttore del laboratorio, peraltro, è un italiano che si è formato a Trieste, proprio all’ICTP.

 

Torniamo al suo libro. Lei parla dell’“Appello agli europei” (Aufruf an die Europäer), pubblicato nel 1914 da Albert Einstein e Georg Friedrich Nicolai, dove i due scienziati auspicano la nascita degli Stati Uniti d’Europa. Oggi, in un’Europa quanto mai divisa sul piano politico, servirebbe un nuovo manifesto, magari scritto da scienziati e non da politici, che richiami all’unità dell’Europa? 

La sua domanda mi dà l’occasione per parlarle di un convegno dedicato al fisico Carlo Bernardini, che si è tenuto il 6 maggio a Roma, presso il CNR.

 

Mi dica. 

Il 6 maggio abbiamo ricordato nell’ambito di un convegno organizzato a Roma, presso il CNR, Carlo Bernardini, importante fisico italiano e uno dei principali sostenitori dell’uso civile dell’energia nucleare in Italia. Nel 2014, insieme con Bernardini e altri scienziati, abbiamo proposto un manifesto che si rifaceva sia a quello pubblicato da Einstein e Nicolai nel 1914 che a quello pubblicato in occasione del primo grande congresso dei fisici italiani che si tenne a Pisa, nel 1839. Mi piace pensare che gli scienziati di allora furono il “collante culturale” che favorì il processo di unificazione nazionale, dando un forte impulso alla ricerca scientifica degli anni a venire.

 

Oggi qual è il ruolo della comunità scientifica?

Il ruolo è lo stesso di allora. Oggi l’Europa è politicamente fragile. La comunità scientifica deve battersi per un’Europa più unita. I diversi Stati che insieme costituiscono l’Europa, individualmente avrebbero un peso di gran lunga inferiore alle grandi potenze, come Stati Uniti, Cina e Russia. Qualsiasi progetto che miri a provocare divisione e conflitti in Europa ci rende più deboli a livello globale.

 

Sembra che gli appelli lanciati dagli scienziati nel Novecento non ci abbiamo insegnato nulla?

L’11 ottobre 1986 Michail Gorbačëv, Segretario generale del Partito Comunista dell'Unione Sovietica, incontrò il Presidente degli Stati Uniti Ronald Reagan a Reykjavik, in Islanda, per discutere la riduzione dei missili nucleari a raggio intermedio istallati sul territorio europeo. In quell’occasione Gorbačëv chiese di accordarsi per eliminare tutte le armi nucleari allora presenti in Europa e Reagan fu sul punto di accettare l’accordo. Poi, probabilmente, i due furono consigliati dai loro esperti e si decise per la sola riduzione delle armi nucleari a raggio intermedio.

 

Poi cosa avvenne? 

Ciò che avvenne lo sappiamo. Cadde l’Unione Sovietica e finì la Guerra Fredda. Tuttavia, alcuni anni dopo, in un’intervista, Gorbačëv affermò che nella decisione di eliminare tutte le armi nucleari presenti in Europa era rimasto influenzato anche dall’impegno civile dei tanti scienziati – tra i quali anche Einstein – che si erano battuti per la realizzazione della pace nel mondo. Questo è un esempio del contributo della fisica e, più in generale, della scienza alla realizzazione della pace nel mondo. I fisici che si sono battuti per la pace nel mondo hanno costruito nel dopoguerra una cultura pacifista che ha pervaso i decisori politici, scongiurando, probabilmente, il rischio di una nuova guerra nucleare.