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Rapporto ISPRA 2018: cresce il consumo di suolo in Italia

Presentato il rapporto annuale dell’ISPRA sul consumo di suolo in Italia: persi altri 52 km quadrati di territorio, con una velocità di 2 metri quadrati ogni secondo. Senza una legge nazionale sul contenimento del consumo di suolo, avverte l’ISPRA, entro il 2050 verranno cancellati oltre 1.600 chilometri quadrati di suolo. 


Il consumo di suolo in Italia ha continuato ad aumentare nel 2017. Nuove coperture artificiali hanno interessato altri 52 km quadrati di territorio, ovvero, in media, circa 15 ettari al giorno (2 metri quadrati di suolo persi ogni secondo). Il consumo di suolo è in aumento nelle regioni in ripresa economica, soprattutto nel Nord-Est del Paese, e riguarda aree protette e a rischio idrogeologico, in particolare lungo le coste e i corsi d’acqua. Il costo stimato per far fronte alla perdita di capacità di stoccaggio di carbonio, di produzione agricola e legnosa e dei servizi ecosistemici offerti dal suolo supera i due miliardi di euro all’anno. Questo è quanto emerge dall’ultimo rapporto sul consumo di suolo in Italia, la quinta edizione dedicata a questo tema, pubblicato da ISPRA (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale) insieme con SNPA (Sistema Nazionale per la Protezione dell’Ambiente) e le Agenzie per la Protezione dell’Ambiente delle Regioni e delle Province autonome. Nel 2017, secondo il rapporto, c’è stato un aumento del suolo consumato rispetto al 2016, sia pure minimo: 5400 ettari in più. In particolare, nel 2016 i km quadrati consumati erano 23.010 mentre nel 2017 si è arrivati a quota 23.062, con un aumento dello 0,23% in un anno (Tabella 1). 

 

 

2016

2017

Diff. 2016 – 2017

Consumo di suolo (% sul territorio nazionale)

7,63

7,65

 

Consumo di suolo (% sul territorio nazionale, esclusi i corpi idrici)

7,73

7,75

 

Consumo di suolo (km2)

23.010,4

23.062,5

 

Consumo di suolo netto (km2)

 

 

52,1

Tabella 1. Stima del consumo di suolo a livello nazionale, in percentuale sulla superficie territoriale e in chilometri quadrati (fonte: rapporto ISPRA sul consumo di suolo in Italia, 2018)

 

La media nazionale si attesta al 7,75 di suolo consumato a livello nazionale (era 7,73% nel 2016). Il rapporto sottolinea inoltre che circa il 25% del nuovo consumo di suolo netto registrato tra il 2016 e il 2017 è avvenuto all’interno di aree soggette a vincoli paesaggistici (coste, fiumi, laghi, vulcani e montagne), in particolare lungo la fascia costiera e i corpi idrici, dove il cemento ricopre ormai più di 350 mila ettari a livello nazionale, ovvero l’8% della loro estensione totale. Di questo, il 64% si deve alla presenza di cantieri e ad altre aree in terra battuta destinate soprattutto alla realizzazione di nuove infrastrutture, fabbricati o altre coperture permanenti. Per quanto riguarda poi le regioni, il rapporto indica che il consumo del suolo è cresciuto in ben 15 regioni italiane di oltre il 5%, con punte del 13% in Lombardia e del 12,35% in Veneto, mentre la Campania con il 10,36% è la prima regione del Mezzogiorno per consumo di suolo. Seguono Emilia-Romagna, Friuli Venezia Giulia, Lazio, Puglia e Liguria, con valori compresi tra l’8 e il 10%. La Valle d’Aosta risulta l’unica regione italiana rimasta sotto la soglia del 3%. I maggiori incrementi si sono verificati invece in Veneto (1.134 ettari consumati in più), Lombardia (+ 603 ettari) ed Emilia-Romagna (+ 456 ettari), con la Puglia (+ 409 ettari) quale regione del Meridione dove si sono consumati nell’ultimo anno più ettari di suolo. Lo sprawl urbano, dovuto sia alla pressione antropica legata all’urbanizzazione che crea la necessità di nuove abitazioni, industrie, sedi per la localizzazione di imprese e infrastrutture di trasporto, sia all’inquinamento, all’acidificazione delle piogge, alla cattiva gestione del ciclo dei rifiuti che spesso producono degrado dei suoli e inquinamento delle falde acquifere, rappresenta la principale causa dell’impermeabilizzazione dei suoli urbani.

 

    

Figura 1. Consumo di suolo a livello regionale (% 2017). In rosso la media nazionale (fonte: elaborazioni ISPRA)

 

Quando la terra è coperta da un materiale impermeabile come il cemento o l’asfalto, necessario per costruire edifici e strade, spesso anche in aree protette, il suolo ne risulta fortemente danneggiato rispetto alle sue funzioni: produzione alimentare, mantenimento della biodiversità, azione regolatrice nei confronti del flusso d’acqua verso le falde, rimozione di sostanze contaminanti. La maggiore impermeabilizzazione del suolo causa la riduzione del tasso di infiltrazione idrica (a basse ed elevate profondità), aumenta lo scorrimento superficiale sui pendii e causa una minore evapotraspirazione che aumenta le isole di calore nelle aree urbane in quanto le superfici costruite assorbono maggiori quantità di radiazione solare.Usuolo pienamente funzionante favorisce gli scambi di energia con l’atmosfera e consente di immagazzinare fino a 3.750 tonnellate per ettaro di acqua di pioggia (un metro cubo di suolo poroso può trattenere tra 100 e 300 litri di acqua).

 

Figura 2. Schema dell’influenza della copertura del suolo sul ciclo idrogeologico (fonte: http://www.coastal.ca.gov/nps/watercyclefacts.pdf)

 

Tra i numerosi problemi ambientali associati all’impermeabilizzazione del suolo, particolare rilievo riveste quello rappresentato dai possibili cambiamenti, nello stato ambientale,dei bacini di raccolta delle acque perché, a causa della impermeabilizzazione del suolo, corrono in superficie senza penetrare nelle falde sotterranee.Altro aspetto determinante e che rappresenta una delle principali funzioni a livello ambientale è la capacità del suolo di agire come deposito di carbonio del pianeta. Se gestito in maniera sostenibile, questa funzione del suolo risulta essenziale nel processo di mitigazione del cambiamento climatico perché è in grado di immagazzinare il carbonio, attraverso un processo chiamato sequestro del carbonio e di determinare così una diminuzione delle emissioni di gas serra nell’atmosfera. Al contrario, una cattiva gestione di questa funzione facilita il rilascio del carbonio del suolo nell’atmosfera sotto forma di emissioni di anidride carbonica (CO2), che in questo modo contribuisce ad aggravare il cambiamento climatico. A questo proposito, la Commissione europea stima che una perdita minima pari allo 0,1% di carbonio emesso in atmosfera dai suoli europei equivale alle emissioni di carbonio prodotte da 100 milioni di auto in più sulle nostre strade – cioè un aumento pari a circa la metà del parco auto esistente (i suoli europei contengono da 73 a 79 miliardi di tonnellate di carbonio, di cui quasi il 50% è sequestrato nelle torbiere di Svezia, Finlandia, Regno Unito e Irlanda). Per questo motivo anche la Politica Agricola Comune (PAC) dell’Unione europea ha riconosciuto la dinamica del carbonio nei suoli tra le principali questioni da affrontare per mantenere l’equilibrio degli ecosistemi e ha sottolineato che è sempre più indispensabile integrare la dimensione ambientale nei sistemi di gestione e di produzione di mercato e di sviluppo rurale. Il carbonio organico costituisce circa il 60% della sostanza organica presente nei suoli e svolge una funzione positiva essenziale su molte proprietà del suolo, concentrandosi, in genere, nei primi 30 centimetri di suolo. Favorisce l’aggregazione e la stabilità delle particelle del terreno con l’effetto di ridurre l’erosione, il compattamento, il crepacciamento e la formazione di croste superficiali. Inoltre, migliora la fertilità del suolo favorendo l’attività microbica e aumentando la disponibilità per le piante di elementi nutritivi come azoto e fosforo. In questo senso si muove il recente regime a sostegno degli agricoltori, introdotto dalla Commissione europea, “condizionato” al rispetto di alcuni criteri di gestione obbligatori in materia di salvaguardia ambientale, volto soprattutto a mantenere il carbonio presente nella sostanza organica nel terreno (fonte: Direttiva quadro sul suolo della Commissione europea). 

Se non verranno messi in atto interventi concreti per contrastare il consumo di suolo, fa sapere l’ISPRA, entro il 2050 verranno cancellati oltre 1.600 chilometri quadrati di suolo. E la situazione potrebbe persino peggiorare, superando gli 8mila chilometri quadrati, nel caso in cui la ripresa economica portasse di nuovo la velocità di trasformazione ai valori medi o massimi registrati negli ultimi decenni. Le previsioni presenti nel rapporto sottolineano l’urgenza di approvare una legge sul contenimento del consumo di suolo, un provvedimento che porterebbe una progressiva riduzione della velocità di trasformazione e ad una perdita di terreno pari a poco più di 800 chilometri quadrati fino al 2050.

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Earth Day 2018: il tema di quest’anno è stato l’inquinamento da plastica

La plastica avvelena la terra, le acque, l’aria (se bruciata), intossica animali e vegetali, entrando nella catena alimentare (anche la nostra), finendo nel cibo che mangiamo e nell’acqua che beviamo. Per cambiare la situazione attuale occorre invertire la rotta, rivedere radicalmente il nostro modello di produzione e consumo della plastica, a partire dalle nostre abitudini.


Il “settimo continente” è fatto di plastica

Nata nel 1970 da un’idea dell’attivista per la pace John McConnell e fortemente voluta dalle Nazioni Unite, la Giornata Mondiale della Terra (Earth Day) viene celebrata il 22 aprile di ogni anno in 175 paesi con l’obiettivo di sensibilizzare l’opinione pubblica circa le problematiche ambientali che interessano il nostro Pianeta. Il tema dell’edizione di quest’anno è stato la lotta all’inquinamento da plastica, un problema che, con il passare degli anni, è diventato sempre più grave. Talmente grave che, secondo uno studio pubblicato a marzo sulla rivista Scientific Reports, si sarebbe ormai creata nell’Oceano Pacifico (a ovest degli Stati Uniti) un enorme “isola di plastica” con una superficie pari a cinque volte quella dell’Italia (Figura 1). Ribattezzata il “settimo continente del Pianeta”, l’isola si estende per circa 1,6 milioni di metri quadrati e al suo interno galleggiano oltre 80 mila tonnellate di rifiuti plastici.

 

Figura 1. Pacific Trash Vortex (“Grande chiazza di immondizia nel Pacifico”) vista dal satellite

 

Secondo lo studio, l’isola si sarebbe cominciata a formare a partire dagli anni ’80, a causa dell’azione di una particolare corrente oceanica denominata “Vortice subtropicale del Nord Pacifico”, che ha permesso (e permette ancora oggi) ai rifiuti galleggianti di aggregarsi fra di loro, dando vita ad un enorme “chiazza” di spazzatura, composta prevalentemente da rifiuti plastici, presente nei primi strati della superficie oceanica. Grandi quantità di rifiuti plastici finiscono quotidianamente negli oceani e nei mari di tutto il mondo, con una velocità pari a circa 200 chilogrammi al secondo, provocando considerevoli danni agli ecosistemi marini. A questo proposito, un recente articolo pubblicato su Science riporta che ogni anno vengono gettati nelle acque globali oltre 8 milioni di tonnellate di rifiuti plastici, di cui solamente 8 mila tonnellate vengono recuperate da associazioni e gruppi di volontari. Per non parlare poi dei rifiuti plastici che rimangono a terra. La plastica avvelena la terra, le acque, l’aria (se bruciata), intossica animali e vegetali, entrando nella catena alimentare (anche la nostra), finendo nel cibo che mangiamo e nell’acqua che beviamo. Anche se oggi è difficile definire con precisione i possibili rischi che derivano per la salute umana, sono stati identificati comunque una serie di problemi legati all’ingestione di microplastiche attraverso il consumo di prodotti itti contaminati. Considerando che molti degli additivi e dei contaminanti associati alle microplastiche (particelle di materiale plastico generalmente inferiori a un millimetro) sono pericolosi per la salute umana e per l’ambiente, questo aspetto rimane uno dei principali temi di ricerca oggi e nel futuro, sostiene Greenpeace.

 

Quanta plastica c’è nel mondo

Secondo uno studio pubblicato sulla rivista scientifica Science Advances la produzione globale di plastica è passata da 2 milioni di tonnellate nel 1950 a 380 milioni di tonnellate nel 2015 (“Production, use, and fate of all plastics ever made”, R. Geyer, J. R. Jambeck, and K. Lavender Law, 19 luglio 2017), registrando un tasso di crescita medio dell’8,4% ogni anno (Figura 2). Se la quantità messa in commercio nel 2015 fosse stata ripartita equamente tra la popolazione globale, circa 7,5 miliardi di persone, senza distinzioni tra economie più ricche e più povere, adulti o bambini, ad ogni abitante della Terra sarebbero toccati almeno 50 chilogrammi di plastica. In altri termini, ogni anno, per ogni uomo, vengono messi in commercio all’incirca 50 chilogrammi di plastica e la quantità è destinata ad aumentare nei prossimi anni. Se poi facciamo riferimento a tutta la plastica prodotta a livello globale dal 1950 al 2015, si arriva ad una cifra compresa tra le 8 e le 8,5 miliardi di tonnellate, di cui la metà sarebbe stata prodotta a partire dagli anni ‘2000.  Non tutta questa plastica è ancora in circolazione, ma calcolare quanta ne venga gettata via ogni anno e quanta invece continui a essere usata è complicato. Tuttavia, sappiamo che, dell’ammontare di plastica prodotta in tutti questi anni 2 miliardi sono ancora in uso, mentre 6,3 miliardi sono diventati ormai uno scarto. Di questi il 9% è stato riciclato, il 12% incenerito e il 79% è finito nell’ambiente terrestre e marino (J. A. Beckley, University of Georgia).

Figura 2. Produzione annuale di plastica nel mondo (Fonte: “Production, use, and fate of all plastics ever made”, R. Geyer, J. R. Jambeck, and K. Lavender Law, Science Advances, 19 luglio 2017)

 

La nuova direttiva europea contro il consumo di bottiglie di plastica

Quando si parla di consumo di plastica, le bottiglie sono il prodotto che incide maggiormente, dato l’uso spesso eccessivo che se ne fa. Secondo i dati resi noti dall’Osservatorio Euromonitor International, oggi se ne acquistano nel mondo circa un milione ogni minuto, ovvero 20 mila al secondo. Per quanto riguarda l’Italia, ogni abitante beve in media, ogni anno, 208 litri di acqua in bottiglia. Siamo i primi in Europa, dove la media è di circa 106 litri per abitante, e i secondi al mondo dopo il Messico, dove il consumo pro capite è di 244 litri. Un trend che la Commissione europea vorrebbe frenare – o quanto meno rallentare – con la nuova direttiva sulle acque potabili, che ha l’obiettivo di ridurre il consumo di acqua in bottiglia nei paesi dell’Unione Europea. Una valutazione preliminare dell’impatto che avrà la direttiva, fatta dai tecnici della Commissione, prevede una possibile riduzione del 17% del consumo di acqua in bottiglia, grazie a nuove norme, che potrebbero portare ad un risparmio economico per le famiglie pari a 600 milioni di euro ogni anno e una riduzione complessiva dell’inquinamento da plastica. La direttiva contiene, inoltre, nuovi parametri che sono stati inseriti o rivisti per garantire e migliorare gli standard qualitativi delle acque europee. Sulla scia delle raccomandazioni dell’Organizzazione mondiale della sanità, la Commissione europea punta, con i nuovi criteri, a ridurre batteri e virus patogeni, sostanze nocive (uranio e microcistine), contaminanti derivanti da attività industriali (sostanze chimiche perfluorate e i prodotti usati per la disinfestazione come clorato e biosfenolo) presenti nelle acque. Secondo le stime della Commissione, i nuovi parametri qualitativi ridurranno i rischi potenziali legati al consumo di acqua potabile dal 4% all’1%. Tuttavia, la riduzione del consumo di bottiglie di plastica non sarà una passeggiata. Uno dei problemi, infatti, che la stessa direttiva evidenzia – che non riguarda l’Italia, dove la rete idrica riesce a raggiungere il 99% della popolazione – è la scarsità di acqua potabile e di conseguenza la sfiducia nel bere acqua dal rubinetto, situazione che tocca in particolare i paesi dell’Est Europa (la Romania è ultima in classifica), dove soltanto il 57% della popolazione ha accesso all’acqua potabile in casa.

 

Nel 2050 ci sarà più plastica che pesci nelle acque mondiali

Una ricerca della Cornell University di Ithaca (Stati Uniti), apparsa su Science a gennaio, stima che siano presenti nelle acque di tutto il mondo almeno 11,1 miliardi di oggetti di plastica, che rappresentano una seria minaccia per i 124 mila coralli che costituiscono a loro volta le 159 barriere coralline presenti nel Pacifico (Myanmar, Tailandia, Indonesia, Australia). Secondo le stime, la quantità di rifiuti plastici sulla barriere coralline aumenterà di altri 15 miliardi di unità entro il 2025. L’UNEP, Agenzia Onu per l’Ambiente, sottolinea che, di questo passo, entro il 2050, nei mari e negli oceani ci sarà più plastica che pesci. A proposito di plastica in mare, lo scorso ottobre fece scalpore una delle foto finaliste del concorso internazionale di fotografia naturalistica Wildlife photographer of the year 2017”, che mostrava quello che è stato definito dai media uno “stridente abbraccio” tra un cavalluccio marino e un cotton fioc (Figura 3).

 

Figura 3. “Sewage Surfer”, tra le fotografie finaliste del Wildlife Photographer of the Year 2017 (foto: Justin Hofman

 

La foto fu scattata a largo dell’Indonesia dal fotografo Justin Hofman, e fece in pochi giorni il giro del mondo, diventando il simbolo del "mare di plastica" che invade e inquina le nostre acque. Una foto che ci deve far riflettere sulla gravità del problema dell’uso sconsiderato della plastica e rende evidente, oggi più che mai, l’urgenza di avere da parte dei governi di tutto il mondo interventi immediati sul quadro legislativo, produttivo e sulla gestione dei rifiuti. 


Note:

  • La fotografia d’intestazione (la prima dall’alto) dell’articolo raffigura un gigantesco affresco realizzato sulla sabbia. In occasione della Giornata Mondiale della Terra, Europe Environmental Bureau, associazione che coinvolge oltre 140 organizzazioni non governative ambientaliste, ha lanciato la campagna di sensibilizzazione “Break free from plastic” (“Liberiamoci della plastica”);

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Città resilienti e sostenibili, i benefici delle infrastrutture verdi

In UE, edifici responsabili del 40% dei consumi energetici e del 36% delle emissioni di CO2. Allarme Climate Change, secondo una recente ricerca dell’Università del Newcastle sarebbero a rischio 571 città in Europa. Città verdi e sostenibili, le “infrastrutture verdi” aiutano a contrastare gli effetti del cambiamento climatico e favoriscono la resilienza urbana.


Allarme Climate Change, interessate 571 città europee

La Direttiva 2010/31/UE indica che il 40% del consumo energetico totale sia oggi dovuto agli edifici, responsabili, secondo le stime, di circa il 36% delle emissioni totali di CO2. A questo proposito, la Commissione Europea ha espresso la volontà di intervenire affinché si possano contenere i consumi energetici e ridurre, al contempo, le emissioni di anidride carbonica. Da tempo, il Joint Research Centre dell’ISPRA (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale) sottolinea i rischi legati ai cambiamenti climatici per le città europee, con stime che prevedono il raddoppio del numero di alluvioni entro il 2050 che causeranno perdite economiche fino a 24 miliardi di euro l’anno. Una recente ricerca dell'Università di Newcastle ha stimato l’impatto dei cambiamenti climatici in 571 città europee che si troveranno a dover affrontare “eventi estremi” con sempre maggior frequenza. In particolare, mentre nei paesi del Sud dell’Europa si registrerà un aumento considerevole delle giornate di afa e delle ondate di calore – Roma risulta tra le città che saranno maggiormente interessate dal fenomeno –, in quelli dell’Europa centrale si registreranno elevati aumenti di temperatura compresi tra i 7 (secondo i più ottimisti) e i 14 (secondo i più pessimisti) gradi C nei periodi estivi.

Per rispondere ai pericoli – attuali e potenziali – causati dal cambiamento climatico, l’Unione Europea pone l’attenzione, con la COM(2013) 249 final – “Infrastrutture verdi Rafforzare il capitale naturale in Europa”, su una serie di soluzioni basate su “infrastrutture verdi” (coltri vegetali sugli edifici nelle aree urbane, giardini pensili, corridoi verdi, piantumazioni di siepi e alberi nelle città) al fine di contribuire alla diminuzione delle emissioni di gas serra nelle città e di appianare, per quanto possibile, il fenomeno delle cosiddette “isole di calore” (Urban Heat Island – UHI), sempre più diffuse nelle maggiori città del mondo.

 

I benefici delle “infrastrutture verdi”

Nei periodi caldi, le aree urbane hanno una temperatura che è mediamente di 0,5 – 3,0 °C maggiore rispetto a quella delle campagne circostanti. Gli edifici, le strade e i parcheggi accumulano calore durante le ore più calde e lo rilasciano poi lentamente, determinando un notevole innalzamento della temperatura, al quale si aggiunge il calore emesso dagli impianti di condizionamento dell’aria presenti sugli edifici. Nelle città, dissipare il calore accumulato diviene, inoltre, più urgente dato l’inquinamento atmosferico generato dal traffico veicolare. Una prima misura volta a contrastare le “isole di calore” è quella di inserire superfici verdi sugli edifici cittadini al fine di diminuire la temperatura dell’aria (Figura 1).

 

Figura 1. Esempi di tipologiecostruttive di verde verticale

 

L’azione di ombreggiamento da parte della vegetazione (piante erbacee, alberi, cespugli ecc.) e il fenomeno dell’evapotraspirazione – cioè, la quantità di acqua che si disperde nell’atmosfera sotto forma di vapore acqueo, mediante i processi di evaporazione nel suolo e di traspirazione delle piante (circa il 2% della superficie fogliare) – contribuisce a mitigare le temperature medie massime dell’aria e delle pareti esterne degli edifici cittadini (Figura 2). Il verde nelle città consente, infatti, un sensibile prolungamento della durata dell’”impermeabilizzazione” del suolo e degli edifici  (per “impermeabilizzazione” del suolo si intende la costante copertura di un’area di terreno e del suo suolo con materiali impermeabili artificiali, come asfalto e cemento), costituisce in estate e in inverno un forte isolamento da sollecitazioni termiche, meccaniche ed acustiche, attutendo i rumori e riduce le escursioni termiche sia giornaliere che stagionali. La copertura verde sui tetti degli edifici (green roof), invece, regola la regimentazione idrica dei deflussi delle acque meteoriche, contribuendo ad alleggerire il carico sulla rete di canalizzazione delle acque bianche che, se opportunamente raccolte, potrebbero essere riutilizzate per l’approvvigionamento di acqua alla vegetazione stessa.

 

Figura 2. Benefici delle “infrastrutture verdi” (fonte: A. Kipar, Rigenerare le città, Maggioli Editore, 2008)

 

Gli obiettivi internazionali

Il Patto dei Sindaci del 2008 (The Covenant of Mayors) e successivamente il Global Covenant of Mayors for Climate and Energy 2017 hanno l’obiettivo di sostenere tutte le azioni possibili per accelerare la decarbonizzazione dei paesi dell’Unione Europea. Nel 2016, secondo i dati preliminari, le emissioni di gas a effetto serra nell’UE risultavano essere inferiori del 23% rispetto a livelli del 1990 (Figura1).

 

Progressi verso il raggiungimento degli obiettivi di Europa 2020-30 (emissioni totali di gas a effetto serra) (Fonte: COM(2017) 646 final)

Figura 3. Previsioni con le misure attuali – WEM (With Existing Measure) in base alle dichiarazioni degli SM (State Members)

 

Il Pacchetto clima-energia 20-20-20, ovvero l’insieme delle misure pensate dall’Unione Europea per il periodo successivo al termine del Protocollo di Kyoto, di cui l’Italia è paese firmatario, prevede una riduzione delle emissioni del 20% (o del 30% in caso di accordo internazionale) rispetto ai livelli del 1990; ridurre i consumi energetici del 20% aumentando l'efficienza energetica; soddisfare il 20% del fabbisogno energetico europeo attraverso fonti di energia rinnovabili.

Sulla scia della consapevolezza del ruolo che le città possono giocare nella lotta al cambiamento climatico, nel 2005 è nata la C40 (Cities Climate Leadership Group), un network internazionale che connette le 90 città più grandi del Pianeta nello sviluppo di politiche e programmi volti alla riduzione delle emissioni di gas serra e dei danni e rischi ambientali causati dai cambiamenti climatici. Tra i principali obiettivi di C40 vi è quello di mitigare la situazione climatica delle città entro il 2050, anno in cui dovrà essere attuato un taglio quasi totale delle emissioni di gas serra derivanti da attività antropiche (Accordo di Parigi). Per quanto riguarda l’Europa, è previsto un taglio di almeno l’80% delle emissioni rispetto al 1990. A questo proposito, l’ISPRA ha indicato una serie di target: 230 MtCO2eq nel 2025, 120 MtCO2eq nel 2035, 65 MtCO2eq. Il rapporto Deloitte “Verso il 2050 – Un modello energetico sostenibile per l’Italia” riporta un target compreso tra 26 e 104 MtCO2eq (Figura 4).

 

Figura 4. Stime sulla riduzione di CO2 per l’Italia entro il 2050

 

Secondo le previsioni delle Nazioni Unite, nel 2050, il 70% della popolazione mondiale – circa 9,3 miliardi di persone – vivrà nelle principali aree urbane del pianeta. Le “infrastrutture verdi” migliorano il microclima cittadino e rappresentano, come ha più volte sottolineato la Commissione europea, una tecnologia naturale sostenibile dal punto di vista energetico e ambientale, capace di contrastare gli effetti del cambiamento climatico e favorire la resilienza urbana.


L'immagine d’intestazione dell’articolo mostra la Hundertwasserhaus, a Vienna. La foto è stata scattata da Andrea Campiotti (autore dell'articolo).