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I negoziati della COP23 procedono lentamente. Nel frattempo, crescono gli investimenti nella finanza sostenibile

Alcuni timidi passi in avanti, poche decisioni e molti rinvii. Così si è conclusa la ventitreesima edizione della Conferenza mondiale sul clima della Nazioni Unite (Cop23). Dopo sei anni di discussione l’agricoltura entra a far parte dei negoziati. A due anni dalla Cop21, Parigi ospita il One Planet Summit. Nel frattempo, crescono gli investimenti nella finanza sostenibile.


Le Isole Fiji lanciano il “Dialogo di Talanoa”

La ventitreesima edizione della Conferenza mondiale sul clima della Nazioni Unite (Cop23) si è conclusa da alcune settimane ma il dialogo verso un’intesa globale nella lotta al cambiamento climatico prosegue. I lavori della Cop23 – presieduta dalle Isole Fiji, ma ospitata per ragioni logistiche a Bonn, in Germania – si sono ufficialmente conclusa la mattina del 18 novembre dopo dieci giorni di negoziati internazionali, da alcuni – i più scettici – definiti un vero e proprio omaggio ai riti dell’”eco-diplomazia”. Alla Cop23 è stato riconosciuto che gli impegni presi finora verso l’attuazione dell’Accordo di Parigi, tra i quali quello di mantenere il riscaldamento globale al di sotto dei 2 °C dai livelli preindustriali (prima del 1850), non sono sufficienti. Nonostante le misure auspicate, infatti, sostiene l’Unep (Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente), le emissioni antropiche porteranno comunque il pianeta verso un aumento della temperatura globale tra i 2,9 e 3,4 °C entro fine secolo, con conseguenze ambientali disastrose: ondate di calore, inondazioni e periodi di siccità più frequenti e intensi, impatti sulle specie animali e vegetali, una maggiore diffusione delle malattie e un notevole aumento dei decessi. Ad accelerare le “infinite” trattative della Conferenza sono state le Isole Fiji, che hanno lanciato il Fiji Momentum for Implementation, un documento volto a far accelerare il percorso di attuazione degli impegni presi in vista dell’Accordo di Parigi. Tra i principali obiettivi del documento compaiono:

  • Linee guida di carattere generale al fine di accelerare gli impegni presi per contrastare il cambiamento climatico e completare il programma di lavoro dell’Accordo di Parigi entro il 2018;
  • Disposizioni per rafforzare l’implementazione e le ambizioni per i piani da attuare prima del 2020, anno in cui sarà operativo l’Accordo di Parigi;
  • Delineamento del Facilitative Dialogue 2018, conosciuto anche con il nome di “Dialogo di Talanoa” per fare periodicamente il punto sugli sforzi e i progressi verso gli obiettivi dall’Accordo di Parigi.

Il termine “Talanoa” nella lingua fijiana significa “parliamoci con il cuore” ed è proprio questo l’appello che fanno le Isole Fiji, uno dei paesi più vulnerabili al mondo di fronte ai cambiamenti climatici, ai paesi che hanno firmato l’Accordo mondiale sul clima. Il Dialogo avrà inizio a gennaio 2018 e si concluderà a novembre dello stesso anno nel corso della Cop24 di Katowice. Nei dieci mesi che precederanno la Cop24, i Paesi che hanno aderito all’Accordo di Parigi lavoreranno in un processo decisionale collettivo che dovrà portare avanti l’”agenda del clima globale”. 

 

Alcuni timidi passi in avanti

Sugli impegni da adottare di qui al 2020, le decisioni sono state poche e i rinvii molti. Per quanto riguarda le azioni di riduzione delle emissioni di CO2 da implementare prima del 2020, nel corso della Cop23, è stato stabilito che entro maggio 2018 i paesi firmatari dovranno rendere conto delle loro politiche climatiche, con una valutazione finale (stocktake) che dovranno presentare alla Cop25 nel 2019 – ancora non è nota la città che la ospiterà – oltre alla redazione di report sugli impegni finanziari. In particolare, durante la Conferenza di Bonn, si è discusso circa il Green Climate Fund (di cui si parla già da alcuni anni), cioè il fondo di 100 miliardi di dollari annui dedicato ai Paesi più poveri e vulnerabili ai cambiamenti climatici, previsti dal 2011, ribaditi nell’Accordo di Parigi, ma finora mai stanziati integralmente.

Un rapporto dell’Ocse pubblicato ad ottobre 2016, indicava in 58 miliardi di dollari la cifra raggiunta in cinque anni da tutti i paesi aderenti all’iniziativa. Tuttavia, dal rapporto emerge che solamente il 16% del totale dei finanziamenti è stato stanziato per i programmi di adattamento. Per quanto riguarda i combustibili fossili, durante la Conferenza, circa una ventina di paesi – tra i quali anche l’Italia – hanno annunciato di voler stringere un’alleanza internazionale per il superamento dell’uso del carbone al 2030 (Power past coal alliance). A tal proposito, l’Italia ha già presentato la nuova Strategia Energetica Nazionale (SEN) in cui viene – secondo le stime – anticipata l’uscita dal carbone al 2025, per arrivare a un taglio definitivo delle emissioni di CO2 derivanti dall’estrazione di carbone entro il 2050. L’obiettivo dell’Alleanza è quello di arrivare a cinquanta adesioni prima dell’apertura della Cop24 di Katowice. 

 

L’agricoltura tra i temi chiave dei negoziati

Altro avanzamento importante si è avuto per quanto riguarda il settore dell’agricoltura. Da ormai sei anni si discuteva circa l’attuazione di un programma di lavoro che riguardasse l’agricoltura e la sicurezza alimentare e che andasse a implementare l’Accordo di Parigi. Nel corso della Conferenza di Bonn, il tema dell’agricoltura è entrato a pieno titolo nei negoziati internazionali. Finora, infatti, i paesi in via di sviluppo si erano sempre mostrati restii a concordare obblighi di riduzione delle emissioni di CO2 derivanti dall’agricoltura – settore fondamentale per l’economia di molti dei paesi più poveri – e, allo stesso tempo, i paesi industrializzati non avevano mai espresso in modo chiaro la volontà di sovvenzionare programmi di sviluppo nei paesi in via di sviluppo. Secondo un recente rapporto della FAO, pubblicato in concomitanza con i lavori della Cop23, agricoltura, silvicoltura e cambiamenti nell’uso del suolo (ILUC) sono responsabili di oltre il 20% delle emissioni di CO2 globali. Inoltre, sottolinea la FAO, oltre un quarto delle perdite e dei danni causati da disastri climatici – che oggi colpiscono soprattutto i paesi del Sud del mondo – interessa l’agricoltura, tasso che sale all’80% se si tiene conto degli effetti più lenti, come le siccità. Si stima che il settore agricolo, inclusi forestazione e altri usi del suolo, contribuisce per circa il 21% alle emissioni globali di gas serra (GHG) di origine antropogenetica, soprattutto metano (CH4), protossito di azoto (N2O) e anidride carbonica (CO2). In particolare, le attività zootecniche, ci dice la FAO (Tackling climate change through livestock, 2013) sono responsabili per circa il 14,5% delle emissioni GHG (7,1 Gt di CO2per anno). Contemporaneamente, l’agricoltura ha il potenziale di mitigare tra le 5,5 e le 6 Gt di CO2ogni anno attraverso il sequestro di carbonio nel suolo. In Italia, il 7% delle emissioni di CO2 (circa 420 milioni di tonnellate di CO2 equivalente, secondo il rapporto ISPRA 2014) deriva dal settore agricoltura. La FAO ricorda che buone pratiche e tecnologie innovative e sostenibili per gestire gli allevamenti e i reflui potrebbero diminuire significativamente le emissioni GHG provenienti dal comparto zootecnico (Figura 1). 

 

Figura 1. Contributo degli allevamenti animali alle emissioni GHG (fonte: FAO’s Work on Climate Change, United Nations, Conference 2017)

 

Altro settore di interesse è rappresentato dal degrado del suolo che, secondo la FAO,  ha finora favorito il rilascio in atmosfera di circa 78 miliardi di tonnellate di carbonio. La Figura 2 mostra la quantità di carbonio presente nei primi 30 cm di profondità del suolo, in tonnellate per ettaro nei diversi paesi del mondo. La FAO riporta che la rigenerazione dei suoli degradati e l’impiego di tecniche di agricoltura conservativa possono rimuovere dall’atmosfera fino a 51 miliardi di tonnellate di carbonio che potrebbero essere sequestrati (accumulati) nel suolo con benefici in termini di aumento della produzione annuale dei prodotti agricoli di oltre 17 milioni di tonnellate. 

 

Figura 2. Mappa GSOC – Global Soil Organic Carbon (Fonti: FAO, ITPS, Global soil partnership, 2017)

 

La mappa GSOC rappresenta uno strumento di informazione per monitorare le condizioni dei suoli, identificare le aree degradate, stabilire i livelli di ristrutturazione, esplorare i potenziali del sequestro di SOC (Soil Organic Carbon), sostenere i rapporti sulle emissioni di gas serra nell’ambito dell’Unfccc e di evidenziare le decisioni per combattere il cambiamento climatico in termini di mitigazione e/o adattamento. Inoltre, non è secondario sottolineare, come già riportato nel rapporto dell'Oxfam “Disuguaglianza climatica”, che il 10% della popolazione più ricca della Terra è responsabile del 50% delle emissioni di anidride carbonica in atmosfera, mentre la metà più povera della popolazione mondiale, circa 3,5 miliardi di persone, ne produce solo il 10%, ma è la prima vittima di alluvioni, siccità e altri cataclismi legati agli effetti del cambiamento climatico.In aggiunta a ciò, non è secondario sottolineare che lo spreco di cibo, quantificabile annualmente in circa 1,6 miliardi di tonnellate, genera l’8 % del totale annuale di emissioni GHG, con un costo complessivo di 2600 miliardi di dollari ogni anno, di cui 700 miliardi per costi ambientali e 900 miliardi per costi sociali (FAO’s Work on Climate Change, United Nations, Conference 2017).

 

Non c’è un pianeta B. Crescono gli investimenti nella finanza sostenibile

A due anni esatti dalla firma dell’Accordo di Parigi – era il 12 dicembre 2015 – i governi di tutto il mondo si sono ritrovati nuovamente a Parigi. La mattina del 12 dicembre si è tenuto nella capitale francese il One Planet Summit, vertice internazionale con l’obiettivo di raccogliere finanziamenti sia pubblici che privati per la lotta al cambiamento climatico. 

 

Figura 3. One Planet Summit, Parigi, 12 dicembre 2017

 

Al summit – al quale hanno preso parte capi di stato, gruppi bancari, rappresentanti di Ong e investitori di tutto il mondo – le notizie positive non sono mancate. La Banca Mondiale, tra gli organizzatori del summit, ha dichiarato che non finanzierà più, a partire dal 2017, l’esplorazione e l'estrazione di petrolio e gas, tranne che in casi particolari nei paesi in via di sviluppo, e ha annunciato di voler fare maggiore trasparenza sulle emissioni di gas ad effetto serra prodotte dai progetti finanziati, già dall’anno prossimo.

Nel corso del summit, inoltre, è giunta la notizia che uno dei più grandi fondi pensioni del Giappone, un colosso da 1275 miliardi di dollari di attivi, ha cominciato a diversificare e a investire nei green bonds e nelle quote dei cosiddetti fondi ISR (Investissement Social et Résponsable), partendo da una cifra iniziale di 10 miliardi di dollari. Anche l’italiana Enel, insieme con altre otto grandi aziende, ha promesso di sostenere la diffusione delle emissioni di titoli verdi per un valore di 26 miliardi di dollari. Sul “carro dei green” sono poi saliti BnpParibas, il primo gruppo bancario francese, che ha deciso di non investire più nelle aziende petrolifere e di spostare risorse nella finanza sostenibile, oltre all’Edf – Electricité de France, l’azienda energetica nazionale. Quest’ultima ha annunciato di voler realizzare circa 30 mila ettari di campi fotovoltaici (per la produzione di 30 gigawatt) entro il 2035, e l’AXA, un’importante compagnia assicurativa francese, che si è data l’obiettivo di investire fino a 12 miliardi di euro, entro il 2020, nella finanza sostenibile ma anche di disinvestire almeno 3 miliardi di euro dalle aziende che producono energia da fonti inquinanti quali carbone e sabbie bituminose.

Sempre sul fronte delle aziende, a Parigi è stato lanciato il Climate action 100+, un’iniziativa che permette di mettere in relazione i maggiori gruppi di investimento del pianeta, con un patrimonio complessivo valutato in 26 trilioni di dollari (1 trilione equivale a circa 1000 miliardi). Queste scelte si allineano con un trend positivo degli investimenti fatti nella finanza sostenibile. Nel corso del 2017, fa sapere la Climate Bond Iniziative, sono stati investiti circa 150 miliardi di dollari in green bonds (contro gli 82 miliardi del 2016) e, secondo le previsioni dell’organizzazione, il valore complessivo degli investimenti potrà salire a 1000 miliardi a livello globale entro il 2020. 

Il One Planet Summit ha rappresentato una “mini-Cop” in vista dei prossimi appuntamenti dedicati al tema dei cambiamenti climatici, primo fra tutti, la prossima Cop24. Gli organizzatori (Governo francese, Nazioni Unite e Banca Mondiale) hanno annunciato che presenteranno un bilancio del summit entro la fine del 2018.

 

La Cop24 si terrà a Katowice, nel cuore carbonifero della Polonia

Sarà la città di Katowice, in Polonia, ad ospitare la prossima Conferenza sul clima delle Nazioni Unite (Cop24), che si terrà dal 3 al 14 dicembre 2018. Si tratterà di un evento cruciale nella lotta ai cambiamenti climatici. A Katowice, infatti, si dovranno rivedere le cosiddette Ndc (Nationally determined contribution), ovvero le promesse avanzate dai vari paesi che hanno aderito all’Accordo di Parigi in materia di riduzione delle emissioni di CO2. La destinazione della prossima Conferenza sul clima è tuttavia singolare: la Polonia è tra i primi dieci paesi al mondo per riserve di carbone, grazie alle quali copre l’80% del fabbisogno energetico nazionale. Secondo una ricerca dell’istituto di ricerca WiseEuropa, la produzione di carbone nel Paese è ancora molto elevata (nel 2016, ad esempio, ha superato le 70 milioni di tonnellate). Katowice si trova in Slesia, la regione più ricca della Polonia e quella dove si trovano le principali riserve carbonifere del paese.

Alla prossima Cop24 sarà necessario stabilire un pacchetto di regole condivise per rendere operativi gli impegni presi a conclusione della Cop21 di Parigi nel 2015 (Rule Book). In particolare: definire una serie di azioni da intraprendere prima del 2020, anno in cui sarà operativo l’Accordo di Parigi; definire la questione dei finanziamenti necessari per lotta ai cambiamenti climatici e di quelli da stanziare per sostenere i paesi più vulnerabili, soprattutto quelli più poveri, alla minaccia climatica.


Nota:

  • CO2-eq (CO2equivalente): è un’unità di misura che permette di valutare le emissioni di gas serra diversi e con differente effetto serra. Ad esempio, una tonnellata di metano ha un potenziale effetto serra 21 volte superiore rispetto alla CO2, e quindi viene contabilizzato come 21 tonnellate di CO2equivalente. Maggiore è il GWP (potenziale climalterante) del gas considerato, più elevato sarà il suo contributo all’effetto serra (Intergovernmental Panel on Climate Change -IPCC).
  • Gt (gigatonnellata): quantità equivalente a 1 miliardo di tonnellate. Per confrontare direttamente le emissioni di CO2 con le concentrazioni di CO2, entrambe le grandezze debbono essere convertite in gigatonnellate (Gt) di CO2. Le emissioni di CO2 sono solitamente espresse in gigatonnellate di carbonio (GtC). Una Gt equivale ad un miliardo di tonnellate, però stiamo considerando soltanto il carbonio della molecola di CO2. La massa atomica del carbonio è 12, mentre quella della CO2 è 44. Pertanto, per convertire una Gt di carbonio in una Gt di CO2, occorre moltiplicare per 44 e dividere per 12. Dunque, una Gt di carbonio equivale a 3,67 Gt di CO2.

Cimici (1)

Le specie aliene alla conquista degli ecosistemi agricoli europei

Le specie aliene si diffondono in Europa minacciando gli ecosistemi e causando ingenti danni all’agricoltura. L’Unione Europea ha elencato 12 mila specie, di cui almeno il 10-15% risulta essere invasivo. ASAP: bisogna creare una rete di controlli sul territorio e sui potenziali siti di entrata delle specie aliene.


Le «specie esotiche» in Europa

L’Unione Europea ha elencato circa 12.000 «specie esotiche», di cui circa il 10-15% risulta essere invasivo, presenti in zone sia rurali che urbane, nei corsi d’acqua e negli ambienti marini europei. Il Regolamento (UE) n. 1143/2014 definisce «specie esotica» quella specie che viene introdotta in seguito ad attività umane in un’area che non avrebbe potuto raggiungere in modo autonomo. Nella categoria «specie esotica» sono presenti animali, piante e microorganismi (Tabella 1):

 

A. «specie esotica»: qualsiasi esemplare vivo di specie, sottospecie o taxon inferiore di animali, piante, funghi omicrorganismi spostato al di fuori del suo areale naturale; sono compresi le parti, i gameti, i semi, le uova o i propaguli ditale specie, nonché gli ibridi, le varietà o le razze che potrebbero sopravvivere e successivamente riprodursi.

B. «specie esotica invasiva»: una specie esotica la cui introduzione o diffusione in un' area può minacciare la biodiversità e i servizi ecosistemici collegati, o ha effetti negativi su di essi.

C. «specie esotica invasiva di rilevanza unionale»: una specie esotica invasiva i cui effetti negativi sono considerati tali da richiedere un intervento concertato da parte dell’Unione Europea.

D. «specie esotica invasiva di rilevanza nazionale»: una specie esotica invasiva, diversa da una specie esotica invasiva di rilevanza unionale, di cui uno Stato membro, in base a prove scientifiche, considera significativi per il proprio territorio, o per una sua parte, gli effetti negativi del rilascio e della diffusione, anche laddove non interamente accertati, e che richiede un intervento a livello di detto Stato membro.

Tabella 1. Fonte: Regolamento (UE)n. 1143/2014 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 22 ottobre 2014 recante disposizioni volte a prevenire e gestire l’introduzione e la diffusione delle «specie esotiche» invasive.

 

Le «specie esotiche» rappresentano una minaccia solo quando raggiungono habitat naturali dove non vi sono già concorrenti o predatori.Tra le principali cause di diffusione delle specie invasive vi sono gli spostamenti dell’uomo e delle merci nel mondo. La Millennium Ecosystem Assessment (Valutazione degli ecosistemi del millennio) definisce il fenomeno come una delle prime cause di perdita di biodiversità. In particolare, si stima che circa il 15% delle specie aliene introdotte sinora sia potenzialmente pericoloso per la biodiversità europea. A tal proposito, l’ultimo inventario DAISIE (Delivering Alien Invasive Species Inventories for Europe) ha individuato 10822 specie alloctone (specie invasive o specie aliene) in Europa. Dall’inventario emerge che dal 1950 ad oggi si è insediata più di una specie invasiva ogni anno, la maggior parte delle quali proviene dall’Asia e dal Nord America. Questo flusso è stato favorito dal mercato unico europeo e dalla libera circolazione senza accurati controlli ai confini. All’IPPC (International Plant Protection Convention) spiegano che «le specie invasive raggiungono nuovi habitat in vari modi, ma il trasporto marittimo sembra sia il principale mezzo di diffusione anche in considerazione del fatto che circa il 90% del commercio mondiale avviene ancora oggi via mare. Oltre a provocare gravi danni all’ambiente e all’economia, le specie invasive rappresentano una minaccia anche per l’uomo (si ricordi il caso della zanzara tigre che ormai abita abitualmente nelle aree urbane in Italia). Stando alle stime, il costo a livello europeo in termini di controllo ed eradicazione delle «specie esotiche» invasive supera ormai i 10 miliardi di euro all’anno.

 

Chi monitora le specie aliene

L’EPPO (European Plant Protection Organization) è un organismo intergovernativo che si occupa di controllare la diffusione di specie aliene nel settore agricolo e di proteggere le specie vegetali in Europa. In altre parole, l’EPPO rappresenta il Servizio Fitosanitario europeo. Fondato nel 1951 da 15 paesi (tra i quali anche l’Italia) conta attualmente 50 stati membri (Figura 1) e ha la sua sede principale a Parigi (www.eppo.int).

 

Figura 1. Mappa con gli attuali paesi membri di EPPO evidenziati in verde

 

I principali obiettivi dell’EPPO sono:

  • tutelare la salute delle piante nel settore agricolo e forestale e negli ambienti non coltivati;
  • sviluppare una strategia internazionale contro l’introduzione e la diffusione di organisminocivi (pests), comprese le piante aliene invasive che danneggiano le piante coltivate ospontanee, negli ecosistemi agricoli e naturali;
  • promuovere l’armonizzazione dei regolamenti fitosanitari e di tutti gli altri settori interessatialla attività ufficiale di protezione delle piante;
  • favorire l’usodi moderni, sicuri ed efficaci metodi di controllo delle malattie delle piante;
  • fornire un servizio di documentazione dedicato alla protezione delle piante.

A questo proposito, l’EPPO ha stilato delle liste degli organismi nocivi per le piante coltivate:

  • Lista A 1: comprende gli organismi da quarantena assenti nel territorio di EPPO;
  • Lista A 2: comprende gli organismi da quarantena presenti nel territorio EPPO, manon ampiamente diffusi e comunque, già sottoposti a misure ufficiali dicontrollo;
  • Lista A 3 o lista di allerta (Alert List): comprende organismi non ancora inseriti nelle prime due liste, ma considerati di elevato potenziale rischio fitosanitario.

Oltre a queste liste specifiche dedicate agli organismi nocivi per le piante coltivate nell’area europea, EPPO ha stilato una quarta lista, la Action list, per stimolare i paesi membri e le aree più a rischio a prendere in considerazione l’introduzione di misure fitosanitarie specifiche per gli organismi da quarantena recentemente aggiunti alle liste A1 e A2 (durante gli ultimi 5 anni, dal 2009) o che rappresentano al momento un rischio particolare per l’intera regione  EPPO (Figura 1). Gli organismi elencati in ciascuna lista prendono in considerazione batteri, citoplasmi, funghi, insetti, acari, virus e organismi simili a virus, nematodi. Dal 2000 EPPO ha inoltre predisposto due liste relative alle «piante aliene invasive», che comprendono le specie vegetali già presenti o assenti e conalto-medio rischio di introduzione con conseguenti effetti negativi sul patrimonio vegetale autoctono spontaneo e sulla biodiversità.

 

Le specie aliene che minacciano l’agricoltura in Italia

Tra gli “organismi alieni” che negli ultimi anni hanno causato gravi danni all’agricoltura e alla biodiversità del nostro Paese, alcuni si sono dati davvero molto da fare. Tra questi, il Punteruolo rosso della palma, nome scientifico Rhynchophorus ferrugineus (Figura 2) che rappresenta ormai da anni un pericolo per le palme da cocco, da dattero e ornamentali. È giunto in Italia grazie alle importazioni di palme provenienti dal Medio Oriente e dalle regioni dell’Africa mediterranea. Si è diffuso dapprima in Spagna, poi nelle coste francesi e infine in Liguria e in altre regioni italiane.

 

Figura 2. Punteruolo rosso

 

Secondo il Centro internazionale di alti studi agronomici mediterranei (CIHEAM), i costi per il controllo di questo parassita – per ora possibile efficacemente soltanto attraverso la prevenzione, che comporta lo sradicamento e lo smaltimento delle palme abbattute – raggiungeranno i 200 milioni di euro tra Italia, Spagna e Francia nel 2023. 

Altra specie pericolosa per la nostra agricoltura è lo Pseudomonas syringaepv. actinidiae, responsabile della batteriosi del Kiwi. Si tratta di un batterio originario della Cina, giunto in Italia probabilmente nel 2008 (Balestra et al., L'Informatore Agrario 38/2008). Lo Pseudomonas syringae pv. actinidiae si attiva ad una temperatura compresa tra i10 e i 20°C (oltre i 25°C blocca la propria attività). Le infezioni avvengono in primavera-inizio estate e nelle prime settimane d’autunno (Figure 3 e 4). Al momento, la difesa fitosanitaria contro questo batterio si basa essenzialmente sull'applicazione di buone pratiche agronomico-colturali e sull'impiego di formulati a base di rame.

 

Figura 3. Avvizzimenti fogliari causati da Pseudomonas

 

   Figura 4. Cancro batterico del kiwi

 

C’è poi il Cinipide del castagno (Dryocosmuskuriphilus), un imenottero originario della Cina, segnalato per la prima volta in Italia nel 2002 (in Piemonte), conosciuto con il nome di mosca cinese del castagno o Cinipide Galligeno, per le vistose galle che compaiono sui rametti e le foglie del castagno. Infatti, questo parassita effettua il suo ciclo biologico da uovo a larva e pupa all’interno di caratteristiche galle che si rendono visibili al momento del volo degli adulti, quando ormai è troppo tardi, tra fine maggio e luglio, per qualsiasi forma di intervento contro il parassita. Gli adulti iniziano subito la conquista di nuove gemme dove depositano le uova da cui usciranno le larve adulte dopo avere svernato fino alla primavera successiva. Particolare non trascurabile, infatti, che aumenta di molto la pericolosità di questa specie aliena è il suo modo di riprodursi, infatti il Dryocosmuskuriphi (cinipide galligeno), oltre ad essere fortemente monofago (ama riprodursi e nutrirsi soltanto sugli alberi di castagno), si riproduce per partenogenesi telitoca, cioè la discendenza di questo insetto è costituita soltanto di individui femmina, ciascuno in grado di deporre, senza accoppiarsi, fino a 150 uova dentro le galle che si vengono a produrre sulle gemme (Figure 5 e 6).

 

        

Figura 5. Larve (fonte: regione.piemonte.it)

 

        

 Figura 6. Femmina di cinipide durante l’ovideposizione (fonte: regione.piemonte.it)

 

La Xylella fastidiosa, incubo per gli olivicoltori

Una delle specie invasive più pericolose per la nostra agricoltura, di cui si è molto discusso negli ultimi anni, è il noto batterio Xylella fastidiosa, ritenuto responsabile del cosiddetto “Complesso del disseccamento rapido dell’olivo (CoDiRO), una fitopatologia che, a partire dal 2013, ha colpito gli alberi di olivo in Italia (soprattutto in Puglia), causando ingenti danni ambientali ed economici al settore dell’olivicoltura (Figura 6).

 

Figura 6. Danni causati agli olivi dal batterio Xilella fastidiosa

 

Si tratta di un batterio che si trasmette attraverso insetti vettori con apparato boccale di tipo pungente-succhiante acquisiscono il batterio nutrendosi dai vasi xilematici delle piante infette per poi contagiare quelle sane. La Xilella è fortemente polifaga, colpisce oltre 150 specie vegetali, tra cui numerose piante di interesse agricolo (agrumi, vite, pesco, mandorlo, olivo), specie ornamentali (oleandro),essenze forestali (acero, quercia) e specie spontanee (erbe ed arbusti). Attualmente, l’unica specie-vettore per la quale è stata dimostrata la capacità di trasmettere il batterio è l’insetto Philaenus spumarius, volgarmente definito “sputacchina” (Figure 7 e 8), per la caratteristica schiuma che produce sulle piante-ospite dove saltano le larve, durante i diversi stadi del suo ciclo biologico. 

 

Figura 7. Philaenus spumarius o "sputacchina"

 

Figura 8. Pianta infestata dalla "sputacchina"

 

La famigerata cimice asiatica

Non dimentichiamoci poi della famigerata cimice asiatica, nome scientifico Halyomorpha halys (Figura 9), un insetto originario dell’Asia orientale che negli ultimi due anni ha causato ingenti danni al sistema ortofrutticolo italiano. 

 

Figura 9. Adulti di Halyomorpha halys

 

Secondo una recente ricerca del Crea (Consiglio per la ricerca in agricoltura e l’analisi dell’economia agraria), nelsolo2016, il comparto ortofrutticolo italiano ha registratoperdite per oltre il 40% in importanti settori come laproduzione di pere e kiwi. Danni gravi vengono poi segnalati nella produzione di mele, pesche, uva, pomodori, noci, nocciole, mais e soia. La H. Halys è un insetto molto polifago e possiede un elevato potenziale invasivo. In aree urbane, può essere motivo di fastidio per l’abitudine di svernare in massa entro gli edifici, in particolare, durante le stagioni fredde. Di recente, il Crea ha individuato un imenottero antagonista naturale della cimice, l’Ooencyrtus telenomicida, di dimensioni simili (inferiori di appena 1 mm), che può essere allevato in biofabbriche e che rappresenta oggi la speranza per molti agricoltori italiani e non solo.

 

Il progetto ASAP

In Italia, le specie aliene sono aumentate del 96% negli ultimi 30 anni e il fenomeno è in vertiginoso aumento. Turismo e commercio sono tra le principali cause di diffusione, così come il cambiamento climatico che crea sempre più spesso situazioni climatiche favorevoli per lo sviluppo di organismi alloctoni sia animali che vegetali. Questo è quanto emerso firora dal progetto europeo ASAP (Aliens Species Awarness Program), progetto cofinanziato dalla Commissione Europea di cui ISPRA è promotore insieme con Legambiente, Regione Lazio, Orto Botanico di Cagliari, NEMO srl e Unicity srl (www.life.eu). Inoltre, partecipano al progetto anche il Ministero dell’Ambiente e della Tutela del territorio e del Mare e quattro parchi nazionali: Aspromonte, Appennino Lucano, Arcipelago Toscano e Gran Paradiso. ASAP ha come principale obiettivo quello di contrastare il fenomeno delle specie invasive e di tutelare le specie “autoctone”. È indispensabile  la creazione di una rete di controlli sul territorio e sui potenziali siti di entrata delle specie aliene (aeroporti, stazioni, porti, autostrade, ecc.), sostengono i responsabili ed esperti che del progetto. Fondamentale è inoltre l’adozione di comportamenti più responsabili da parte dei cittadini e delle imprese che si occupano di import/export a livello europeo e internazionale. A questo proposito, va dedicata massima attenzione nei casi di trasporto di piante e di animali da altri paesi. Infine, non è secondario considerare una maggiore informazione delle pubbliche amministrazioni e della comunità scientifica internazionale nei confronti dei cittadini ai fini della sensibilizzazione nei confronti di comportamenti errati. Soltanto in questo modo, sottolinea ASAP, sarà possibile contrastare nei prossimi anni il fenomeno delle invasioni di specie aliene in Italia e in Europa. 

Cop 23_Bonn

Cosa dobbiamo aspettarci dalla Cop23 in corso a Bonn

I  dati sul cambiamento climatico sono allarmanti. Gli Stati Uniti hanno annunciato di voler abbandonare l’Accordo di Parigi. Secondo l’UNEP gli ultimi tre anni sono stati i più caldi della storia. Queste sono solo alcune delle premesse con le quali si è aperta la Conferenza mondiale sul clima della Nazioni Unite (Cop23). 


Un ponte verso la Cop24

Si è ufficialmente aperta la Conferenza mondiale sul clima delle Nazioni Unite (Cop23), l’appuntamento annuale più importante nella discussione sulle misure da adottare nella lotta al cambiamento climatico. A presiedere la 23esima edizione della Conferenza sono le isole Fiji, che per la loro particolare posizione geografica, nel cuore dell’Oceano Pacifico, sono uno dei Paesi al mondo più vulnerabile di fronte ai cambiamenti climatici. Lo scorso anno le Fiji sono state colpite dal ciclone Winston, che ha causato danni per oltre un miliardo di dollari. Tuttavia, anche se la presidenza della Conferenza è ufficialmente affidata alle Fiji, per ragioni logistiche, il paese ospitante è la Germania. La Conferenza si sta infatti svolgendo a Bonn, città con una lunga storia, che ha dato i natali a Beethoven e che è stata per oltre quarant’anni capitale dell’allora Germania dell’Ovest. Obiettivo chiave della Cop23 sarà quello di tradurre in azioni concrete l’Accordo di Parigi (Paris Agreement) e, allo stesso tempo, fungere da ponte tra il lavoro fatto nel 2016 nella scorsa Cop22 e quanto si farà nella prossima Cop24 che si terrà nel 2018 a Katowice, in Polonia.

 

Cosa prevede l’Accordo di Parigi

L’Accordo di Parigi, approvato a novembre 2015 a conclusione della Cop21 ed entrato ufficialmente in vigore a novembre 2016, è stato firmato da 196 paesi e sarà operativo a partire dal 2020. L’Accordo di Parigi prevede di fermare il riscaldamento globale al di sotto dei 2 °C dai livelli preindustriali, cioè prima del 1750 quando le concentrazioni di CO2 erano inferiori a 280 ppm (oggi sono superiori a 400 ppm – vedi Fig. 1) entro il 2030, di rivedere gli impegni dei singoli Stati firmatari ogni cinque anni per migliorare i livelli già raggiunti e di investire 100 miliardi di dollari ogni anno in programmi climatici nei Paesi in via di sviluppo. A tal proposito, nella Cop22, tenutasi lo scorso anno a Marrakech, sono state definite le modalità di monitoraggio dei flussi finanziari che andranno a vantaggio soprattutto dei Paesi del Sud del mondo, ovvero quei Paesi che subiscono maggiormente le conseguenze del cambiamento climatico.

Nonostante le misure auspicate, secondo l’Unep (Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente) le emissioni antropiche porteranno comunque il pianeta verso un aumento della temperatura globale tra i 2,9 e 3,4 °C entro fine secolo, con conseguenze ambientali disastrose: ondate di calore, inondazioni e periodi di siccità più frequenti e intensi, impatti sulle specie animali e vegetali, una maggiore diffusione delle malattie e un notevole aumento dei decessi. Le cause, come riportano le maggiori agenzie e istituti di ricerca, sono dovute all’aumento della CO2 presente nell’atmosfera, che dalle 316 ppm del 1958 è passata a una concentrazione superiore alle 400 ppm di oggi (Figura 1). In particolare, a livello globale, delle 36 miliardi di tonnellate di CO2 emesse ogni anno in atmosfera, Cina e Stati Uniti contribuiscono per il 45% del totale, rispettivamente 30% e 15%.

 

Figura 1. Aumento della CO2 in atmosfera

 

Inoltre, come sottolinea il Laboratorio Modellistica Climatica e Impatti dell’ENEA (Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile), per ogni aumento di 1 °C della temperatura dell’aria aumenta la capacità dell’atmosfera di contenere acqua mediamente del 7%. 

 

Gli effetti del cambiamento climatico sulle risorse alimentari

L’agricoltura contribuisce per il 14% alle emissioni globali di CO2 (6,8 Gt di CO2). I modelli previsionali (FAO, Agriculture and Rural Development, Paper 42) indicano che l’aumento di temperatura di 1-3°C, associato all’aumento della CO2 presente in atmosfera, produce effetti positivi sulla produzione di piante alimentari nelle aree climatiche temperate. Al contrario, nelle aree climatiche tropicali, in particolare nei Paesi africani, l’aumento di 1-2 °C potrebbe causare riduzioni fino al 30% della produzione alimentare totale (Figura 2).

 

Percentuale (%) delle variazioni previste nella produzione di piante entro il 2080 in relazione alle produzioni del 2000 (baseline)

Figura 2. Impatto del cambiamento climatico sulla produzione di piante alimentari (variazioni medie per grano, mais, riso e soia), 20002080. Source: Cline (2007)

 

Gli Stati Uniti si ritirano

Dopo che il Nicaragua ha dichiarato di voler aderire all’Accordo di Parigi, gli unici due Stati al mondo che finora sono rimasti fuori dall’intesa globale sul clima sono gli Stati Uniti – dove l’amministrazione Trump ha deciso di dare un netto cambio di rotta alle politiche ambientali promesse dalla precedente amministrazione – e la Siria che, sebbene recentemente abbia espresso la volontà di aderire, è afflitta da una disastrosa guerra civile che dal 2011 ad oggi ha causato circa 430 mila morti e quasi 12 milioni di sfollati (secondo dati dell’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani). Tuttavia, una delegazione di funzionari della Casa Bianca parteciperà alla Conferenza di Bonn perché, anche se l’amministrazione Trump ha annunciato di voler al più presto abbandonare l’Accordo di Parigi, legalmente non potrà farlo sino al prossimo anno.

L’Omm (Organizzazione metereologica mondiale) nel suo ultimo rapporto sulla situazione climatica globale, uscito in concomitanza con l’apertura dei lavori della Cop23, sottolinea che il 2017 sarà probabilmente uno dei tre anni più caldi della storia, da quando i dati vengono monitorati con regolarità, cioè dal 1880. In particolare, per il mese di ottobre 2017 sono state evidenziate anomalie della temperatura dell’aria rispetto alla media delle temperature di ottobre registrate nel periodo 1981-2010 (Figura 3). In particolare, a ottobre, la temperatura dell’aria nelle isole Svalbard è risultata di 6 °C sopra la media, mentre nel Sud Europa l’aumento maggiore si è avuto in Spagna con oltre 4 °C sopra la media del periodo 1981-2010. Inoltre, a livello globale, le temperature dell’aria sono state leggermente sotto la media in alcune aree geografiche del Sud Est e dell’Est del continente. 

 

Figura 3. Le temperature dell’aria nel mese di ottobre 2017 rispetto alla media riscontrata per lo stesso mese nel periodo 1981-2010

 

Secondo L’ENEA un pianeta più caldo rende la biosfera e gli oceani meno efficienti nell’assorbire la CO2 presente in atmosfera, dove si concentra oltre la metà della CO2, dal momento che gli oceani riescono ad assorbirne solo il 50%. Secondo il Kyoto Club è urgente avviare politiche severe di riduzione delle emissioni di CO2, altrimenti, in 20 anni, la concentrazione nell’atmosfera raggiungerà le 450 ppm, con un aumento medio della temperatura di 2°C rispetto ai livelli preindustriali (280 ppm).

 

Il fenomeno dei “profughi climatici”

Gli ultimi tre anni, secondo un recente rapporto UNEP, sono stati i più caldi mai registrati e, sul lungo termine, indicano una chiara tendenza verso un considerevole aumento delle temperature a livello globale. I picchi di caldo eccezionali registrati in Asia, con temperature superiori anche a 50 gradi centigradi, uragani di intensità record nell’Atlantico, che sono arrivati fino all’Irlanda, inondazioni devastanti causate da monsoni che hanno colpito milioni di persone nel mondo, nonché una terribile ondata di siccità in Africa orientale, spiega l’Organizzazione, sono certamente dovuti ai cambiamenti climatici provocati dall’aumento della concentrazione di gas ad effetto serra nell’atmosfera, causati principalmente dalle attività antropiche. Nel 2016, secondo quanto riportato in una dichiarazione ufficiale dell’Unfccc (Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici), oltre 23 milioni di persone nel mondo sono state costrette a fuggire dalle loro terre perché colpite da catastrofi di natura climatica. In Somalia, ad esempio, sono stati recensiti 760 mila “profughi climatici” secondo l’Alto commissariato Onu per i Rifugiati. Mentre per quanto riguarda il lato economico del fenomeno, il Fondo Monetario Internazionale ha spiegato che già oggi le conseguenze peggiori dei cambiamenti climatici vengono registrate in aree nelle quali abita il 60% della popolazione mondiale.

 

Quali sono gli obiettivi in Europa

Obiettivi chiave dell’UE per il 2020:

  • Ridurre del 20% le emissioni di gas serra rispetto ai livelli del 1990;
  • Portare al 20% la quota delle energie rinnovabili nel consumo totale di energia;
  • Aumentare almeno del 27% l'efficienza energetica.

Obiettivi chiave dell’UE per il 2030:

  • Ridurre almeno del 40% le emissioni di gas serra rispetto ai livelli del 1990;
  • Portare almeno al 27% la quota delle energie rinnovabili nel consumo totale di energia;
  • Aumentare almeno del 27% l'efficienza energetica.

Obiettivi a lungo termine:

  • Entro il 2050, l’UE intende  ridurre le proprie emissioni in misura sostanziale dell’80-95% rispetto ai livelli del 1990 nell'ambito degli sforzi complessivi richiesti dai paesi sviluppati;
  • Trasformare l'Europa in un’economia ad elevata efficienza energetica e a basse emissioni di carbonio stimolerà anche l’economia, creerà posti di lavoro e rafforzerà la competitività dell’Europa.