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“Il Bo live”. Litio, terre rare e cobalto: tre minerali critici

Un articolo di di Francesco Suman pubblicato su "Il Bo Live" dell'Università di Padova 


La lista dei minerali considerati critici dall’Europa viene aggiornata ogni tre anni. In quella del 2023 se ne contano 34, anche se alcuni come le terre rare o i metalli del gruppo del platino sono, per l’appunto, raggruppamenti di più materiali.
La lista non è una mappatura scientifica dell’abbondanza di alcuni elementi della tavola periodica nella crosta terrestre, ma piuttosto una valutazione geopolitica della loro reperibilità sul mercato, presente e futura. I criteri con cui viene stabilito se un materiale è critico si possono trovare in uno studio approfondito allegato alla proposta della Commissione, il Critical Raw Materials Act, ma sono sostanzialmente tre: il rischio di interruzione dell’approvvigionamento, la rilevanza per l’industria europea, la scarsa sostituibilità.

Rispetto a quella precedente del 2020, la nuova lista presenta delle new entries, come l’arsenico, usato in metallurgia e nei semi-conduttori, il feldspato, impiegato per produrre vetro e ceramica, e il manganese, cruciale componente delle batterie. Altri sono dei ritorni, come quello dell’elio, che serve alla criogenia, oltre che ai semi-conduttori, e che era stato incluso nella lista del 2017 ma non in quella del 2020.
Alcuni minerali sono stati inseriti nella lista nonostante non incontrino tutti i criteri di criticità, ma perché ugualmente considerati strategici. È il caso del rame, alla base di ogni rete elettrica, e del nickel, presente ad esempio nei poli delle batterie al litio.
Altre ancora invece sono delle conferme, come quelle di litio, terre rare e cobalto, ingredienti protagonisti, per diverse ragioni, delle tecnologie essenziali sia alla transizione energetica sia a quella digitale.

Eccoli in dettaglio:

Litio

Il litio è alla base di tutte le batterie ricaricabili più diffuse, dagli smartphone ai veicoli elettrici, ed è stato aggiunto alla lista dei minerali critici per la prima volta nel 2020.

Secondo la BP Statistical Review of World Energy (che unisce dati dello US e dello UK Geological Survey e del World Mining Data), nel 2021 sono state prodotte nel mondo circa 106.000 tonnellate di litio. Il Cile ne detiene le maggiori riserve (9,2 milioni di tonnellate) ed è il secondo produttore al mondo con 26.000 tonnellate, circa un quarto del totale.
L’Australia invece, seconda per riserve (5,7 Mt), è il primo produttore con 55.000 tonnellate, più della metà del totale globale. La Cina, con 14.000 tonnellate, è la terza produttrice, mentre è quarta per riserve, con 1,5 Mt, dietro all’Argentina che ha 2,2 Mt ma ne produce solo 6.000 l’anno.
Altri giacimenti, stimati sotto il milione di tonnellate, si trovano negli Stati Uniti (0,75 Mt), in Zimbabwe (0,2 Mt), in Brasile (0,1 Mt) e in Portogallo (0,06 Mt). Altri depositi di litio, per un totale di mezzo milione di tonnellate, sono distribuiti nel resto del mondo.
Recentemente anche l’Iran e l’India hanno annunciato la scoperta di grandi giacimenti di litio, rispettivamente di 8,5 Mt e quasi 6 Mt. Tuttavia non sarà semplice sfruttarli nel breve termine, poiché l’estrazione richiede tempo.

Esistono diversi metodi per estrarre il litio, poiché può essere contenuto o in rocce, come in Australia, o in laghi salmastri sotterranei detti salar, spagnolo per salina. L’estrazione dalle saline richiede un elevato consumo di acqua (si stima 500.000 galloni per tonnellata di litio), che spesso entra in conflitto con la domanda idrica degli agricoltori, come accade ad esempio nel Salar de Atacama, in Cile. Inoltre, il processo di filtraggio produce diverse sostanze tossiche e inquinanti.
Oggi l’Europa importa proprio dal Cile più dei tre quarti del litio che consuma (79%). Oltre al Portogallo, avrebbe giacimenti in Spagna e Repubblica Ceca, ma spesso i progetti di estrazione incontrano le resistenze delle comunità locali.
La disponibilità di questo minerale al momento non è limitata e nuovi giacimenti stanno venendo individuati, tuttavia secondo un rapporto della Agenzia Internazionale dell’Energia la sua domanda, guidata soprattutto dall’espansione del mercato dei veicoli elettrici, entro il 2040 potrebbe crescere di oltre 40 volte rispetto ai livelli attuali. Secondo quanto riporta uno studio della Commissione Europea entro il 2050 lieviterebbe fino a 57 volte. Anche per questo il mondo della ricerca sta lavorando allo sviluppo di sistemi di accumulo alternativi al litio, come le batterie al sodio, considerate tra le più promettenti.

Terre rare

Le cosiddette terre rare sono un insieme di 17 elementi della tavola periodica: 15 hanno numero atomico compreso tra 57 e 71 e sono chiamati lantanoidi, mentre altri due, scandio e ittrio, hanno numero atomico 21 e 39, rispettivamente. Sono tutti accomunati da alcune caratteristiche, quali un magnetismo stabile e una notevole duttilità, che li rende particolarmente adatti la produzione di magneti, con largo impiego nell’industria informatica, energetica e meccanica. Servono ad esempio per le turbine eoliche offshore e per i veicoli elettrici, ma non per la costruzione delle batterie al litio.
A dispetto del nome, non sono elementi così rari sulla crosta terrestre. Tuttavia, la loro lavorazione è concentrata in un solo Paese, la Cina, da cui l’Europa importa la totalità delle terre rare pesanti (una decina di elementi) e l’85% di quelle leggere.
Solo poco più di un terzo (il 35%) delle riserve mondiali ad oggi note si trovano in Cina (si stimano 44 Mt), Paese che però è di gran lunga il dominatore del mercato, con più di due terzi della produzione globale (168.000 tonnellate all’anno). Questo perché è in grado di estrarle e lavorarle a basso costo, senza dare troppo peso all’impatto ambientale, che non è trascurabile.
Recentemente in Svezia è stato scoperto un deposito di terre rare, ma serviranno dai 10 ai 15 anni prima di poterlo sfruttare. Altri depositi si trovano in Brasile (21 Mt), Russia (19 Mt), India (6,9 Mt), Australia (4,4 Mt) e in altri Paesi (per un totale di altri 26 Mt). Il secondo produttore dopo la Cina sono gli Stati Uniti con il 15% della quota globale (43.000 tonnellate l’anno). Sul gradino più basso del podio c’è l’Australia con quasi l’8% della produzione globale (22.000 t).
La IEA stima che la domanda di terre rare crescerà di circa 7 volte per soddisfare la domanda nel 2040. È un aumento notevole, ma non tanto quanto quello atteso per altri minerali come il cobalto, la grafite o il nickel, la cui domanda si stima verrà moltiplicata di circa 20 volte, se la transizione ecologica verrà realizzata in linea con gli impegni che limitino il riscaldamento globale al di sotto dei 2°C. Eventuali interruzioni di forniture delle materie prime comporterebbero un rallentamento della transizione stessa e un aumento dei suoi costi complessivi.

Cobalto

Esistono diversi tipi di batterie al litio. Molte di quelle costruite fino ad oggi impiegano cobalto nel catodo, il polo negativo. Ci sono però anche tecnologie alternative che possono farne a meno, come le batterie al litio-ferro-fosfato, già montate su alcuni veicoli elettrici, o quelle al sodio, che si spera presto saranno disponibili, anche per i sistemi di accumulo delle rinnovabili. Sebbene quindi in alcuni tipi di batterie il cobalto possa venire eliminato, o sostituito dal nickel, con ogni probabilità continuerà a essere presente nelle batterie dei dispositivi più piccoli come smartphone, computer portatili e fotocamere.
Circa 3,5 milioni di tonnellate, la metà delle riserve globali note, si trovano nella Repubblica Democratica del Congo, Paese che domina la produzione mondiale (con 93.000 tonnellate annue, il 70% del totale) e da cui l’Europa importa i due terzi del proprio fabbisogno. Altre 1,4 Mt (circa il 20% delle riserve globali) si trovano in Australia, che però si ferma a poco più del 4% della produzione globale (5.600 t), poco meno di quanto fa la Russia (con 6.500 t).
Nonostante le immense riserve di un minerale che garantisce lo sfruttamento dell’energia elettrica al resto del mondo, solo un cittadino congolese su 10 ha accesso all’energia elettrica e nel 2030 le cose potrebbero non andare diversamente: 6 dei 7 Paesi in cui sarà concentrata la povertà energetica saranno africani e uno di questi sarà proprio il Congo.
Nel 2021, la Cina è arrivata a controllare 15 delle 19 principali miniere congolesi da cui si estrae il cobalto, come prodotto secondario delle miniere di rame. La miniera di Kinsafu ad esempio è recentemente passata dal controllo del colosso minerario statunitense Freeport McMoRan a quello di China Molybdenum. Quella di Tenke Fungurume da sola produce il doppio del cobalto di qualsiasi altro Paese nel mondo e da quando è passata in mani cinesi le incursioni di chi vuole impossessarsi illegalmente del cobalto sono aumentate.
Lo ha rivelato una recente inchiesta del New York Times che denuncia quanto le estrazioni di questo minerale, oltre ad aver storicamente sfruttato il lavoro minorile, abbiano finanziato guerre e conflitti, contribuendo all’instabilità di diversi governi africani. Il cobalto va considerato pertanto non solo un minerale critico, ma un vero e proprio minerale di conflitto.

L’approccio predatorio e colonialista che per tutto il XX secolo, e spesso ancora oggi, ha accompagnato le estrazioni di petrolio (il Congo è anche uno dei 10 maggiori produttori di oro nero dell’Africa) e altre risorse naturali dai Paesi in via di sviluppo non può e non deve venire riprodotto in un mondo, quello della transizione ecologica, che voglia dirsi sostenibile.
È pertanto essenziale costruire una filiera del riciclo che sia in grado di recuperare le materie prime già presenti nei dispositivi e riutilizzarle senza dover dipendere da estrazioni e importazioni da Paesi che la stessa domanda di mercato contribuisce a rendere instabili.
Per realizzare tutto questo occorrono norme, come quella della responsabilità estesa dei produttori, che devono rendere conto di tutto il ciclo di vita di un prodotto che immettono sul mercato. Le regole del gioco devono rendere conveniente al produttore l’approvvigionamento di materie prime dalla filiera del riciclo piuttosto che da un sottosuolo che altrimenti continuerebbe a venire depredato di risorse.

Il petrolio, così come il gas o il carbone, una volta estratti vengono bruciati e non possono venire recuperati. Il litio, il cobalto, la grafite, il nichel, le terre rare, così come il manganese e altri minerali critici invece sì, a patto che la batteria, il dispositivo o la tecnologia in cui sono impiegati siano progettati per rendere possibile il loro recupero. Occorrerà ad esempio impiegare colle che non abbiano come unico obiettivo l’ottimizzazione degli spazi e l’ergonomia del dispositivo, rendendo difficile la separazione dei materiali in fase di riciclo. Magari ne perderà l’estetica dei nostri smartphone, ma questo sì è un costo che vale la pena pagare.

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Virtanen e il “solar food”, cibo del futuro

Pubblichiamo un interessante articolo di Giovanni Ballarini comparso il 15 febbraio 2023 su Georgofili INFO, il Notiziario di informazione dell'Accademia dei Georgofili. 


Virtanen, chi era costui? Pochi zootecnici e agricoltori ricordano il finlandese Artturi Ilmari Virtanen (1895 – 1973) Premio Nobel per la chimica 1945 con le sue ricerche sui batteri azoto-fissanti dei noduli radicali delle leguminose e le sue ricerche sull’alimentazione sintetica delle vacche pubblicate nell’ormai lontano 1966 (Virtanen A. I. – Milk Production of Cows on Protein-Free Feed – Science 153, 1603-1614, 1966). Virtanen infatti alleva bovine per più generazioni alimentandole con la carta degli elenchi telefonici, urea e sali minerali, raggiungendo livelli giornalieri di oltre dieci chilogrammi e arrivando a produzioni annuali di oltre quattromila chilogrammi, dimostrando il ruolo della biosintesi proteica dei microrganismi ruminali partendo da semplici composti azotati. Oggi il motivo per ricordare Virtanen sono le ricerche che si stanno compiendo ora in Finlandia con il progetto Solar Food, una startup che riesce a produrre una proteina da cellula singola, registrata col nome di Solein, impiegando solamente acqua, aria ed elettricità da fonti rinnovabili. I ricercatori della finlandese Lappeenranta University of Technology nei laboratori del Vtt Technical Research Centre sono riusciti a produrre una proteina da cellula singola, registrata col nome di Solein usando un organismo unicellulare, simile a quelli presenti nel suolo e nel rumine degli animali, usando un bioreattore, l’idrogeno proveniente dall’idrolisi dell’acqua da fonti rinnovabili, l’anidride carbonica e l’azoto provenienti dall’atmosfera, ottenendo  una polvere composta dal 65% circa di proteine, dal 10 al 20% di carboidrati e dal 4 al 10% di grassi con la parte restante parte di minerali. Insapore, la polvere può essere usata in molti prodotti alimentari vegetariani o vegani, trasformandola anche in alimenti simili a yogurt, bevande a base vegetale, pasti completi. In corso è la procedura per un parere da parte dell’EFSA, Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare.

L’intero processo di produzione del Solein avrebbe una produzione di quattrocento grammi di anidride carbonica per chilogrammo di prodotto, rispetto ai quarantacinque chilogrammi della carne bovina e ai due chilogrammi per le piante più efficienti. Per un chilogrammo di proteina servono duecento litri di acqua, con un’impronta idrica dalle cento alle cinquecento volte inferiore alla produzione di carne e dei vegetali più comuni. Inoltre, il processo avviene in stabilimenti che non hanno bisogno di nuovi consumi di suolo.
La prima alimentazione umana è stata quella della caccia e della raccolta dei vegetali. Una prima rivoluzione inizia circa diecimila anni fa con la produzione del cibo attraverso l’allevamento degli animali e la coltivazione dei vegetali con l’agricoltura, una rivoluzione ancora in corso con gli allevamenti di pesci, gli allevamenti intensivi di ogni tipo di animali, le coltivazioni idroponiche. Oggi si sta affacciando una seconda, nuova rivoluzione alimentare umana con una produzione biosintetica degli alimenti, partendo da molecole semplici e usando l’energia solare, in un certo senso tornando alle origini della vita e a come i vegetali fanno con la clorofilla che usa i raggi solari per produrre materia organica. Una rivoluzione alimentare quest’ultima che parte anche dalle vacche di Virtanen alimentate con elenchi del telefono e urea.

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La necessità di pensare a città “biofiliche”. Un nuovo approccio di progettazione per spazi urbani vivibili e sostenibili

Pubblichiamo un articolo di Francesco Ferrini comparso il 25 gennaio 2023 su Georgofili INFO, il Notiziario di informazione dell'Accademia dei Georgofili. 


Le città di tutto il mondo stanno crescendo drammaticamente. Oggi il 55% degli abitanti del pianeta vive in aree urbane ed entro il 2030 si prevede che il 60 per cento della popolazione mondiale, ovvero quasi 5 miliardi di persone, vivrà nelle aree urbane. I movimenti di popolazioni non sono mai avvenuti in precedenza con questa velocità e con questa modalità. Tuttavia, le città non si stanno solo espandendo, ma stanno anche cambiando nei loro ruoli e nella loro funzione. La deindustrializzazione, l'aumento della mobilità e un settore dei servizi in crescita hanno visto le aree urbane trasformarsi in economie di consumo post-industriali basate sulla conoscenza piuttosto che sulla produzione. Emerge da questo spostamento del focus della funzione delle città un cambiamento “evolutivo” nella forma e nei modi in cui le città stesse dovrebbero essere progettate e costruite e come la natura dovrebbe far parte di questo cambiamento. Ciò ha attirato ulteriori ricerche e sviluppi da parte di persone interessate e con obiettivi comuni e il desiderio di consentire una maggiore opportunità per gli abitanti delle città di affiliarsi con la natura, e di tutti i vantaggi che ciò offre, all'interno dell'ambiente urbano. L'attenzione sulla connessione uomo-natura non è più relegata agli ambientalisti e alle aree naturali al di fuori delle città; è una richiesta che proviene dagli abitanti delle città.

Il design biofilico
Si è perciò evoluto un movimento sociale basato sul design biofilico sostenuto dall'aumento della popolazione urbana e dal cambiamento della funzione della città che ha portato a una dinamica mutevole e all'interazione tra luoghi e spazi urbani. Questa trasformazione recente, e in espansione, negli insediamenti urbani umani richiede un nuovo approccio alla costruzione delle città. Le città devono essere progettate, pianificate, costruite e adattate per essere sostenibili e vivibili (Storey e Kang 2015). La maggiore densità edilizia, i canyon urbani e le superfici impermeabilizzate modificano il clima locale, in particolare la temperatura, aumentando il fenomeno noto come effetto isola di calore urbano.
Questa correlazione tra l'aumento della popolazione urbana globale, il cambiamento climatico e l'effetto isola di calore urbano e la necessità di città vivibili a densità più elevata è presente in tutta la letteratura che tratta di sostenibilità e che discute di città e design. In questo quadro, la natura e il design biofilico stanno trovando un rinnovato status e riconoscimento come componenti essenziali di una città sana e sostenibile. Esempi globali di progettazione biofilica dimostrano che in molti casi l'iniziativa non è una risposta puramente funzionale alle sfide della sostenibilità di una città. C'è una motivazione al di là della funzione. Ci sono indicatori che ci dicono che si è verificato un cambiamento nell'approccio alla connessione tra uomo e natura urbana. I principi della progettazione biofilica rappresentano queste nuove iniziative emergenti che si stanno verificando nelle città. La biofilia non è dunque solo un problema di progettazione, ma un movimento costruito attorno all'idea che la connessione alla natura è un bisogno umano fondamentale. È il riconoscimento di questa necessità che ha catturato l'attenzione di così tante persone, non solo dei progettisti. Affrontare gli aspetti sociali del design biofilico solleva importanti nuove questioni compresa la “democratizzazione” della biofilia. Se la connessione alla natura è, infatti, una necessità umana evoluta, allora è una necessità che deve essere condivisa da tutti – non solo da coloro che possono permettersi di vivere in aree con spazi verdi e lavorare negli edifici con caratteristiche ed elementi naturali.

Pianificazione e progettazione di città migliori
La realizzazione che l’Homo sapiens è ora diventata prevalentemente una specie urbana significa che la necessità di riconnettersi con le qualità dell'ambiente naturale in cui ci siamo evoluti sta diventando sempre più importante. Parchi, giardini, presenza dell’acqua e viste sulla “natura” sono stati a lungo evidenti nel recinto dei ricchi. Oggi dobbiamo estendere quelle esperienze a tutti, ogni giorno.
Un punto di partenza critico nella pianificazione e nella progettazione di città migliori è infatti affrontare le profonde disuguaglianze nella presenza e nell'accesso alla natura nel paesaggio urbano. Alcune recenti ricerche hanno illustrato le disuguaglianze che esistono nella copertura arborea nei quartieri cittadini, il drammatico impatto differenziale che ciò può avere sull’isola di calore urbano all'interno di una singola area della città e la correlazione di queste disuguaglianze con pratiche di pianificazione “socialmente” sbagliate. Le conseguenze di queste pratiche di pianificazione discriminatorie continuano a influenzare le comunità disagiate e quelle socialmente deboli esponendole a temperature ambientali più elevate, a maggiori livelli di inquinamento atmosferico e a un minor accesso alle risorse ambientali come gli spazi verdi pubblici.
La pandemia ha purtroppo esacerbato queste disuguaglianze. A causa dell’isolamento dei residenti, gli spazi verdi continuano a rivelarsi una risorsa preziosa, ma privilegiata. Anche dove sono disponibili parchi pubblici, la percezione dell'accessibilità del parco e l'investimento della città nei parchi locali influenza chi sta effettivamente beneficiando dello spazio verde urbano. Il miglioramento dell'accesso non è semplicemente una questione di vicinanza al parco, ma anche di qualità di questi spazi e di esistenza di barriere, non solo fisiche, che ne limitano la fruizione per tutte le comunità.
Tuttavia, la pandemia ha anche accelerato l'introduzione di interventi per iniziare ad affrontarle, poiché ha ancora di più evidenziato l'importanza dell'accesso alla natura e agli spazi aperti nelle nostre città per la nostra salute sociale, fisica e mentale. È stato dimostrato che le persone che vivono in quartieri con un inquinamento atmosferico peggiore, che spesso mancano anche di spazi verdi, hanno evidenziato un tasso di mortalità più elevato per Covid-19. L'accesso alla natura urbana ha anche dimostrato di influenzare la riduzione dello stress e nella socializzazione, con i parchi urbani che ricevono attenzione sui benefici della natura mentre gli abitanti delle città cercano uno spazio esterno più sicuro in cui lavorare, socializzare e giocare.
Questa rinnovata attenzione è supportata da una tendenza nella pianificazione e progettazione urbana che sta cercando di fornire opportunità per connettere gli abitanti delle città con la natura attraverso progetti di servizi ecosistemici basati sulla comunità, interventi di progettazione rigenerativa e biofilica e spazi verdi residenziali, tutti collegati a un aumento del benessere, della concentrazione, della socializzazione, del senso del luogo e della connessione con la natura. Tuttavia, continua a esserci una disconnessione tra il nostro bisogno di natura, la nostra esperienza quotidiana vissuta e il comportamento sostenibile, in parte radicata nell'incapacità di comprendere come interpretare e applicare la ricerca sulla natura e la salute a diversi progetti e interventi politici a scale diverse.
In particolare, i problemi emergono da una disconnessione tra principi di progettazione biofilica, interventi di pianificazione urbana e risultati specifici di salute e benessere, nonché da una mancanza di integrazione tra le diverse discipline. Questa confusione ha implicazioni reali poiché edifici, città e regioni tentano di allineare gli obiettivi di progettazione rigenerativa con quelli di salute umana, ma spesso mancano degli strumenti e delle conoscenze per farlo, il che può comportare una mancanza di prove a sostegno dell'efficacia di questi interventi.
In particolare, un approccio sbagliato per affrontare le disuguaglianze può spesso creare impatti non intenzionali. Quando le città migliorano la presenza e l'accesso alla natura, le comunità più deboli possono essere sfollate a causa dell'aumento dei costi abitativi e del costo della vita, portando al fenomeno della gentrificazione. Di conseguenza dovremo puntare a città "just green enough" che uniscano, quindi, i miglioramenti alle infrastrutture naturali con gli sforzi per affrontare altre priorità delle comunità esistenti, come l'accesso al cibo e lo sviluppo del lavoro. Invece di una conversione su vasta scala di aree per parchi, il potenziale per evitare l'eco-gentrificazione potrebbe risiedere negli interventi su scala ridotta che sono ben dispersi e progettati in combinazione con altre risorse, come l'occupazione e il sostegno alla proprietà della casa. Con l'obiettivo che la comunità in atto sia quella meglio servita dai nuovi miglioramenti basati sulla natura.
Gli spazi verdi urbani possono essere dunque uno strumento prezioso per creare condizioni di parità per le comunità svantaggiate in un'ampia gamma di contesti, inclusi i benefici economici e sanitari, maggiore sicurezza e resilienza agli eventi calamitosi. Per raggiungere questo obiettivo, i progetti che mirano a migliorare lo spazio verde urbano per essere realmente equi devono avere il consenso delle comunità. Partendo da queste basi, e in relazione alle criticità emerse e le possibili azioni di medio e lungo periodo, anche nell’ottica del PNRR, le città possono, o meglio devono, compiere tre passi cruciali per assicurarsi che i benefici sanitari, economici e ambientali degli spazi verdi urbani diventino motori di una maggiore equità sociale.
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Fonte
https://www.georgofili.it/