Rue des Saules (Parigi, Montmartre). Foto di A. Campiotti

L’agricoltura urbana contro la fame nel mondo

Nel 2025 la popolazione mondiale raggiungerà gli 8 miliardi di individui, di cui oltre la metà abiterà nelle città. Perciò, garantire la disponibilità di cibo per tutti sarà una delle principali sfide dei prossimi anni. L’agricoltura urbana potrà contribuire al fabbisogno alimentare di milioni di persone. Già oggi, secondo la FAO, le persone coinvolte in progetti di agricoltura urbana sono oltre un miliardo a livello globale. E il fenomeno non interessa solo i Paesi del Sud del mondo. Anche in Europa, Stati Uniti e Canada, sono stati avviati progetti di agricoltura urbana promossi da amministrazioni locali e associazioni di cittadini.


Una “via d’uscita alla povertà alimentare”

Nel 2025 la popolazione mondiale raggiungerà gli 8 miliardi di individui, di cui oltre la metà abiterà nelle città. Perciò, garantire la disponibilità di cibo per tutti sarà una delle principali sfide dei prossimi anni. Già oggi, nelle città di medie dimensioni, la produzione e l’approvvigionamento alimentare incidono per un terzo sull’impronta ecologica. Da alcuni anni a questa parte, la FAO (Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura) ha individuato una “via d’uscita alla povertà alimentare” nell’agricoltura urbana, soprattutto nei Paesi in via di sviluppo, dove nei prossimi anni, stando alle stime, si concentrerà buona parte della popolazione mondiale. La crescita demografica comporterà una crescita urbanistica senza precedenti, con enormi conseguenze in termini ambientali. I tassi di urbanizzazione più elevati, sottolineano le Nazioni Unite, riguarderanno i Paesi africani, asiatici e dell’America Latina, dove si registrerà una forte crescita delle cosiddette “megacittà”, cioè aree urbane con oltre 10 milioni di abitanti, e i maggiori problemi legati all’approvvigionamento alimentare (Figura 1).

 

Figura 1. Le città nel mondo con oltre 10 milioni di abitanti dal 1950 al 2025 (fonte: The Guardian, 2013)

 

Modelli di agricoltura urbana del passato

Nel corso della storia, l’agricoltura urbana ha avuto un ruolo significativo per l’economia e lo sviluppo delle città.  Gli archeologi hanno infatti scoperto importanti sistemi di irrigazione e terrazzamenti nelle antiche città degli imperi babilonese e persiano, Incas e delle civiltà che abitarono l’area mediterranea (Figura 2).

 

Figura 2. A. Giardini pensili a Babilonia

 

Figura 2. B. Terrazzamenti agricoli a Machu Picchu

 

Figura 2. C. Terrazzamenti agricoli nell’area mediterranea

 

Ad esempio, la città-fortezza di Machu Picchu, in Perù, era autosufficiente grazie ad un sistema di terrazzamenti che permetteva la coltivazione in un ambiente montuoso (la città si trova ad un’altitudine di circa 2.500 metri). Gli Incas irrigavano i propri campi con le acque reflue e si servivano di semplici tecniche di idroponica. L’agricoltura urbana veniva inoltre praticata a Babilonia, dove, sin dal VI secolo a.C, erano presenti i giardini pensili, e in altre città dell’area mediterranea.

 

L’agricoltura urbana in crescita a livello globale

L’agricoltura urbana è ancora oggi  diffusa in molte aree del mondo dove rappresenta una sorta di “filiera corta” locale. Numerosi casi di studio condotti in alcune città del mondo mostrano l’enorme potenziale dell’agricoltura praticata in città (Figura 3). A Nairobi, in Kenya, le famiglie producono dal 20 al 25% del loro fabbisogno alimentare attraverso l’agricoltura pratica in città. A Dar es Salaam, in Tanzania, l’agricoltura urbana fornisce dal 20 al 30% del cibo necessario a sfamare il 50% delle famiglie. A Kampala, in Uganda, il 55% delle famiglie produce il 40% del proprio fabbisogno alimentare attraverso l’agricoltura urbana, mentre il 32% delle famiglie produce più del 60% di quanto mediamente consuma. A Cuba, esiste una rete di oltre 10 mila ettari di terreni e punti vendita, gli organopónicos, che forniscono ogni anno alle città milioni di tonnellate di verdura e altri generi alimentari. A Lima, in Perù, il 4% del PIL è ottenuto attraverso l’agricoltura urbana. A Montreal, nel Québec (Canada), l’agricoltura urbana è ormai diventato un elemento permanente nei parchi municipali. A Vancouver, in Canada, esiste un’agenzia municipale dedicata alla politica alimentare urbana e il 44% degli abitanti è coinvolto nella produzione di cibo in terreni privati, nei cortili condominiali, nei balconi, nei tetti e nei 17 orti urbani comunitari realizzati dall’amministrazione locale. Dal momento che in Canada circa 2,5 milioni di persone dipendono dalle banche del cibo, la produzione di cibo derivante dall’agricoltura urbana gioca un ruolo fondamentale. Detroit, negli Stati Uniti, dopo la crisi dell’industria automobilistica, aveva perduto il 40% della propria popolazione, ma l’agricoltura urbana ha contribuito a rilanciare la città. Dal 2000 ad oggi sono stati realizzati 1.400 orti comunali, in cui si producono oltre 200 tonnellate di cibo all’anno, e 45 fattorie urbane. Questo ha portato Detroit a diventare una città modello della rivoluzione verde americana. A Lisbona, invece, l’esperienza dei giardini pedagogici ha indotto l’amministrazione cittadina a realizzare una fattoria urbana innovativa, oggi visitata da oltre 100 mila persone ogni anno. Londra produce 232milat di frutta e verdura con una produttività di 10.7 t/ha, a Mosca il 65% delle famiglie è coinvoltoin attività di agricoltura urbana,mentre a  Berlino ci sono 80.000 comunità che praticano l’agricoltura urbana.Nei Paesi del Nord Europa, l’agricoltura urbana non contribuisce solo a sfamare coloro che non possono permettersi una quantità di cibo adeguata alle loro esigenze, ma rappresenta anche l’antidoto contro la dieta delle classi più povere, generalmente iperproteica e povera di vitamine e fibre, a base di junk food (“cibo spazzatura”). I casi di studio esaminati mostrano che l’agricoltura urbana non rappresenta un fenomeno in espansione solo nelle città del Sud del mondo; essa ha trovato l’interesse da parte delle amministrazioni pubbliche e dei cittadini anche nelle città dell’Occidente.

 

Figura 3. Agricoltura urbana in serra (evidenziata in giallo)

 

Nel complesso, secondo la FAO, le persone coinvolte in progetti di agricoltura urbana sono oltre un miliardo (negli anni ’90 erano già 800 milioni) di cui 230 milioni vivono in America Latina e 130 milioni in Africa. Oggi, l’agricoltura urbana, nelle sue diverse forme di sviluppo, può essere uno strumento efficace nella lotta alla fame nel mondo che, tra l’altro, è il primo obiettivo dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite. L’adozione dell’agricoltura in contesti urbani, soprattutto nelle grandi città, oltre ai benefici prima enunciati, contribuisce anche alla lotta al cambiamento climatico, mitigandone gli effetti. Non ultimo, essa risponde alla domanda di naturalità e ruralità richiesta con sempre maggior forza dai cittadini che abitano nelle grandi città del mondo.


Fonti per approfondire:

  • Centro Regionale d’Informazione delle Nazioni Unite (www.unric.org);
  • Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura (www.fao.org);
  • Consorzio Universitario per la Ricerca Socioeconomica e per l’Ambiente (www.cursa.it).

 

Nota:

L’immagine d’intestazione dell’articolo mostra uno scorcio del “vigneto di Montmartre” a Parigi, in Rue des Saules 11 (XVIII arrondissement). La foto è stata scattata da Andrea Campiotti (autore dell'articolo).

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Cooperazione tra Italia e Cina: costruire una nuova “via della seta” in chiave digitale

“Andando da soli si va veloci, ma insieme si va lontano”. L’Italia e la Cina devono cooperare tra loro e costruire una nuova “via della seta” in chiave digitale che rafforzi i rapporti tra i due Paesi. Questo è il messaggio chiave lanciato dalla conferenza “Digital Cooperation between Italy and China”, organizzata lo scorso 25 ottobre presso l’Ambasciata cinese a Roma. 


“Andando da soli si va veloci, ma insieme si va lontano”. Questo è il messaggio chiave lanciato dalla conferenza “Digital Cooperation between Italy and China”, organizzata lo scorso 25 ottobre presso l’ambasciata cinese a Roma (foto in alto). All’evento presieduto da Luigi Gambardella, Presidente di China EU, associazione internazionale che promuove la cooperazione, il commercio e gli investimenti in prodotti e servizi digitali tra Europa e Cina, sono intervenuti l’ambasciatore della Repubblica popolare cinese in Italia Li Ruiyn e il sottosegretario allo Sviluppo economico Michele Geraci, responsabile di una speciale task force per la cooperazione tra Italia e Cina. “L’economia digitale cinese è in forte sviluppo: nel 2017 il settore ha raggiunto un valore di 27 miliardi, con una crescita del 20,3% rispetto al 2016”, ha affermato l’ambasciatore Ruiyn. “I consumatori di prodotti digitali in Cina sono 800 milioni, cioè più di quanti ce ne siano negli Stati Uniti e in Europa e tra le 10 startup digitali più innovative al mondo, 5 sono cinesi”, ha sottolineato Ruiyn. 

Nel corso della conferenza si sono tenuti due panel tematici: il primo dal titolo “Il punto di vista degli addetti ai lavori sulle opportunità di cooperazione”, moderato da Rita Fatiguso, giornalista de Il Sole 24 Ore; il secondo dal titolo “Opportunità per la cooperazione sull’e-commerce”, moderato da Claudia Vernotti, Direttore di China EU. Ai due panel hanno preso parte diversi rappresentanti italiani e cinesi del settore sia privato che pubblico, tra i quali Angelo Coletta, Presidente di Italia Startup, Lin Yi, responsabile dell’Ufficio di rappresentanza per il commercio e gli investimenti in Europa, Thomas Miao, amministratore delegato di Huawei Italia, Andrea Ghizzoni, Direttore di Tencent Europa, Arno Reijm, CMO (Chief Marketing Officer) di WeGoEu ed Eduardo Barbaro, direttore mondiale di Bulgari. Nel corso dei due panel sono stati affrontati quelli che vengono considerati i settori chiave della cooperazione sino-italiana, tra i quali l’innovazione tecnologica, il settore dell’import export agroalimentare, quello del turismo e dei servizi digitali. Per quanto riguarda il settore agroalimentare, negli ultimi anni, la Cina ha registrato una forte crescita dei prodotti made in Italy, soprattutto vino e olio. Anche il turismo cinese in Italia è in forte crescita: tuttavia, durante la conferenza è stato posto l’accento sulla necessità di sviluppare nuovi format innovativi che rafforzino la cooperazione tra Italia e Cina in questo settore. L’Italia rappresenta, secondo i dati dell’Ufficio turistico cinese, la meta europea più amata dai cinesi, sebbene occorrano maggiori investimenti nei servizi digitali legati al turismo. A conclusione dei due panel, ha preso la parola il sottosegretario allo Sviluppo economico Michele Geraci, il quale ha sottolineato l’importanza di aver istituito una task force dedicata alla cooperazione tra Italia e Cina. Il sottosegretario ha poi evidenziato la necessità di aumentare gli investimenti nella digitalizzazione delle piccole e medie imprese, che rappresentano il cuore del tessuto economico del nostro Paese, e nello sviluppo di servizi digitali più efficienti che possano rilanciare il mercato del e-commerce che, stando ai dati, in Italia rimane un settore trascurato. Insomma, bisogna puntare sulla cooperazione internazionale e costruire una nuova “via della seta” in chiave digitale che rafforzi i rapporti tra i due Paesi.

Il prossimo mese si terrà il China International Import Expo  a Shanghai, città simbolo dello sviluppo economico cinese, al quale parteciperanno i rappresentanti di oltre 100 paesi del mondo, compresa l’Italia. “L’Expo rappresenterà un’importante iniziativa per mostrare l’apertura della Cina verso l’esterno e un’opportunità per rafforzare la cooperazione internazionale nell’economia digitale”, ha sottolineato l’ambasciatore Ruiyn.


Nota:

La foto che compare come immagine d'intestazione dell'articolo è stata scattata da Andrea Campiotti (autore dell'articolo) durante la conferenza presso l'Ambasciata cinese a Roma.

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Il Parlamento europeo dichiara guerra alle plastiche monouso

Il Parlamento europeo approva una nuova normativa sul consumo di plastica monouso che punta a vietare, a partire dal 2021, la vendita di posate, bastoncini cotonati, piatti, cannucce, miscelatori per bevande e bastoncini per palloncini. Al bando anche scatole usa e getta per panini, contenitori alimentari per frutta, verdura, dessert, gelati e articoli di plastica oxodegradabili. Il 6 novembre cominceranno i negoziati con i Paesi dell’Ue e, se tutto dovesse procedere nei tempi stabiliti, la normativa potrebbe essere approvata definitivamente entro marzo 2019. 


Dal 2021 sarà vietato vendere una serie di articoli di plastica monouso, come posate, bastoncini cotonati, piatti, cannucce, miscelatori per bevande e bastoncini per palloncini. Ieri, il Parlamento europeo ha approvato una nuova normativa che aggiunge all’elenco della materie plastiche vietate, proposto dalla Commissione europea a fine maggio con la COM(2018) 340 final , anche i sacchetti di plastica, gli articoli di plastica oxodegradabili (plastiche con l’aggiunta di additivi che ne accelerano la frammentazione in parti minuscole per effetto della radiazione solare), i contenitori in polistirolo espanso. Tra gli altri articoli di plastica che dovranno essere vietati a partire dal 2021 compaiono anche le scatole usa e getta per panini e i contenitori alimentari per frutta, verdura, dessert e gelati. I Paesi membri dell’Unione europea dovranno ridurre il consumo di questo tipo di prodotti del 25% dentro il 2025. Altri prodotti di plastica, come, ad esempio, le bottiglie per bevande, dovranno essere raccolte separatamente e riciclate al 90% sempre entro il 2025. Inoltre, la nuova normativa invita i vari Paesi membri ad elaborare piani nazionali per incoraggiare il consumo di prodotti adatti ad uso multiplo, nonché il loro riciclo e riutilizzo. Il Parlamento europeo dichiara poi guerra ai mozziconi di sigarette che contengono plastica, la cui quantità di rifiuti dovrà essere ridotta del 50% entro il 2025 e dell’80% entro il 2030. Saranno gli stessi produttori di tabacco a farsi carico dei costi di trattamento e di raccolta, compreso il trasporto. Un mozzicone di sigaretta, sottolinea il Parlamento europeo, può inquinare tra i 500 e 1.000 litri d’acqua e, se gettato in strada, può richiedere fino a 12 anni per disintegrarsi. Si tratta del secondo articolo di plastica monouso più presente tra i rifiuti. La nuova normativa impone lo stesso ai produttori di attrezzi da pesca che contengono plastica, i quali dovranno contribuire al riciclo di almeno il 15% dei prodotti entro il 2025. I Paesi dell’Ue, invece, dovranno garantire che almeno la metà di tutti gli attrezzi da pesca contenenti plastica perduti o abbandonati in mare, come reti, fili da pesca e cime, che rappresentano il 27% dei rifiuti che si trovano nelle spiagge europee, venga raccolta ogni anno. I prodotti elencati nella nuova normativa, fa sapere il Parlamento europeo, rappresentano il 70% di tutti i rifiuti marini e tra questi ci sono i 10 prodotti che inquinano maggiormente le spiagge europee (Figura 1). 
 

Figura 1. I dieci rifiuti plastici più diffusi nelle spiagge europee (fonte: Parlamento europeo)

 

A causa della sua lenta decomposizione, la plastica si accumula nei mari, negli oceani e nelle spiagge di tutto il mondo. I suoi residui si trovano in numerose specie animali, non solo marine, e finiscono, di conseguenza, nella catena alimentare dell’uomo. L’Unione europea produce 26 milioni di tonnellate di rifiuti plastici ogni anno, di cui solo il 30% è riciclabile, e di questi finiscono nel mare tra le 150 e le 500 mila tonnellate, con significative ricadute sull’ambiente e sulle specie che abitano il mare. A questo proposito, un rapporto pubblicato dalle Nazioni Unite nel  2016  sottolineava che i rifiuti marini, composti prevalentemente da plastica, minacciano la sopravvivenza di oltre 800 specie animali che muoiono ingerendo o restando intrappolare nei rifiuti. Il problema non affligge solo grandi specie animali, come i cetacei e le tartarughe marine, ma riguarda anche altri organismi come ostriche, cozze, coralli e persino plancton, inquinando l’intera reta trofica marina. E non sono solo le specie marine ad essere colpite dalla piaga dell’inquinamento da plastica. Una ricerca pubblicata nel 2015 sulla rivista scientifica Pnas ha rilevato che il 90% di tutti gli uccelli marini del mondo ha residui di plastica nelle proprie viscere, ingeriti perché confusi per cibo. Nel 2050, se i consumi di plastica dovessero continuare  al ritmo attuale, secondo la ricerca, ben il 99% degli uccelli si troverebbe ad avere plastica all’interno del proprio organismo. Per quanto riguarda il mar Mediterraneo, secondo uno studio del WWF, pubblicato lo scorso giugno, la plastica rappresenta circa il 95% di tutti i rifiuti gettati in mare e i suoi residui si trovano in oltre 130 specie marine.

Questi sono dati allarmanti che devono far riflettere le istituzioni europee, l’industria e i cittadini sulla necessità di ridurre i consumi di prodotti di plastica, in particolare di quelli monouso, e pongono l’accento sul dovere che noi tutti abbiamo di salvaguardare l’ambiente in cui viviamo. La nuova normativa, sottolinea la Commissione europea, comporterà un risparmio di 22 miliardi di euro per danni ambientali e di 6 miliardi per i consumatori. Ora, il Parlamento europeo dovrà avviare i negoziati con il Consiglio (l’organo politico dell’Unione) non appena i ministri dei Paesi dell’Ue avranno definito la propria posizione in merito alla normativa. I negoziati con il Consiglio cominceranno il 6 novembre e, se tutto dovesse procedere nei tempi stabiliti, la normativa potrebbe essere approvata definitivamente entro marzo 2019, mentre i divieti veri e propri non entreranno in vigore prima del 2021.