ecowave2018-plastica_principale

IEA: la produzione di plastica sosterrà la domanda globale di petrolio

Secondo un recente rapporto dell’Agenzia internazionale dell’energia, nei prossimi anni, la produzione di plastica potrebbe sostenere la domanda globale di petrolio. Le emissioni derivanti dal settore petrolchimico aumenteranno del 20% entro il 2030 e del 30% entro il 2050, mettendo a rischio gli obiettivi dell’Accordo di Parigi, primo fra tutti, quello che punta a contenere l’aumento della temperatura globale entro gli 1,5 °C entro la fine del secolo. Secondo il Club di Roma, l’unica strada possibile è quella dello sviluppo sostenibile. 


Nei prossimi anni, la produzione mondiale di plastica aumenterà e sosterrà la domanda globale di petrolio. A dirlo è l’Agenzia internazionale dell’energia (IEA) in un suo recente rapporto dal titolo The future of Petrochemicals, pubblicato lo scorso 5 ottobre. Negli ultimi decenni, si legge nel rapporto, la maggior parte del petrolio estratto a livello globale è servito per fornire carburante ai trasporti dotati di motori a scoppio. Tuttavia, nei prossimi anni, potrebbe registrarsi un’inversione di tendenza: la domanda di petrolio per i trasporti dovrebbe diminuire entro il 2050 a causa dell’aumento dei veicoli elettrici e di motori a combustione più efficienti, ma ciò sarebbe compensato dall'aumento della domanda di prodotti petrolchimici. La domanda globale, sottolinea la IEA, nel 2017 rappresentava circa il 12% della domanda totale di petrolio, circa 12 milioni di barili di petrolio al giorno, e si prevede che possa salire al 14% nel 2030 e al 16% nel 2050, sfiorando quota 18 milioni di barili al giorno. La crescita della domanda di prodotti petrolchimici si registrerà soprattutto in Cina e nei Paesi mediorientali, dove sono in costruzione grandi impianti industriali. Al contempo, la produzione di plastica, il prodotto petrolchimico più diffuso a livello globale, aumenterà vertiginosamente: del 30% entro il 2030 e del 60% entro il 2050, secondo le stime della IEA. Già oggi, sottolinea il rapporto, la domanda di plastica rappresenta il principale motore dell’industria petrolchimica e, dal 2000 ad oggi, ha superato quella di tutti gli altri materiali sfusi come acciaio, alluminio e cemento.

Nel 2015, secondo uno studio pubblicato sulla rivista Science Advances, sono state prodotte circa 380 milioni di tonnellate di plastica a livello globale (nel 1950 erano solo 2 milioni di tonnellate). Nel 2050, invece, secondo il rapporto della IEA, si produrranno oltre 1 miliardo di tonnellate di plastica ogni anno e tutto ciò avrà un enorme impatto sull’ambiente. Oltre all’inquinamento da plastica degli oceani e dei mari – la Fondazione Ellen MacArthur sostiene che, di questo passo, nei mari e negli oceani ci sarà più plastica che pesci entro il 2050 (The New Plastics Economy: Rethinking the future of plastics) – ci sarà anche quello dovuto alle emissioni di CO2 derivanti dall’industria petrolchimica, che aumenteranno del 20% entro il 2030 e del 30% entro il 2050.

La crescita della domanda globale di plastica, insieme con l’aumento delle emissioni di CO2, causato dalla crescita dell’industria petrolchimica, metteranno a rischio gli obiettivi dell’Accordo di Parigi, primo fra tutti, quello che punta a contenere l’aumento della temperatura globale entro gli 1,5 °C entro la fine del secolo. E secondo l’ultimo Special Report dell’Ipcc, l’organismo scientifico delle Nazioni Unite per la ricerca sui cambiamenti climatici, una delle soluzioni necessarie affinché si raggiunga l’obiettivo sarà proprio quella di abbandonare le fonti di energia fossili e intraprendere la strada dello sviluppo sostenibile. A questo proposito, un rapporto pubblicato nei giorni scorsi, in occasione del summit per il cinquantennale del Club di Roma, suggerisce che l’unica strada possibile per evitare la catastrofe climatica nei prossimi anni passa attraverso tre azioni fondamentali: l’eliminazione di tutte le fonti di energia fossili entro il 2050, la fine delle prospezioni per la ricerca di depositi geologici di carbone e dei sussidi a petrolio, carbone e gas e una carbon tax a livello globale.

una persona su 10 povera_principale

Una persona su dieci nel mondo vive in condizioni di povertà estrema

Secondo un recente rapporto della Banca mondiale, dal 1990 al 2015, oltre un miliardo di persone è uscito da una situazione di povertà estrema. Tuttavia, entro il 2030, il 90% di tutti i poveri del mondo potrebbe concentrarsi nella sola Africa subsahariana. La povertà cresce in Occidente: l’Eurostat censisce 118 milioni di persone a rischio povertà in Europa. Stando ai dati attuali, la strada verso l’eliminazione della povertà a livello globale, cioè il primo obiettivo dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite, sembra essere ancora lunga. 


“Laddove gli uomini sono condannati a vivere nella miseria, i diritti dell'uomo sono violati. Unirsi per farli rispettare è un dovere sacro”. Queste furono le parole pronunciate da padre Joseph Wresinsky, in occasione di una manifestazione pacifica per dire no alla miseria, organizzata per sua iniziativa il 17 ottobre 1987 a Parigi. La manifestazione si tenne nel piazzale monumentale di Trocadérò e vi parteciparono oltre cento mila attivisti per i diritti umani (Figura in alto). Cinque anni più tardi, nel 1992, l’iniziativa di Wresinsky spinse le Nazioni Unite a riconoscere il 17 ottobre come Giornata mondiale contro la povertà. Dopo la Giornata mondiale dell’alimentazione dedicata alle disuguaglianze alimentari, celebrata il 16 ottobre, il 17 è stata la volta della Giornata mondiale contro la povertà, che ha come principale obiettivo quello di porre l’accento sul tema della povertà, non solo economica, ma in tutte le sue forme. Non è un caso che queste due ricorrenze ricadano ogni anno a distanza di un giorno. Fame e povertà sono due fenomeni strettamente legati: dove non c’è lavoro c’è indigenza, dove c’è carenza di risorse per sopravvivere c’è fame. In altre parole, sono due facce della stessa medaglia.

In occasione della Giornata mondiale contro la povertà, la Banca mondiale ha reso noti i dati relativi alla povertà estrema nel mondo. Secondo il rapporto Povertà e prosperità condivisa 2018, nel 2015, ultimo anno per cui sono disponibili gli ultimi dati, 736 milioni di persone, vale a dire una persona su dieci a livello globale, hanno vissuto in condizioni di povertà estrema, ovvero con meno di 1,90 dollari al giorno (secondo la definizione di “povertà estrema” delle Nazioni Unite). Si tratta della percentuale più bassa che sia mai stata registrata, sottolinea il rapporto, poiché è scesa di un punto percentuale ogni anno dal 1990, quando i poveri estremi erano circa 1,9 miliardi, al 2015. Questo significa che, in 25 anni, oltre un miliardo di persone è uscito da una situazione di povertà estrema. Si tratta di un trend in crescita: per il 2018, le previsioni preliminari della Banca mondiale indicano un’ulteriore riduzione della povertà estrema che, ad oggi, dovrebbe interessare l’8,6% della popolazione mondiale. Il calo della povertà estrema, si legge nel rapporto, è stato dovuto alla vertiginosa crescita economia che ha interessato il continente asiatico negli ultimi vent’anni circa, in particolare Cina e India. Inoltre, se le previsioni si dovessero concretizzare, fa sapere la Banca mondiale, l’obiettivo di ridurre i poveri  estremi al 9% della popolazione globale, fissato dalle Nazioni Unite per il 2020, sarebbe stato raggiunto con due anni di anticipo. Tuttavia, arrivano segnali preoccupanti circa l’aumento della povertà in Africa, soprattutto nella regione subsahariana, dove, stando alle stime, nel 2030, si concentrerà il 90% di tutti i poveri estremi del mondo. Già oggi, sottolinea il rapporto, quest’area del continente africano risulta la più colpita dalla piaga della povertà estrema: tra i Paesi più a rischio, figurano il Togo, in cima alla classifica mondiale per il numero di persone sotto la soglia di indigenza assoluta, il Sierra Leone, il Niger e la Repubblica Democratica del Congo. Per quanto riguarda l’Asia, i Paesi più poveri sono il Bangladesh, l’India e il Nepal, seguiti da Pakistan, Buthan e Sri Lanka. In America Latina, invece, il Paese più povero in assoluto è l’Honduras, seguito da Guatemala e Nicaragua. Questa è la classifica se si tiene conto solamente del reddito giornaliero. Se si prendessero in considerazione altre variabili, la classifica potrebbe essere leggermente differente.

La povertà non interessa solo i Paesi elencati dalla Banca mondiale. Anche in Occidente, sia pure con parametri di riferimento diversi rispetto a quelli usati nei continenti più esposti al fenomeno, la povertà è in forte crescita. In Europa, ad esempio, secondo l’Eurostat (Ufficio Statistico dell’Unione europea), 118 milioni di persone vivono a rischio povertà, cioè quasi un cittadino europeo su quattro. Per quanto riguarda l’Italia, secondo l’Istat, oltre 5 milioni di persone vivono al di sotto della soglia di povertà e oltre 17 milioni (circa il 30% della popolazione) rischiano di cadervi. Nella classifica dei Paesi europei per livello di povertà, l’Italia si colloca al quinto posto, dopo Bulgaria, Romania, Grecia e Lituania. Dopo la Grecia, l’Italia è il Paese europeo dove il rischio di cadere in povertà è maggiormente aumentato dal 2008 ad oggi, cioè negli anni della crisi economica. Dal rapporto Povertà in attesa, pubblicato dalla Caritas in occasione della Giornata mondiale contro la povertà, emerge inoltre che, dagli anni pre-crisi ad oggi, il numero di poveri è aumentato del 182%. Si tratta di un dato allarmante, fa sapere la Caritas, e in controtendenza rispetto a quello registrato nell’area Ue, dove il rischio di cadere in una situazione di povertà è salito solo dal 2009 al 2012 per poi scendere costantemente fino ad oggi. Stando ai dati attuali, la strada verso l’eliminazione della povertà a livello globale sembra essere ancora lunga. Il primo obiettivo dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite, che prevede di eliminare la povertà in tutte le sue forme e in ogni parte del mondo, rimane una delle principali sfide dei prossimi anni.  

Premio nobel economia_principale

Il premio Nobel di quest’anno mostra lo stretto legame tra economia e ambiente

Come creare una crescita economica sostenuta e sostenibile a lungo termine? A questa domanda hanno risposto William D. Nordhaus della Yale University e Paul M. Romer della Stern School of Business della New York University, vincitori del premio Nobel per l’Economia 2018 per i loro studi “sull’integrazione dei cambiamenti climatici e delle innovazioni tecnologiche nell’analisi macroeconomica a lungo termine”. 


Una carbon tax a livello globale

William D. Nordhaus, 77 anni, professore alla Yale University, può essere definito un “economista del clima”. Negli anni ’90 fu il primo a creare un modello quantitativo in grado di descrivere l'interazione tra economia e clima, combinando teorie ed esperienze di fisica, chimica ed economia. Consulente economico nell’amministrazione Carter, Nordhaus ha scritto insieme con l’amico e collega Paul Samuelson, anch’egli premio Nobel per l’economia (nel 1970), uno dei manuali economici più diffusi al mondo dal titolo “Economia”. Le ricerche di Nordhaus vertono sull’interazione tra economica e cambiamento climatico e mostrano che il rimedio più efficace per risolvere i problemi causati dalle emissioni di gas ad effetto serra è una carbon tax da applicare uniformemente a tutti i Paesi a livello globale. Con questa misura si condizionerebbe il mercato, spingendo imprese e consumatori ad adottare soluzioni green o meno inquinanti, perché economicamente più convenienti, anche grazie agli incentivi a favore delle energie rinnovabili. In altri termini, con l’aumento del prezzo dell’energia prodotta attraverso il carbone, la domanda verso questo tipo di prodotti diminuirebbe a vantaggio di altre soluzioni con un minor impatto ambientale. “L’umanità sta giocando a dadi con l’ambiente”, ha dichiarato Nordhaus, rifacendosi ad una celebre affermazione fatta da Albert Einstein secondo cui “Dio non gioca a dadi con il mondo”. Einstein aveva risposto in questo modo ad una serie di accuse secondo le quali egli non comprendeva pienamente i traguardi raggiunti nel campo della nascente fisica quantistica. Per l’appunto: alcuni anni più tardi lo stesso Einstein si dovette ricredere e affermò: “Dio non gioca a dadi, ma qualche volta lo fa”.

Ci troviamo tuttavia in anni e in campi delle scienze completamente differenti. Oggi, l’attività antropica contribuisce a immettere nell’atmosfera gas e prodotti chimici che attaccano l’ozono, un gas fondamentale per gli equilibri del nostro pianeta, causa cambiamenti nell’uso del terreno e deforestazioni su larga scala, eliminando l’habitat naturale di molte specie animali e vegetali. Una delle sfide più urgenti del nostro tempo, ha spiegato la Royal Academy of Sciences di Stoccolma, “è combinare la crescita sostenibile a lungo termine dell’economia globale con il benessere della popolazione del pianeta”. Secondo i modelli sviluppati da Nordhaus le attività che dipendono fortemente dalle piogge o dai cambiamenti di temperatura, come l’agricoltura, la selvicoltura,  le attività ricreative all’aperto, saranno le più colpite dagli effetti dei cambiamenti climatici. 

 
La crescita economica è un processo endogeno

L’altro economista vincitore del premio Nobel per l’Economia, Paul M. Romer, 62 anni, è professore alla Stern School of Business della New York University. Romer, che fino a gennaio di quest’anno ricopriva il ruolo di Chief Economist della Banca Mondiale, è noto, tra gli economisti, per la sua “teoria della crescita endogena”. Secondo questa teoria le forze economiche governano la volontà delle imprese, influenzando la produzione di nuove idee e innovazione. La teoria della crescita endogena parte dal presupposto che la crescita si basa sul processo tecnologico, inteso come processo endogeno in grado di portare nel tempo allo sviluppo produttivo e, di conseguenza, all’aumento della ricchezza e della prosperità a lungo termine. Il primo teorico di questo modello di crescita fu l’economista Robert Solow, premio Nobel per l’Economia nel 1987. Il “modello Romer” rappresenta un superamento del “modello Solow” e mostra come i mercati non regolamentati possano produrre cambiamenti tecnologici, tenendo tuttavia poco conto del settore ricerca e sviluppo (R&S). In questo scenario sono necessari interventi governativi ben programmati, tra i quali il sostegno e gli aiuti a ricerca e sviluppo e la regolamentazione dei brevetti. L’analisi di Romer punta proprio a dimostrare che queste politiche sono di vitale importanza per la crescita a lungo termine, non solo all’interno di un singolo Paese ma a livello globale. I nuovi modelli proposti da Nordhaus e Romer, spiega il comitato dei Nobel, hanno allargato “lo spettro delle possibilità dell’analisi economica mettendo in opera soluzioni che spiegano come l'economia di mercato interagisca con la natura e la scienza”.

L’aver assegnato il premio Nobel a due teorie economiche legate ai cambiamenti climatici dimostra che la dimensione economica e quella ambientale sono ormai strettamente collegate e non possono essere prese in esame l’una scissa dall’altra.