4. Fertilizzazione sostenibile

Un contributo alla ecocompatibilità delle produzioni florovivaistiche può essere offerto anche dall’impiego di pratiche di concimazione più razionali, che consentono un uso più efficiente, e dunque ridotto, dei fertilizzanti chimici.

È stato evidenziato da specialisti del settore [09] come spesso le quantità di fertilizzanti somministrati alle piante ornamentali siano eccessive rispetto al loro fabbisogno, pur effettivamente elevato a causa dell’intenso ritmo di crescita che le caratterizza. A titolo di esempio, è stato calcolato che ad una coltura fuori suolo a ciclo aperto di rosa in serra vengano somministrati annualmente oltre 10.000 mc/ha di soluzione nutritiva contenenti circa 1,4-1,5 t/ha di azoto, il che significa una dispersione di tale elemento nei corpi idrici di almeno 350-400 kg/ha, senza considerare lo spreco di acqua. È evidente, dunque, la necessità di ripensare a questa pratica, adottando dei sistemi che soddisfino le esigenze fisiologiche delle piante tutelando, però, il più possibile l’ambiente. Tralasciando quelli già diffusi, come, ad esempio, la fertirrigazione e l’irrigazione a goccia, e altri più complessi ed onerosi, quali il controllo computerizzato della fertirrigazione con sistemi esperti, accenneremo ad una tecnologia in grado di ridurre sensibilmente l’impatto ambientale del florovivaismo, garantendo nel contempo un rendimento soddisfacente: i concimi a lenta cessione. Si tratta di prodotti che possono essere impiegati in dosaggi contenuti, grazie all’assimilazione pressoché completa da parte delle piante, e che comportano minori perdite per lisciviazione. A seconda del meccanismo di cessione si dividono in [10]:

  • concimi organici: dotati di bassissima solubilità, forniscono soprattutto azoto, previa mineralizzazione ad opera di funghi e batteri,
  • concimi a lenta solubilizzazione, in cui la cessione è regolata da processi di solubilizzazione e idrolisi;
  • concimi idrosolubili rivestiti.

Questi ultimi sono denominati concimi a rilascio controllato (CRL) e sono costituiti da granuli rivestiti da membrane polimeriche che lasciano diffondere gradualmente nel terreno gli elementi minerali contenuti al loro interno. Vengono somministrati all’inizio della stagione vegetativa e rilasciano i prinicipi attivi in un periodo di almeno 5-6 mesi, che per certi prodotti può arrivare addirittura a 16-18 mesi (Sportelli, 2013).

 Un modo per ridurre l’apporto di concimi di sintesi può essere anche l’impiego di biofertilizzanti, ossia formulati contenenti agenti biologici che consentono alle piante di assorbire dal suolo le sostanze nutritive di cui hanno bisogno, ma che non sono in grado di sfruttare direttamente. Al riguardo, la ricerca sta selezionando alcune colture di batteri autoctoni, che hanno la capacità di rendere disponibili tali nutrienti, trasformandoli in una forma assimilabile dalle piante; essi, inoltre, avrebbero un ruolo positivo nel contrastare lo sviluppo di altri organismi presenti nel terreno [11]. Utile appare anche l’impiego di micorrize, biofertilizzanti a base di funghi del genere Glomus, che stabiliscono una simbiosi con le radici delle piante: queste forniscono ai funghi gli zuccheri necessari alle loro funzioni vitali, traendone in cambio l’acqua e gli elementi minerali che essi assorbono dal suolo mediante le proprie ife. È possibile incrementare ulteriormente l’assorbimento favorendo, mediante l’uso di zeoliti o di materiali superassorbenti, la proliferazione di peli radicali (Sportelli, 2013).

Particolarmente indicato per il florovivaismo è, poi, l’impiego di compost di qualità, che, oltre a consentire una riduzione dell’uso di fertilizzanti, presenta l’importante vantaggio di trasformare i rifiuti in risorse, chiudendo il ciclo della raccolta differenziata, e di migliorare le proprietà del terreno. 

3. Solarizzazione e biofumigazione

Uno dei fattori di maggiore impatto ambientale nel comparto florovivaistico è sicuramente l’impiego di fitofarmaci per la difesa fitosanitaria delle colture, soprattutto in un sistema chiuso quali sono le serre, dove si calcola si effettuino trattamenti che, per alcune specie floricole, possono superare i 20 interventi per coltura [06].

Dopo la messa al bando del bromuro di metile, largamente utilizzato in passato per la sua indubbia efficacia, l’ampio spettro di azione e i brevi tempi di applicazione, ma fortemente lesivo dello strato di ozono stratosferico, si fa ricorso oggi a prodotti chimici contenenti un centinaio di principi attivi che, seppure autorizzati, possono creare comunque problemi ambientali e tossicologici sia per gli operatori che ne devono fare uso che per le popolazioni potenzialmente esposte. Secondo l’OMS, ogni anno nel mondo vi sarebbero tre milioni di persone intossicate da pesticidi e 220.000 decessi riconducibili ad un loro uso indiscriminato (Battistel, 2012). Si stanno considerando, pertanto, con sempre maggiore interesse alcuni metodi che, senza voler essere alternativi, possono contribuire sensibilmente alla riduzione del consumo di fitofarmaci. Tra questi, oltre alla lotta integrata, all’impiego di tecniche agronomiche tradizionali, quali ad es. la rotazione, si segnala la crescente applicazione della solarizzazione e della biofumigazione.

La solarizzazione è una pratica di tipo fisico, che può essere effettuata sia in pieno campo sia nelle colture protette e che determina la morte o, quantomeno, l’inattivazione di una vasta gamma di agenti biologici, grazie alle elevate temperature che consente di realizzare nel suolo. Detta anche “pacciamatura riscaldante” o “pastorizzazione solare del terreno”, sfrutta l’effetto serra e il conseguente aumento di temperatura che si raggiunge negli strati superficiali del terreno stesso quando, dopo averlo opportunamente lavorato e inumidito, lo si ricopre con film plastici trasparenti [1] dello spessore di 0,03-0,05 mm (ne esistono sul mercato anche di biodegradabili), lasciandolo esposto all’irraggiamento solare per un periodo di almeno quattro settimane nei mesi più caldi e soleggiati (in Italia, tra luglio e agosto). In tali condizioni si possono raggiungere, fino a 30-40 cm di profondità, temperature di 45-50°C, tali da risultare letali per gran parte della microflora e microfauna e dei semi di infestanti presenti nel suolo [07].  

La solarizzazione assume un particolare interesse nel florovivaismo italiano per una serie di aspetti che caratterizza questa attività nel nostro Paese, tra i quali la localizzazione delle produzioni in zone calde e soleggiate, ideali per l’attuazione di tale pratica, e la brevissima distanza che, nelle zone floricole tradizionali, separa le aziende produttive dagli insediamenti abitativi (vedi, ad esempio, Pescia, Sanremo, Torre del Greco), rendendo pericoloso per questi ultimi un impiego massiccio di pesticidi.

Un metodo fisico capace di combattere efficacemente una vasta gamma di agenti patogeni presenti nel terreno è anche la vaporizzazione che, attraverso l’iniezione di vapore nel suolo, consente di raggiungere temperature tali da sterilizzarlo.

Un’alternativa ai fumiganti tradizionali che può essere utilizzata in sinergia con la solarizzazione, è la biofumigazione. Si tratta di una tecnica che sfrutta un sistema naturale di difesa di cui sono dotate le piante appartenenti alla famiglia delle Brassicaceae, delle Capparidaceae e di altre Dicotiledoni: queste contengono nei loro tessuti dei glucosinolati, i quali, nel momento in cui le cellule subiscono delle lesioni ad opera di fattori abiotici o biotici, vengono a contatto con un enzima (normalmente localizzato in altro comparto cellulare), che li idrolizza liberando isotiocianati, nitrili ed altri composti tossici per batteri, funghi, nematodi, insetti ecc. Tale attività biocida è stata, pertanto, sfruttata introducendo nel terreno alcune specie di Brassicaceae, da utilizzare come colture da sovescio; più recentemente, però, per l’applicazione della biofumigazione al comparto del florovivaismo si è ritenuto più conveniente utilizzare degli estratti secchi, disponibili in commercio sotto forma di pellet o farine di semi disoleati, da spargere direttamente sul suolo: in questo modo, oltre ad una maggiore praticità e velocità, si ottengono risultati più efficaci [07], [08].

 


[1] I materiali generalmente preferiti sono PVC, EVA e LDPE.

2. La salvaguardia ambientale quale elemento “sensibile”

La qualità ambientale dei processi e dei prodotti è considerata oggi in tutti i settori un fattore di competitività, grazie al diffondersi tra i consumatori di un notevole interesse verso i temi della ecosostenibilità, che li orienta nei loro acquisti spesso in maniera decisiva, ma grazie anche a considerazioni di convenienza economica da parte degli imprenditori, legata al ridotto impiego di risorse, al più facile accesso al credito, previsto in molti casi per le aziende che dimostrino di operare nel rispetto dell’ambiente, all’immagine pubblica più favorevole che queste ultime acquisiscono e al risparmio dei costi di disinquinamento che potrebbero dover sostenere in caso di contaminazione del territorio da esse causata. Dati recenti dimostrano che le imprese che più crescono e più riescono a creare occupazione sono quelle green e che il 44% delle aziende manifatturiere che effettuano ecoinvestimenti esporta stabilmente, contro il 24% di quelle che non lo fanno [03]. Tale realtà riguarda anche il comparto florovivaistico, nel quale da tempo sono stati introdotti marchi di ecocompatibilità: un’indagine condotta in Nord America da Veriflora, l’ente di certificazione ambientale del settore, ha rivelato che il 90% degli acquirenti è interessato ai prodotti eco-friendly e circa il 30% chiede espressamente articoli dotati di tale certificazione [04]. In Europa, sin dal 1995 è stato introdotto il marchio olandese M.P.S. (Milieu Project Sierteelt), che viene concesso a produzioni florovivaistiche realizzate secondo specifici disciplinari in grado di garantire un maggiore rispetto ambientale e al quale si adegua ormai buona parte dei produttori, anche extra-comunitari, interessati a mantenere o aumentare le proprie quote sul mercato continentale e mondiale [05].

Le soluzioni in grado di rendere più sostenibile dal punto di vista ambientale il processo produttivo sono essenzialmente quelle che puntano alla riduzione del consumo di risorse naturali e ad un minor ricorso alla chimica, con un impiego più contenuto di fonti energetiche convenzionali, di acqua, fertilizzanti, diserbanti e, in generale, di fitofarmaci di sintesi. Nel seguito ci soffermeremo, in particolare, sul ruolo che possono svolgere la solarizzazione e la biofumigazione nel controllo di parassiti ed infestanti, su alcune modalità di fertilizzazione più ecosostenibili e su taluni materiali plastici innovativi per la copertura delle colture protette.