Conclusioni

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Il recupero delle terre rare dai Raee

L’ampia diffusione dei consumi nel settore delle apparecchiature elettriche ed elettroniche, caratterizzato, peraltro, da cicli di vita dei prodotti sempre più brevi, fa sì che i rifiuti da esse derivati rappresentino una risorsa importante per il recupero di terre rare, che potrebbe esserenotevolmente incrementato, considerando che in ambito Ue, dei 17 kg pro capite prodotti ogni anno, ne vengono raccolti separatamente circa 7: si tratta evidentemente di una media, in quanto si va dai 22 kg della Scandinavia ai 2 della Grecia e ai 4,3 dell’Italia, quantitativo quest’ultimo di poco superiore all’obiettivo minimo di 4 kg prescrittodalla Direttiva 2002/96/CE [1] per i Raee provenienti dai nuclei domestici [2]. Questo valore, tuttavia, sarà applicato fino al 31 dicembre 2015, in quanto, a partire dal 2016, inbase a quanto stabilito dalla Direttiva 2012/19/UE del 4 luglio 2012, il tasso minimo di raccolta in ciascuno Stato membro dovrà essere pari al 45% del peso medio delle apparecchiature immesse sul mercato nei tre anni precedenti, per aumentare gradualmente negli anni successivi fino a raggiungere, nel 2019, il 65% o, in alternativa, l'85% del peso dei Raee prodotti. Tale Direttiva, che deve essere recepita dagli Stati membri entro il 14 febbraio 2014, prescrive, tra l’altro, che Raee raccolti separatamentenon possano essere smaltiti se non siano stati preventivamente sottoposti a trattamento adeguato (ai sensi dell’art. 8) e che la raccolta ed il trasporto siano eseguiti in maniera da consentire condizioni ottimali per il riutilizzo, il riciclaggio o il confinamento delle sostanze pericolose. Facendo riferimento, in particolare, alle cinque grandi categorie di Raee previste dalDm n. 185 del 25 settembre 2007, i quantitativi raccolti in Italia nel 2012 sono stati stimati in poco meno di 240.000 tonnellate (tabella 2).

Tra le iniziative di recupero intraprese, di particolare interesse é il progetto messo a punto dal Laboratorio E – Waste Lab, i cui primi risultati sono contenuti nel Report 2012. [10]. Il laboratorio, che nasce da un partenariato multidisciplinare cui partecipano il Politecnico di Milano, la Regione Lombardia, Amsa, Stena S.p.A, ed Assolombarda, ha l’obiettivo dimassimizzare il valore del riciclo dei rifiuti da apparecchiature elettriche ed elettroniche, fornendo agli investitori interessati elementi di valutazione utili ai fini dell’efficacia del recupero di terre rare e di metalli preziosi. I ricercatori hanno esaminato criticamente una vasta mole di studi riportati in letteratura, effettuando un’analisi comparativa delle tecnologie utilizzabili nelle tre fasi principali del processo, ossia:

– lo smontaggio selettivo

– il pretrattamento

– la raffinazione

Lo smontaggio selettivo, finalizzato alla separazione delle componenti pregiate da quelle nocive, che andranno allontanate dopo adeguato trattamento, può comportare rischi per la salute degli operatori, che possono venire a contatto con sostanze pericolose quali piombo, mercurio, cadmio, cromo esavalente, arsenico etc. Lì dove possibile, bisognerebbe, pertanto, evitare di effettuare questa operazione manualmente e ricorrere piuttosto a metodi automatici, anche se il sistema ne perderebbe in flessibilità.

Il pretrattamento è una macinazione meccanica, che ha lo scopo di staccare le parti polimeriche da quelle da recuperare, aumentando nel contempo la superficie esposta agli attacchi chimici successivi. In questo ambito, particolarmente appropriata per i materiali contenenti resine termoplastiche è la macinazione criogenica (molto diffusa, ad es., per le schede di rete): in questo caso, prima della frantumazione, si opera un raffreddamento (con azoto liquido o ghiaccio secco), per evitare che le resine, rammollendo, aderiscano alle componenti da recuperare rendendone complicata la separazione.

La raffinazione è la fase che consente di recuperare e purificare i materiali che interessano; in particolare, per ciò che attiene alle terre rare, può realizzarsi mediante diversetecniche, tra le quali quelle biometallurgiche e idrometallurgiche: le prime, economiche ed ecocompatibili, utilizzano, per recuperare i metalli, materiali di svariata natura, quali foglie, microrganismi, corteccia, gusci di granchi ecc.; i processi idrometallurgici consistono, invece, in una lisciviazione con acidi inorganici, prevalentemente nitrico, cloridrico e solforico, idonei per il cerio, presente negli schermi dei Pc, e per l’ittrio, contenuto anche negli schermi delle Tv e nelle lampade fluorescenti, mentre il gadolinio e il praseodimio vengono attaccati soprattutto con acido cloridrico.

La separazione dei diversi metalli è l’operazione più delicata, perché, come si è detto, le terre rare hanno proprietà molto simili tra loro. In generale, possono essere utilizzati processi di estrazione solido- liquido (cristallizzazioni o precipitazioni frazionate) o liquido-liquido mediante solventi. Quest’ultima è la più utilizzata e viene effettuata in continuo e in controcorrente con recupero dei solventi.A tal proposito, l’Enea (Morgana, 2011), nel Centro Ricerche della Trisaia, ha messo a punto, sia su scala banco che di impianto pilota, un processo di estrazione con solvente e successiva cromatografia, allo scopo di sperimentare su matrici di natura diversa il recupero di terre rare ed altri metalli di valore strategico, ottimizzando le rese e minimizzando gli impatti ambientali. Peraltro, tale centro sta sperimentando in questo ambito l’impiego di fluidi supercritici, di liquidi ionici e della biometallurgia.

Tornando al Rapporto E-Waste Lab,il laboratorio, basandosi sui risultati dell’analisi comparativa effettuata, ha implementato un interessante progetto pilota .finalizzato ad un aumento del recupero di terre rare dai Raee, tenendo conto dei costi socio-economici e della redditività delle operazioni, nonché della sostenibilità ambientale. I punti chiave del progetto sono:

 

  • il potenziamento della raccolta, da attuare con un nuovo sistema che si concenti su computer e cellulari
  • l’adozione della macinazione criogenica
  • l’utilizzo di impianti industriali già esistenti sul territorio, rinnovandoli e prolungandone la vita utile.

Partendo da queste premesse, i ricercatori hanno effettuato uno studio di fattibilità economica, arrivando ad una stima del valore del recupero sia per ciò che attiene al contenuto di oro nelle schede di rete dei Pc, sia per quanto riguarda il neodimio presente negli hard disk. In base ai risultati ottenuti, sembrerebbe possibile recuperare, da una tonnellata di schede, circa 450 grammi di oro con costi pari al 30% del valore del recupero, da una tonnellata di hard disk circa 260 kg di neodimio, con costi all’incirca del 40% del valore del recupero. Si tratta evidentemente di risultati più che interessanti, seppure riferiti a prezzi di mercato comunque variabili, anche perché sono previsti ulteriori margini di miglioramento delle tecnologie.

Un’iniziativa interessante è anche quella intrapresa dalla Honda, in collaborazionecon la Societàgiapponese Metals & Chemicals, per il riciclaggio delleterrerarepresenti in batterie all’idruro di metallo-nichel raccolte, presso rivenditori giapponesi, nordamericani ed europei, dai vecchi veicoli ibridi Honda. Le due società hanno comunicato di aver messo a punto un processo, tenuto al momento segreto, in grado di recuperare pressappoco l’80% delle terre rare, con purezza superiore a quella del nuovo estratto e dei metalli raffinati [11].

Altrettanto interessanti sono alcuni progetti avviati da aziende italiane con il contributo di partner europei, accademici e non; tra essi, vale la pena di citare quelli della Dismeco e della Relight di Rho (comune alle porte di Milano). La Dismeco ha recuperato a Marzabotto, in provincia di Bologna, l’area di una vecchia cartiera per farne un centro di riciclaggio green, nel quale, in collaborazione con il Dipartimento di Tecnologia dell’Università svedese di Goteborg, cercherà di recuperare terre rare dalle lampadefluorescenti, e, in particolare, ittrio, metallo dal costo elevato e quasi del tutto assente nei paesi occidentali [12]. Quanto alla Relight, è un’azienda che nel 2010 ha trattato 17 milioni di tonnellate di Raee, per un fatturato di 8 milioni di euro. Fondatrice ed amministratore delegato è un’agronoma, Bibiana Ferrari, che è stata insignita dal Presidente Napolitano del grado di ufficiale dell’Ordine al merito della Repubblica italiana e che coordina il progetto europeo Hydro Weee (settimo Programma quadro Ue per la ricerca), nell’ambito del quale è stato realizzato, nel maggio del 2011, un impianto pilota in grado di estrarre, con processo idrometallurgico, ittrio ed indio dalle lampade fluorescenti esauste [3]. L’obiettivo è quello di migliorare la purezza dei minerali ottenuti, in modo da evitare ulteriori processi di raffinazione e avere così ampie possibilità di vendita all’intero settore della microelettronica. Al progetto hanno contribuito l’Università La Sapienza di Roma, l’Università dell’Aquila e la Politecnica delle Marche, nonché tre imprese straniere (l’austriaca Sat, la serba Se Trade e la rumena Greentronics), (Kratchmarova, 2011 [13]).



[1] La Direttiva2002/95/CE sarà abrogata dal 15 febbraio 2014.

[2] In alternativa, l’obiettivo da raggiungere in ogni Stato membrocorrisponderà al volume di peso medio di Raee raccolto nei tre anni precedenti, considerando il valore più alto.

[3] Nel 2010, sono state recuperate in Italia poco meno di 1,3 milioni di tonnellate di lampade fluorescenti.

Il monopolio della produzione mineraria cinese e i motivi di una scelta alternativa

La produzione mondiale di terre rare nel 2012 è stata stimata in circa 110.000 tonnellate, lievemente inferiore a quella dell’anno precedente. La Cina, con il 97% del totale, ne detiene praticamente il monopolio, pur possedendo solo il 40% circa delle riserve accertate. Questo perché i bassi prezzi di mercato degli anni passati ed il notevole impatto ambientale generato dai processi estrattivi hanno indotto gli altri Paesi ad abbandonare la produzione e a ricorrere, per la copertura del proprio fabbisogno, alle più convenienti importazioni. Recentemente, però, lo straordinario incremento dei consumi interni cinesi, dovuto al poderoso sviluppo industriale del Paese, ha portato ad una drastica riduzione delle esportazioni, che dal 2005 al 2010, con l’imposizione di quote e dazi, si sono più che dimezzate, passando da 65.609 a 30.256 tonnellate (tabella 1). Secondo alcuni, tale riduzione, più che dalla necessità di assicurare risorse sufficienti al mercato nazionale, deriverebbe da una precisa scelta strategica della Cina, volta a costringere le multinazionali straniere utilizzatrici di terre rare a trasferire le loro produzioni nel Paese, come, del resto, hanno già fatto alcune industrie occidentali, tra cui la Apple [03].

In verità, al di là di questi sospetti più o meno fondati, va detto che la minore offerta ai Paesi occidentali è stata determinata anche dalla recente chiusura, da parte dello Stato, di numerose piccole miniere abusive, che alimentavano un traffico illegale calcolato nel 30% delle esportazioni totali, nonché da un programma di estrazione più razionale che la Cina sembra voler intraprendere, avendo preso finalmente coscienza del devastante impatto ambientale connesso ad uno sfruttamento insano delle miniere come è stato quello finora attuato.

In ogni caso, la diminuzione delle forniture, unita ad una domanda sempre più consistente da parte del mondo occidentale, ha portato nella prima decade degli anni Duemila ad una sensibile lievitazione dei prezzi, che sono aumentati in qualche caso anche di trenta volte[1]: è il caso del disprosio, che nell’arco di otto anni è passato da 15 a 467 dollari al kg (Orati,2011[05]).

In questa situazione, che rischia di diventare drammatica per l’occidente, ormai largamente dipendente dalla Cina per tutte le produzionihigh tech, le iniziative possibili sono la riattivazione di miniere abbandonate, come è già accaduto per quella di Mountain Pass, in California, che richiederà comunque tempi non brevi per giungere ad una produzione adeguata alla domanda, e la ricerca di altri giacimenti. In effetti, sono state individuate nuove riserve, anche ingenti, in diverse parti del mondo, come Canada, Sudafrica, Groenlandia e persino nei fondali dell’Oceano Pacifico: di recente è stato scoperto, in prossimità del piccolo atollo giapponese di Minami Torishima, a circa 5,8 km di profondità, un giacimento di grande importanza che potrebbe da solo soddisfare gran parte del fabbisogno nazionale.Tali riserve vanno a sommarsi a quelle già note di Usa, Russia, Australia ecc., tuttavia l’ipotesi di un loro sfruttamento appare più che problematica per i costi elevati che questo comporta; tanto più che, dopo il picco raggiunto nell’estate 2011, a partire dal 2012 i prezzi delle terre rare sui mercati internazionali sono crollati, in conseguenza, probabilmente, sia delle difficili condizioni economiche generali, che hanno determinato una diminuzione della domanda, sia di una migliore efficienza dei materiali: si pensi che concentrati di terre rare sono passati da un prezzo medio di 82 $/kg nel 2011 a 36$/kg nel 2012 (Bellomo, 2013[06]). A ciò si aggiunge il problema del grave ed esteso impatto ambientale legato ai processi di estrazione e raffinazione delle terre rare. Questi, infatti, implicano l’uso di grandi quantitativi di acidi forti, che possono determinare vaste contaminazioni del territorio e la produzione di ingenti volumi di materiale di risulta, senza considerare gli elevati livelli di radioattività ai quali sono esposti i lavoratori e che persistono a lungo nell’ambiente, dovuti alla frequente presenza di torio ed uranio nelle miniere di terre rare. Basti ricordare il disastro ambientale di Baiyunebo, nella Mongolia Cinese, che oggi è un lago radioattivo di 11 chilometri quadrati (figura 1), o quello causato in Malaysia dalla giapponese Mitsubishi Chemicals, che, dopo essere stata costretta a chiudere, nel 1992, un impianto di raffinazione di terre rare, è ora impegnata in un'operazione di decontaminazione da materiali radioattivi per una spesa totale di 100 milioni di dollari.La popolazione malese, ancora fortemente toccata da quell’esperienza, si sta opponendo con veemenza all’attività, peraltro già avviata, di un impianto di raffinazioneda 2,5 miliardi di dollaridella società australiana Lynas, malgrado questa abbia assicurato che adotterà tutte le necessarie misure per evitare qualsiasi minaccia per l’ambiente, quale, ad esempio, la diluizione e miscelazione con calce del torio radioattivo (Sher, 2013, [07]).

Un altro caso emblematico è quello dei villaggi vicini a Baotou, nella Mongolia interna, dove si trova la più grande miniera cinese di terre rare, i cui abitanti sarebbero stati trasferiti altrove per la pesante contaminazione di acqua e raccolti: si valuta che i reflui della lavorazione, acidi e radioattivi, ammonterebbero annualmente a circa dieci milioni di tonnellatee rischierebbero di inquinare il Fiume Giallo, fonte idrica per centocinquanta milioni di persone (Orati,2011[05]). Per il futuro la situazione dovrebbe migliorare, se è vero che, come sostiene Chen Zhanheng, direttore del Dipartimento accademico della Società cinese delle terre rare di Pechino, “Il governo ha già varato leggi severe per tutelare l’ambiente ed eliminare tecnologie, attrezzature e prodotti arretrati. Le fabbriche che non riusciranno ad adeguarsi andranno incontro alla chiusura o alla fusione con aziende più grandi” (Folger, [08]). Tuttavia,la decontaminazione, come si è visto, richiede tempi lunghi e costi elevati.

Una soluzione a questi problemi potrebbe essere rappresentata dal ricorso a materiali diversi dalle terre rare, ma vi sono impieghi per i quali non si conoscono prodotti sostitutivi, come nel caso, ad esempio, dei display a cristalli liquidi utilizzati per i monitor di computer e televisori, in cui si fa uso di europio e fosforo rosso (Enea, [09]). Alcune industrie automobilistiche, dal canto loro, stanno riducendo le quantità di terre rare utilizzate nelle auto elettriche e ibride ricorrendo a tecnologie differenti, come ha fatto la Toyota; che nella Prius impiegava addirittura 25 kg di metalli rari; lo stesso orientamento è seguito da alcune imprese costruttrici di impianti eolici. La prospettiva più interessante, cui si sta guardando oggi con sempre maggiore attenzione, sembra essere, tuttavia, il recupero di tali metalli dai rifiuti di apparecchiature che li contengono e, in particolare, da quelle elettriche ed elettroniche.



[1] Si è calcolato che il mercato mondiale delle terre rare abbia toccato i quattro miliardi di dollari e abbia reso possibile la produzione di beni per quattromila miliardi di dollari (Sclaunich,2012[04]).