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La rigenerazione del suolo: il ruolo dell’agricoltura

L’aumento del numero di allevamenti e la maggior richiesta di produzioni agricole hanno portato a un eccessivo sfruttamento del suolo con conseguente peggioramento della sua qualità e sostenibilità.
Un suolo in condizioni naturali ha porosità, permeabilità e umidità tali da trattenere una grande quantità di acqua e quindi contribuisce a regolare il deflusso superficiale anche durante le precipitazioni atmosferiche.
In un ambiente antropizzato, il suolo è spesso degradato e perde le sue tipiche funzionalità perché è stato ricoperto da superfici impermeabili, ha subito l’asportazione dello strato superficiale, cioè quello ricco di sostanze organiche, oppure viene sottoposto a fenomeni di compattazione.
Questi tipi di degradazione comportano una diminuzione nella capacità di assorbimento delle acque da parte del suolo, generano un aumento dello scorrimento superficiale con conseguente crescita dei fenomeni erosivi e di trasporto di grandi quantità di sedimento.
Una revisione della gestione del suolo che porti ad una sua rigenerazione e successiva sostenibilità risulta estremamente importante ed attuale. L’Europa già da tempo è attiva in questo settore e dedica un intero ramo della ricerca del programma LIFE proprio al suolo e alle problematiche ad esso correlate.
Uno dei progetti che interessa il suolo e l’agricoltura è quello coordinato da Neiker-Tecnalia, l’istituto basco per la Ricerca e lo Sviluppo in Agricoltura, con la collaborazione dell’Istituto Navarrese delle Tecnologie Alimentari e Infrastrutture (INTIA) e l’Azienda Municipalizzata di Orduña (Urdeñuderra S.L.). La ricerca, che dovrebbe terminare a giugno 2016, ha ottenuto un finanziamento globale di 1.3 milioni di euro.
Il progetto mira a testare e analizzare diverse tecniche di agricoltura rigenerativa considerando la fattibilità da punto di vista sia ambientale sia economico. In particolare, le tecniche che saranno sperimentate sono cinque:

  • eliminazione dei pesticidi, erbicidi e fertilizzanti chimici;
  •  uso di fertilizzanti organici;
  • semina diretta dei pascoli;
  •  l’uso di specie erbacee perenni;
  • pianificazione del pascolo

La pratica indicata come semina diretta consiste nel creare dei piccoli buchi nel terreno dove inserire i semi. Questo metodo evita il tradizionale scavo di solchi, che, invece, aumentano l’erosione del suolo.
L’uso di specie erbacee perenni consente al prato di vivere più anni e, quindi, preserva l’integrità dal suolo più a lungo.
La pianificazione del pascolo consiste nel determinare dove e quando portare il bestiame al pascolo in modo di ottimizzare la qualità e l’uso del pascolo stesso. All’interno di questo punto ci sarà lo spazio dedicato allo studio sui terreni lasciati incolti per un determinato periodo e sull’impatto economico e ambientale derivante da questa pratica.

I campi sperimentali sono tutti in Spagna, disseminati nelle provincie di Arkaute (Álava-Araba), Roncesvalles (Navarre) e Orduña. Queste tre regioni sono state scelte in quanto presentano condizioni agro-climatiche molto diverse tra loro e quindi i risultati ottenuti potranno essere applicati in molte altre situazioni.

Per saperne di più:
Basque Research

Migliorare la ventilazione per migliorare gli allevamenti

Il microclima è un fattore di vitale importanza per lo sviluppo ottimale del bestiame nell’allevamento intensivo. Con microclima si intende: pressione dell’aria, rumore, temperatura, umidità, velocità di circolazione dell’aria, calore, luce solare e ultravioletta, e, ovviamente, composizione dell’aria. L’aria in una stalla contiene diversi gas, quali: ossigeno(O2), ozono (O3), anidride carbonica (CO2), ammoniaca (NH3), acido solfidrico (H2S), particolato, polveri e microrganismi. Inoltre, a seconda del tipo di allevamento si aggiungono in concentrazioni diverse altri gas inquinanti, quali: metano, monossido di carbonio e gas maleodoranti (indolo, mercaptano, squalene…).
Per il benessere animale è di vitale importanza che il microclima soddisfi determinate caratteristiche e, nelle fattorie moderne, sia grandi che piccole, questo obiettivo viene raggiunto con la ventilazione. La ventilazione però a sua volta deve funzionare ad una velocità ottimale per non effettuare il ricambio dell’aria né troppo velocemente né troppo lentamente. Normalmente, si prevede un ricambio d’aria più volte all’ora, d’inverno e con ancora con maggior frequenza d’estate.

Un gruppo di ricercatori dell’Università di Pristina in Mitrovica (Kosovo) ha pubblicato di recente sul Journal of Agriculture Innovations and Research, uno studio dove vengono presi in esame diversi impianti di ventilazione, applicati in stalle sia di piccole che di grandi dimensioni e con diverse tipologie di allevamento (bovini, ovini, suini e pollame).

Ad esempio, dallo studio emerge che per piccole strutture come porcilaie che ospitano una decina di scrofe o stalle con una decina di mucche è indicata una struttura bassa e lunga. La ventilazione in questo caso può essere garantita da ventole situate su fori disposti regolarmente a circa 2/3 metri dal suolo. Dei canali di ventilazione in entrata e in uscita possono essere installati al pavimento per poi arrivare fino al soffitto. Il drenaggio dell’aria inquinata avviene sfruttando il differenziale di temperatura: l’aria calda delle stalla sale e lascia spazio all’aria pulita, proveniente dall’esterno a temperatura inferiore.
Esempi dettagliati di questo tipo con disegni sono presenti all’interno dell’articolo. Vengono analizzate nel dettaglio diverse tipologie di allevamento, che variano per dimensioni, specie allevata, quantità di capi e struttura della stalla.
I metodi di ventilazione presi in esame vanno da quello naturale a quello combinato naturale-artificiale, idoneo per allevamenti intensivi e semi-intensivi.
La ventilazione artificiale analizzata è quella che funziona per sub-pressione, sovra-pressione e con un sistema combinato delle due.

Per saperne di più:
Università di Pristina in Mitrovica

La biodiversità si può salvaguardare anche con le coltivazioni intensive

In generale, l’intensificazione dell’uso delle terre agricole è sempre stato considerato come un rischio per la biodiversità. Finora tutti gli studi condotti hanno considerato soltanto singoli organismi o piccoli gruppi, tuttavia, ogni specie può rispondere in modo diverso alla modalità di utilizzo del terreno, pertanto l’impatto totale sulla biodiversità da parte del tipo di coltivazione non è sempre chiaro. Inoltre, non sono mai stati prese in considerazione le variazioni temporali, come ad esempio le variazioni annuali della coltivazione. Questo fattore può avere un forte impatto sulla biodiversità come sostenuto da alcuni ricercatori dell’Università di Berna che hanno di recente pubblicato sul “Proceedings of the National Academy of Science” la loro ricerca.
I proff. Eric Allan e Markus Fisher hanno coordinato un gruppo di ricerca formato da 58 scienziati svizzeri e tedeschi impegnati a raccogliere dati sulla biodiversità in 150 siti sparsi in tre regioni con diverse tipologie di coltivazione: non intensiva, mediamente intensiva e molto intensiva con largo uso di fertilizzanti.
Sono stati studiati molteplici organismi, dai batteri ai funghi fino a piante e animali. I risultati raccolti sono stati inseriti in un unico database.
Gli organismi sono stati raggruppati in 49 gruppi tassonomici e per misurare la biodiversità totale dell’ecosistema è stato introdotto il concetto di “multidiversità”.

Dallo studio emerge che la multidiversità diminuisce moltissimo con l’aumento dell’intensità di coltivazione e questo è particolarmente vero per le specie rare, quali cavallette e farfalle. Tuttavia, i cambiamenti temporali nell’intensità di coltivazione comportano un aumento di multidiversità.
Questo apre a possibili soluzioni fattibili e attuabili dagli agricoltori per proteggere la biodiversità mantenendo alta la produzione.
Si è visto che la diversità delle specie rare in terreni coltivati in modo intensivo e statico è pari al 18% della diversità possibile massima, mentre cresce al 31% quando la coltivazione, anche se intensiva, subisce delle variazioni. Sono soprattutto le specie rare a beneficiare di un alto livello di variazione interannuale nell’intensità di coltivazione.
Le variazioni che si possono apportare negli anni sono molteplici e possono consistere in: tipo e quantità di bestiame da pascolo, tipo di pascolo, frequenza delle falciature/anno, tipo di fertilizzazione (kg (N)/ha).
Dato che gli organismi presenti sulla superficie del terreno sono in genere più sensibili alla coltivazione intensiva rispetto agli organismi del sottosuolo, l’effetto delle variazioni interannuali sull’intensità di coltivazione è diverso per i due ecosistemi. Diversamente reagiscono anche gli organismi più comuni ed abbondanti, in genere poco sensibili alle coltivazioni intensive, rispetto a quelli rari, maggiormente colpiti da una coltivazioni intensiva dato il bisogno di un habitat più specifico. Ovviamente, esistendo una stretta correlazione tra l’ecosistema superficiale e quello del sottosuolo, l’effetto della variazione dell’intensità di coltivazione anche se non ha gli stessi effetti diretti sui diversi habitat e organismi, stimola la capacità di creare delle nicchie che consentono a tutte le specie di coesistere stabilmente.
Dallo studio emerge che ditteri, funghi micorrizici e pipistrelli non subiscono una diminuzione di biodiversità, mentre alcune piante e licheni come pure alcuni ortotteri, aracnidi e lepidotteri subiscono un rapido declino.
Inoltre, la frequenza di falciatura influisce molto di più sulla diminuzione della biodiversità rispetto all’impiego di fertilizzanti.

L’impiego del nuovo indice di multidiversità fornisce un supporto estremamente utile per la coltivazione intensiva dando indicazioni importanti su come ottimizzare la coltivazione conservando la biodiversità, aumentando di conseguenza la produzione di foraggio e la molteplicità di impollinatori capaci di promuove l’impollinazione delle coltivazioni vicine.

Per saperne di più:
Università di Berna
Articolo completo su Proceedings of the National Academy of Science