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La nuova patata “che dà la vita” viene dal Perù

Il Perù ha presentato a dicembre una nuova varietà di patata ottenuta tramite incroci con altre varietà locali. In Perù evistono migliaia di varietà di patate autoctone e la ricerca per nuove varietà è molto attiva. Questa ricerca ha coinvolto principalmente l’Istituto Nazionale per l’Innovazione in Agricoltura (INIA), il Centro Internazionale della Patata (CIP), l’Università per lo Sviluppo Andino di Huancavelica (UDEA), CARE Perù, PRISMA, CAPAC Perù, ADERS Perù e piccoli agricoltori della zona di Huancavelica. La ricerca, durata quattro anni, ha portato alla selezione di una nuova varietà denominata INIA 321 – Kawsay.
Kawsay in quechua significa “alimento che da la vita”. Tale denominazione la patata se l’è guadagnata in quanto il governo peruviano stima di poter lottare contro la malnutrizione infantile proprio con questo tubero. Infatti, a differenza delle altre patate normalmente coltivate, la Kawsay presenta una concentrazione maggiore di ferro, zinco e vitamina C. In particolare la Kawsay presenta un contenuto in ferro pari a 18.50mg/kg contro i 8-12mg/kg delle altre patate normalmente coltivate in Perù. Questa caratteristica potrebbe quindi essere determinante nel combattere l’anemia, problematica presente nei popoli andini e, al tempo stesso, rende questa patata un alimento potenzialmente essenziale per la nutrizione di bambini a partire dai 6 mesi.
Questa patata si adatta molto facilmente all’ambiente peruviano. Le prove su campo finora condotte hanno dimostrato ottime rese nelle zone andine comprese tra i 2500 e i 4100 m s.l.m., dove il clima si presenta temperato durante l’estate e freddo d’inverno. Inoltre, la crescita della Kawsay è favorita da un clima piovoso. Lo sviluppo di malattie fungine, come quelle supportate da Phytophthora infestans, favorite da clima umido e piovoso come quello dell'ara andina in oggetto, non costituisce un problema per la Kawsay. Questa varietà infatti dimostra una resistenza genetica alla peronospora (malattia che colpisce patate, pomodori, melanzane e solanacee in generale, oltre ad altre coltivazioni, causata proprio dalla presenza del fungo Phytophthora infestans).
La resistenza della Kawsay alla peronospora è un fattore importantissimo. Questa malattia, infatti, esige un intervento immediato da parte dell’agricoltore onde evitare la completa distruzione del raccolto. È stata proprio la peronospora la causa della grande carestia che ha colpito l’Irlanda nel 1800.
Un altro fattore positivo di questa varietà è la resa. Su suolo andino, le patate producono intorno alle 10 tonnellate per ettaro, mentre con la Kawsay si può ottenere una resa tra le 20 e le 25 ton/ha.
La resistenza alla peronospora e l’alta resa, dovrebbero avere un’ulteriore conseguenza positiva, ovvero maggiori entrate per il coltivatore, soprattutto per il piccolo agricoltore andino.
La Kawsay si presenta come una patata bianca, in quanto ha un colore chiaro, ma in aggiunta è farinosa, come la patata rossa. Risulta essere una patata saporita che si presta molto bene a quasi tutti i tipi di cottura: al forno, per zuppe, per gnocchi e purea; i risultati sono buoni anche nella frittura.
L’immissione di questa nuova patata nel mercato peruviano è da prevedere per giugno 2014. Da qui, se le aspettative verranno confermate, si potrà poi espandere ad altri mercati.

Per saperne di più:
INIA – Istituto Nazionale per l’Innovazione in Agricoltura
Andina
International Potato Center

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Prodotti ortofrutticoli di IV gamma sicuri: le ricerche recenti su fragola e lattuga

Quelli di IV gamma, detti anche “minimally processed foods” o “fresh-cut”, sono prodotti ortofrutticoli freschi venduti già pronti per il consumo. La commissione agroalimentare dell’Ente Nazionale Italiano di Unificazione (UNI) ha elaborato, per rispondere alle necessità del consumatore, una norma ad hoc, la norma UNI 11350, che dà indicazioni chiare su definizione, requisiti, principi generali e, quindi, sulla sicurezza del cibo stesso.
La ricerca internazionale è impegnata nella sperimentazione di nuovi metodi per rispondere alle norme più restrittivengenti e ottenere, al tempo stesso, che tali prodotti mantengano il più a lungo possibile le loro caratteristiche organolettiche principali.

Un gruppo di ricercatori ha sperimentato l’impiego dell’acido peracetico nell'acqua di lavaggio durante il processo di lavorazione della fragola per la produzione di IV gamma. Lo scopo è quello di ridurre la carica microbica e di conservare al tempo stesso il contenuto totale di antocianine e acido ascorbico. È di fondamentale importanza, infatti, che i frutti mantengano inalterato sia il profumo e il gusto, sia il contenuto di vitamine e sostanze antiossidanti.
Per la ricerca sono state saggiate diverse concentrazioni di acido peracetico (0, 50, 100 mg/l), diverse temperature (4, 22, 40°C) e diversa durata del trattamento (10, 65, 120 sec). Per lo studio si è considerata la fragola Camarosa. Durante il processo di lavorazione, le fragole sono state lavate con acqua potabile, di rubinetto, poi tagliate in 4 spicchi e infine lavate con la soluzione contenente l'acido peracetico secondo i trattamenti sperimentali previsti.
I dati sono stati analizzati ipotizzando due situazioni:

  • massimizzare la riduzione della carica microbica preservando però il 90% di antocianine e acido ascorbico;
  • massimizzare il contenuto in antocianine e acido ascorbico con una riduzione della carica microbica di 2 unità logaritmiche di Unità Formanti Colonia per grammo (log UFC/g).

Dai risultati è emerso che nel primo caso è necessario utilizzare 100 mg/l di acido peracetico a 24°C per 50 sec, mentre nel secondo è necessario utilizzare 20 mg/l di acido peracetico a 18°C per 52 sec. Quest’ultimo caso è quello consigliato in quanto rappresenta il miglior compromesso: la carica microbica sulle fragole è stata ridotta di 1.4 log CFU/g, mantenendo però l’88.4% delle antocianine e il 95.2% di acido ascorbico, le caratteristiche organolettiche rimangono inalterate e il consumo di acido peracetico è minimizzato.

Un gruppo di ricercatori dell’Università di Gent (Belgio) ha valutato invece il rischio di contaminazione crociata durante il lavaggio della lattuga di IV gamma. In particolare hanno studiato il trasferimento di Escherichia coli, E.coli Enteroemorragico (o E.coli O157), batteriofago MS2 (virus in grado di infettare delle cellule batteriche quale l’E.Coli) e norovirus murino dall’acqua di lavaggio alla lattuga e dalla lattuga all’acqua di lavaggio.
Per lo studio, i ricercatori hanno creato delle situazioni limite: sono state impiegate due sole vasche di lavaggio (WB1 e WB2) con acqua potabile ma priva di disinfettanti. Questa tipologia di acqua è ancora molto diffusa in diversi Paesi Europei, ed è stata scelta proprio per capire pienamente la contaminazione crociata potenziale e ottenere quindi dati di riferimento utili per un'ulteriore valutazione del rischio.
I ricercatori hanno inoculato prima la lattuga per quantificare il trasferimento di patogeni dal vegetale all'acqua; successivamente hanno inoculato l'acqua per quantificare il passaggio di microorganismi dall'acqua al vegetale. La riduzione della carica batterica della lattuga inizialmente contaminata dopo il lavaggio è risultata molto contenuta mettendo quindi in evidenza la vulnerabilità dei prodotti ortofrutticoli di IV gamma alla contaminazione durante la fase del lavaggio. Ne consegue la necessità di utilizzare trattamenti disinfettanti nell’acqua di lavaggio per evitare la contaminazione crociata con il passaggio di microrganismi sul prodotto finale pronto al consumo.

Per saperne di più:
Norma UNI 11350
Wiley Online Library, abstract di: “Optimisation of the peracetic acid washing disinfection of fresh-cut strawberries based on microbial load reduction and bioactive compounds retention”, (International Journal of Food Science & Technology)
Abstract di “Quantitative study of cross-contamination with Escherichia coli, E. coli O157, MS2 phage and murine norovirus in a simulated fresh-cut lettuce wash process”

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Bioraffinerie per l’agricoltura e l’agroindustria

Il giorno 6 dicembre 2013 si è svolto a Torino il workshop “Le bioraffinerie per l'agricoltura e l'agroindustria”, organizzato dal CRA, Consiglio per la Ricerca e la sperimentazione in Agricoltura.
Il workshop si è concentrato sulla sostenibilità dei processi produttivi agricoli, agrozootecnici e agroindustriali.
Un modo per incrementare il valore aggiunto e il reddito dell’impresa agricola è quello di valorizzare i sottoprodotti e gli scarti. L’impresa si trasforma di conseguenza in una bioraffineria che, riutilizzando i propri residui, contribuisce a ridurne il carico inquinante, aumenta la sostenibilità ambientale e allo stesso tempo migliora il bilancio economico.
A conclusione del convegno Legacoop Agroalimentare ha illustrato lo scale up di un processo pilota realizzato all’interno del progetto coordinato dal CRA-RPS: “BioMolEner – Recupero di scarti derivanti da attività agro-zootecniche ed agroindustriali per la produzione di biomolecole ad elevato valore aggiunto e biocombustibili”.
Il progetto è nato con lo scopo di creare un modello di bioraffineria realizzabile in aziende agricole di tipo agro-zootecnico e/o lattiero-caseario. Il modello già creato si basa su un sistema integrato di riutilizzo dei principali effluenti: liquami zootecnici, siero di latte e scotta (liquido residuale dopo l’estrazione della proteina e del grasso dal latte o dal siero di latte).
Il progetto prevede la produzione di biocombustibili per via biotecnologica, pertanto senza investimento di superfici agricole dedicate e senza entrare in competizione con produzioni di possibile destinazione alimentare, utilizzando esclusivamente scarti e residui, dopo aver massimizzato la valorizzazione di questi ultimi mediante l’estrazione e produzione di composti ad alto valore aggiunto.

Dal siero di latte si possono ottenere proteine, bioplasiche, acido lattico e bioetanolo.
Il siero viene pretrattato con un processo di precipitazione termocalcica e ultrafiltrazione al fine di recuperare la frazione lipidica e proteica. Il processo messo a punto non necessita del controllo della sterilità durante la fermentazione. Il processo di fermentazione creato in semicontinuo ha una resa in etanolo pressoché pari alla resa teorica massima sia con siero che con scotta. Il risultato ottenuto è particolarmente importante proprio per la scotta, perché mentre il siero può trovare varie forme di reimpiego, la scotta è un rifiuto che comporta solo un costo per lo smaltimento.
Questi processi generano a loro volta residui che possono a loro volta essere ancora riutilizzati.

Per la produzione di biodiesel è stata impiegata l’alga Scenedesmus obliquus per il trattamento di reflui gassosi e liquidi, contenenti rispettivamente CO2 e composti azotati. S.obliquus ha dimostrato la capacità di ridurre gli inquinanti presenti nel refluo, in particolare l’ammonio, con un consumo pari al 64% in 72 ore.
Bio-idrogeno e bio-metanovengono ottenuti dai liquami zootecnici con un processo di digestione anaerobica.
In particolare, il bio-idrogeno viene prodotto mediante un processo di digestione in doppio stadio in condizioni di dark fermentation. A tale scopo sono impiegati consorzi microbici selezionati su matrici complesse.
La produzione di biometano avviene invece in micro-reattori (microcosmi). La resa in biometano da siero di latte viene nettamente migliorata dall’aggiunta di effluenti zootecnici con incremento progressivo fino alla quota del 50% di liquame. E’ stata messa a punto una tecnologia innovativa a doppio stadio di codigestione di siero e liquami in continuo con fase acidogenica e metanogenica concentriche, mediante la quale le rese e la qualità di biometano sono significativamente maggiori rispetto alle digestioni a singolo stadio o a doppio stadio tradizionali.

I reflui di questi processi miscelati con gli effluenti derivanti dalle lavorazioni del siero di latte possono essere destinati alla produzione di biomassa microalgale.
L’impianto pilota realizzato e presentato al convegno è idoneo per la produzione di bioplastiche da siero di latte e di biocombustibili gassosi. La produzione di biocombustibili può avvenire o in doppio stadio, il primo per la produzione di idrogeno e il secondo volto alla produzione di metano, o con processo interamente dedicato alla produzione di metano.

Per saperne di più:
Progetto BioMolEner
Articolo sulla co-digestione siero di latte reflui zootecnici “Innovative two-stage anaerobic process for effective codigestion of cheese whey and cattle manure”

Articolo sulla produzione di bio-etanolo dall’industria casearia:
Production of bioethanol from effluents of the dairy industry by Kluyveromyces marxianus