La considerevole potenzialità dei giacimenti individuati rende sicuramente molto suggestiva l’ipotesi di un’estrazione del metano dagli idrati; tuttavia, la fattibilità e la convenienza di un simile recupero sono al momento ancora da valutare per i problemi tecnici e, soprattutto, ambientali che esso comporta, così che solo da qualche anno sono state avviate delle sperimentazioni sul campo.
Evidentemente per il recupero è necessario provocare la dissociazione degli idrati, in modo da liberare il metano intrappolato nel ghiaccio. Ciò può essere ottenuto tenendo presente il diagramma di fase dell’idrato di metano (figura 3), da cui si desumono le condizioni di temperatura e di pressione (legata ovviamente alla profondità) alle quali esso rimane stabile allo stato solido e oltre le quali, invece, il metano può esistere solo come gas libero [08]. Di conseguenza, i possibili metodi di estrazione si basano sulla modifica delle condizioni originarie, o mediante una stimolazione termica, ossia iniettando negli idrati un liquido o un gas caldo, o una depressurizzazione, praticando cioè dei fori che determinano, appunto, una diminuzione locale della pressione [02] o ancora una stimolazione chimica,mediante introduzione di acqua salata o di altri composti chimici (ad esempio, il metanolo) in grado di cambiare il campo di stabilità del sistema (Gargiulo– Cimenti A. – CimentiE., 2006). Un metodo molto interessante, che sembra aver fornito ottimi risultati nelle sperimentazioni condotte recentemente in collaborazione da Stati Uniti e Giappone, prevede l’iniezione di anidride carbonica [09], la quale va a prendere il posto del metano nel reticolo cristallino.
Va detto, tuttavia, che il processo di dissociazione degli idrati va gestito con estrema prudenza, in quanto un rilascio incontrollato di gas potrebbe avere conseguenze ambientali molto serie e di diverso tipo. In primo luogo, il metano, risalito in superficie, potrebbe passare nell’atmosfera aggravando notevolmente il problema del riscaldamento globale, dal momento che il suo potenziale effetto serra è almeno dieci volte superiore a quello dell’anidride carbonica: anche se esso non rimane a lungo nell’aria, in quanto si degrada in circa un decennio, le preoccupazioni restano poiché si trasforma proprio in CO2. L’aumento di temperatura potrebbe provocare, a sua volta, la dissociazione di altri idrati ed un’ulteriore liberazione di gas, con un effetto a catena.
Il metano, inoltre, come è noto, è infiammabile ed esplosivo e, dunque, potrebbe costituire un serio pericolo per gli stessi impianti di estrazione. Si ipotizza, a tale riguardo, che una delle cause dell’esplosione ed incendio della piattaforma petrolifera offshore Deepwater Horizon, avvenuta nel 2010 nel Golfo del Messico[1], sia stata proprio una violenta fuoriuscita di gas dovuta all’attività di trivellazione, che avrebbe provocato il riscaldamento di idrati presenti nell’area.
Un rischio ancora più grave legato all’estrazione di metano è l’instabilità dei versanti sottomarini che potrebbe derivare dalla diminuzione della resistenza meccanica dei sedimenti contenenti gli idrati, i quali potrebbero quindi scivolare lungo i margini continentali. Tali smottamenti, oltre ad avere effetti dirompenti sulle coste, potrebbero anche generare un maremoto con onde alte decine di metri: secondo gli studiosi, sarebbe stata la liberazione di metano dai giacimenti del Mare del Nord, in seguito alla deglaciazione, a provocare circa 8.000 anni fa l’enorme frana sottomarina denominata Storegga[2], che produsse un catastrofico tsunami al largo delle coste norvegesi e scozzesi [11].
Infine, il rilascio incontrollato di notevoli quantità di metano potrebbe produrre la formazione di enormi bolle di gas (blow out) che, risalendo verso la superficie del mare, determinerebbero una diminuzione della densità dell’acqua, facendo venir meno la spinta di galleggiamento e causando così l’affondamento di una eventuale imbarcazione in transito. A tale riguardo, è stato ipotizzato che sia questo fenomeno all’origine dell’inabissamento di navi nel “triangolo delle Bermuda”, un’area in cui la concentrazione di idrati nel fondale è fra le più alte del pianeta [12].
[1] L’evento provocò 11 morti e 17 feriti ed un vero e proprio disastro ambientale, con lo sversamento in mare di circa 5 milioni di barili di greggio [10].
[2] “Storegga” è un termine della vecchia lingua norvegese che significa “grande bordo”. Indica in questo caso un’enorme colata di detriti e fango, ampia 2.500kmq, che, partita dal margine della piattaforma continentale norvegese, si mosse per circa 800 Km, viaggiando verso gli abissi in direzione Nord-Ovest, ad una velocità di 20-25 m/s [11].