4. Lo stato delle ricerche

I rischi sopra richiamati e la complessità tecnica del processo di estrazione rendono al momento problematico lo sfruttamento commerciale del metano contenuto negli idrati, tuttavia diversi Paesi – in primo luogo USA e Giappone, ma anche Canada, India, Cina, Corea del Sud, Norvegia- stanno lavorando per cercare una soluzione che possa ridurre al minimo i pericoli e risultare, al contempo, economicamente sostenibile.

La prima produzione al mondo risale al 1971 e riguarda il campo di Messoyakha, nella Siberia Nord-Occidentale.

Estrazioni sperimentali e di breve durata si sono avute, ad opera di un team internazionale di ricerca, a Mallik, nel Nord-Ovest del Canada, in particolare nel permafrost del delta del fiume McKenzie, dove sono stati scoperti giacimenti di idrati sin dal 1972 e dove sono state effettuate due prove di produzione: la prima, nell’inverno 2001-2002, quando, utilizzando il metodo della stimolazione termica, sono stati ottenuti 500 mc di metano; la seconda, durata sei giorni, nel marzo 2008, quando sono stati estratti 13.000 mc mediante depressurizzazione [13]. 

3. Possibile estrazione del metano dagli idrati e problemi connessi

La considerevole potenzialità dei giacimenti individuati rende sicuramente molto suggestiva l’ipotesi di un’estrazione del metano dagli idrati; tuttavia, la fattibilità e la convenienza di un simile recupero sono al momento ancora da valutare per i problemi tecnici e, soprattutto, ambientali che esso comporta, così che solo da qualche anno sono state avviate delle sperimentazioni sul campo.

Evidentemente per il recupero è necessario provocare la dissociazione degli idrati, in modo da liberare il metano intrappolato nel ghiaccio. Ciò può essere ottenuto tenendo presente il diagramma di fase dell’idrato di metano (figura 3), da cui si desumono le condizioni di temperatura e di pressione (legata ovviamente alla profondità) alle quali esso rimane stabile allo stato solido e oltre le quali, invece, il metano può esistere solo come gas libero [08]. Di conseguenza, i possibili metodi di estrazione si basano sulla modifica delle condizioni originarie, o mediante una stimolazione termica, ossia iniettando negli idrati un liquido o un gas caldo, o una depressurizzazione, praticando cioè dei fori che determinano, appunto, una diminuzione locale della pressione [02] o ancora una stimolazione chimica,mediante introduzione di acqua salata o di altri composti chimici (ad esempio, il metanolo) in grado di cambiare il campo di stabilità del sistema (GargiuloCimenti A. – CimentiE., 2006). Un metodo molto interessante, che sembra aver fornito ottimi risultati nelle sperimentazioni condotte recentemente in collaborazione da Stati Uniti e Giappone, prevede l’iniezione di anidride carbonica [09], la quale va a prendere il posto del metano nel reticolo cristallino.

Va detto, tuttavia, che il processo di dissociazione degli idrati va gestito con estrema prudenza, in quanto un rilascio incontrollato di gas potrebbe avere conseguenze ambientali molto serie e di diverso tipo. In primo luogo, il metano, risalito in superficie, potrebbe passare nell’atmosfera aggravando notevolmente il problema del riscaldamento globale, dal momento che il suo potenziale effetto serra è almeno dieci volte superiore a quello dell’anidride carbonica: anche se esso non rimane a lungo nell’aria, in quanto si degrada in circa un decennio, le preoccupazioni restano poiché si trasforma proprio in CO2. L’aumento di temperatura potrebbe provocare, a sua volta, la dissociazione di altri idrati ed un’ulteriore liberazione di gas, con un effetto a catena.

Il metano, inoltre, come è noto, è infiammabile ed esplosivo e, dunque, potrebbe costituire un serio pericolo per gli stessi impianti di estrazione. Si ipotizza, a tale riguardo, che una delle cause dell’esplosione ed incendio della piattaforma petrolifera offshore Deepwater Horizon, avvenuta nel 2010 nel Golfo del Messico[1], sia stata proprio una violenta fuoriuscita di gas dovuta all’attività di trivellazione, che avrebbe provocato il riscaldamento di idrati presenti nell’area.

Un rischio ancora più grave legato all’estrazione di metano è l’instabilità dei versanti sottomarini che potrebbe derivare dalla diminuzione della resistenza meccanica dei sedimenti contenenti gli idrati, i quali potrebbero quindi scivolare lungo i margini continentali. Tali smottamenti, oltre ad avere effetti dirompenti sulle coste, potrebbero anche generare un maremoto con onde alte decine di metri: secondo gli studiosi, sarebbe stata la liberazione di metano dai giacimenti del Mare del Nord, in seguito alla deglaciazione, a provocare circa 8.000 anni fa l’enorme frana sottomarina denominata Storegga[2], che produsse un catastrofico tsunami al largo delle coste norvegesi e scozzesi [11].

Infine, il rilascio incontrollato di notevoli quantità di metano potrebbe produrre la formazione di enormi bolle di gas (blow out) che, risalendo verso la superficie del mare, determinerebbero una diminuzione della densità dell’acqua, facendo venir meno la spinta di galleggiamento e causando così l’affondamento di una eventuale imbarcazione in transito. A tale riguardo, è stato ipotizzato che sia questo fenomeno all’origine dell’inabissamento di navi nel “triangolo delle Bermuda”, un’area in cui la concentrazione di idrati nel fondale è fra le più alte del pianeta [12].

 

 


[1] L’evento provocò 11 morti e 17 feriti ed un vero e proprio disastro ambientale, con lo sversamento in mare di circa 5 milioni di barili di greggio [10].

[2]Storegga” è un termine della vecchia lingua norvegese che significa “grande bordo”. Indica in questo caso un’enorme colata di detriti e fango, ampia 2.500kmq, che, partita dal margine della piattaforma continentale norvegese, si mosse per circa 800 Km, viaggiando verso gli abissi in direzione Nord-Ovest, ad una velocità di 20-25 m/s [11].

 

2. Caratteristiche, formazione e localizzazione degli idrati di metano

Gli idrati di metano appartengono alla categoria dei clatrati, sistemi solidi costituiti da un reticolo di composti chimici “ospitanti” che ingabbia nelle sue cavità piccole molecole “ospiti”; nel caso specifico, il reticolo è dato da un cristallo di ghiaccio, nel quale le molecole d’acqua sono unite tra loro da legami a idrogeno e nelle cui maglie sono intrappolate, senza stabilire alcun legame chimico con esse, molecole di metano, con un rapporto in peso tra le due sostanze rispettivamente dell’85 e del 15% (figura 1). Tali strutture, di formula CH4.6H2O e densità pari a 913 kg/m3, rappresentano una forma molto concentrata di gas naturale, contenendo per ogni volume di idrato circa 170 volumi di metano.

La scoperta degli idrati di metano risale agli anni trenta, quando nei gasdotti siberiani furono notate delle ostruzioni che impedivano il flusso del gas e che sembravano dovute alla formazione di cristalli di ghiaccio, nonostante la temperatura fosse superiore a zero gradi [01]. Fu Hammerschmidt ad individuare, nel 1934, la reale natura di tali cristalli, confermata quarant’anni più tardi dal primo ritrovamento di un imponente campione sul fondo dell’Oceano Atlantico [02][1].

Il metano incluso negli idrati viene generato dalla trasformazione della materia organica (plancton, fanghi, liquami) attraverso due tipi di processi: termogenico e biogenico. Nel primo caso, le sostanze organiche contenute nelle rocce madri vengono alterate dal progressivo aumento di temperatura che incontrano man mano che le rocce sprofondano nei bacini sedimentari; nel secondo, sono i batteri metanogeni, che agiscono all’interfaccia acqua-sedimenti, ad operare una decomposizione anaerobica della massa biologica morta. Gli idrati di origine biogenica risultano contenere essenzialmente metano puro, mentre quelli di origine termogenica contengono anche elevati livelli di etano, propano e butano (Gargiulo- Cimenti A. – Cimenti E., 2006).

Altamente infiammabili (si definiscono talvolta “ghiaccio che brucia”), gli idrati di metano si formano, in presenza di quantità sufficienti di acqua e gas, lì dove sussistono condizioni di bassa temperatura ed alta pressione, nelle quali l’acqua solidifica e le molecole di metano vengono compresse al punto da essere costrette a penetrare nel cristallo di ghiaccio. Tali condizioni si rinvengono essenzialmente lungo i margini delle piattaforme continentali, dove maggiore è la concentrazione di sostanza organica, a profondità comprese fra i 300 e i 4.000 metri [2]: infatti, a profondità minori la pressione non è abbastanza elevata, mentre oltre i 4.000 metri l’aumento di temperatura dovuto al gradiente termico e la scarsità di materia organica non ne consentono la formazione [04]. Depositi significativi sono presenti, tuttavia, anche sulla terraferma, a profondità di alcune centinaia di metri, in quelle aree polari e sub-polari il cui suolo è perennemente ghiacciato (permafrost).

A livello globale, i principali giacimenti di idrati di metano sono stati individuati lungo i margini continentali dell’Oceano Pacifico e dell’Oceano Atlantico, al largo delle coste di USA, America Centrale, Australia settentrionale e dell’Antartide [3], nonché nelle aree di permafrost di Siberia, Alaska e Canada, tra i 200 e i 1.000 metri (Gargiulo- Cimenti A. – Cimenti E., 2006) (figura 2).

Per la rilevazione dei depositi la tecnica più idonea è la sismica a riflessione, una metodologia d’indagine geofisica attiva, che sfrutta le proprietà elastiche del terreno (Agate, 2010); largamente utilizzata nell’esplorazione del sottosuolo e dei fondali marini, consiste nel generare, mediante un’esplosione, delle onde sismiche che, propagandosi in profondità, subiscono una riflessione nel momento in cui incontrano un’interfaccia tra due formazioni dalle caratteristiche litologiche e/o fisiche diverse, quali sono appunto gli idrati di metano e i sedimenti che li contengono (negli idrati di metano la velocità di propagazione del suono è elevatissima, ben superiore a quella degli altri strati). Le registrazioni ed elaborazioni dei segnali riflessi consentono non solo di individuare la presenza degli idrati, ma, utilizzando dei modelli teorici di propagazione delle onde, anche di stimarne la concentrazione [06]. Si ritiene attualmente che i quantitativi di metano contenuti nei depositi di idrati del pianeta siano almeno mille volte superiori ai consumi annui mondiali [07].



[1] Più in generale, la scoperta dei clatrati idrati viene fatta risalire all’inizio dell’Ottocento, quando gli scienziati Humphrey Davy e Michael Faraday osservarono che miscele di cloro ed acqua congelavano a temperature superiori allo zero (Riso,2005).

[2] Un’eccezione è costituita dall’Artico, la cui acqua, più fredda rispetto alla media globale, rende possibile la formazione di idrati già a 200 metri circa [03].

[3] In questo continente sono stati i nostri ricercatori dell’Istituto Nazionale di Oceanografia e Geofisica (ogs) a scoprire il primo campo di gas idrati [05].