5. Materiali di copertura innovativi nelle serre

Le serre sono sistemi agricoli complessi, in cui vanno attentamente controllati l’umidità, il contenuto di anidride carbonica, la temperatura, l’intensità e la durata della luce. In particolare, l’incidenza della radiazione solare fotosinteticamente attiva (ossia compresa tra 400 e 750 nm) ha evidentemente un’importanza determinante per le rese e la qualità delle produzioni e, pertanto, deve essere massimizzata attraverso la scelta di un materiale di copertura che assicuri la maggiore trasparenza possibile. Esso, peraltro, deve avere una buona capacità di diffondere i raggi solari in tutte le direzioni, perché è stato dimostrato che, a parità di trasmissività, coperture a luce diffusa consentono, soprattutto nelle colture a sviluppo verticale, aumenti nelle rese fino al 10-15% in Nord Europa e fino al 40-60% in clima mediterraneo: i raggi diffusi, infatti, possono raggiungere le foglie degli strati inferiori dei fusti, che con l’irraggiamento diretto rimangono in ombra in quanto schermate da quelle apicali. Tutto ciò dando per scontata, ovviamente, la capacità che il materiale deve avere di aumentare la temperatura all’interno dell’ambiente protetto, ossia di favorire l’effetto serra, quando essa è troppo bassa, al fine di diminuire i consumi energetici: si calcola, infatti, che i consumi di energia delle serre italiane per il riscaldamento artificiale si aggirino sui 140.000 TEP, con una incidenza sui costi di produzione del 20-30% [03], [06]. In estate,viceversa, quando la temperatura è molto elevata, la copertura dovrebbe essere in grado di ridurre il surriscaldamento. Nel primo caso si può far ricorso a polimeri quali l’etilenvinilacetato (EVA), l’etilenbutilacrilato (EBA), il polivinilcloruro (PVC), il tetrafluoroetilene ((EFTE), la poliammide (PA) o all’aggiunta di cariche minerali; nel secondo, possono essere utilizzati film dotati di effetto termico speciale, ottenuto mediante l’impiego di coloranti (rosso, blu, verde ecc.) o mediante la dispersione nel materiale plastico di pigmenti d’interferenza, microbolle di gas o microsfere cave di vetro, che inducono un effetto diffusivo (Battistel, 2012).

Una possibilità che la ricerca nel campo dei materiali plastici sta mettendo, in questi ultimi anni, a disposizione dei serricoltori è la realizzazione di polimeri auto-pulenti, in grado di ridurre il depositarsi sulla copertura di polvere che, così come la condensa, può diminuire sensibilmente la percentuale di luce che raggiunge le colture e, dunque, le loro rese. Tale caratteristica viene conferita ai materiali trattandoli con nanoparticelle che consentono loro di imitare il cosiddetto effetto loto, vale a dire l’effetto che si realizza in natura in questa pianta, grazie ad una microstruttura di cui sono dotate le foglie e che le rende idrofobiche: in questo modo la pioggia rimuove facilmente la polvere accumulata (Battistel, 2014).

Materiali innovatividi di particolare interesse sono, poi, quelli che vengono comunemente definiti intelligenti, in quanto fotoselettivi, ossia capaci di filtrare selettivamente la luce solare mediante film colorati. Ad essi si è rivolta l’attenzione degli addetti ai lavori, i quali ne evidenziano l’efficacia in termini di fotosintesi e fotomorfogenesi delle colture, ma anche di riduzione dell’input energetico delle serre, nonché di contributo che possono fornire al controllo di infestanti, funghi, acari ed insetti patogeni. A tale riguardo, sono stati segnalati, ad esempio, i lusinghieri risultati ottenuti in Israele nella lotta contro mosca bianca [1] e tripidi [2] con l’ausilio di teli di copertura che bloccano i raggi UV, con i quali gli insetti si orientano (Battistel, 2012).

Va segnalato, peraltro, che tali materiali, dopo l’utilizzo, favoriscono il riciclo integrale [12].

Interessante è anche la notizia di una serra tropicale intelligente capace di autoregolarsi, cioè di modificare le caratteristiche del suo involucro adattandosi alle variazioni di calore e luce: grazie ad una struttura a cuscinetti, costituiti da due o più strati sovrapposti di ETFE, la serra riesce, infatti, a modificare la trasparenza e la resistenza al calore al variare della pressione interna ai cuscinetti [13]. 

È evidente che le diverse opzioni descritte, qualora si dimostrino realmente in grado di aumentare le rese e proteggere le colture in serra, potranno consentire un impiego ridotto di fattori di produzione quali combustibili, acqua e prodotti chimici di sintesi ed offrire così un utile contributo alla salvaguardia ambientale.

 


[1] È un insetto che trova nelle serre condizioni favorevoli di sviluppo e che si nutre di moltissime varietà di piante, le più comuni delle quali sono: begonia, dalia, ciclamino, fucsia, petunia e quasi tutte le varietà di geranio

 

[2] Sono insetti che attaccano praticamente tutte le piante erbacee, da orto o da fiore, ma anche arbusti, rosai, piccoli alberi e piante da frutto (es. gli agrumi). Particolarmente colpite sono le piante in coltura protetta o ricoverate all’interno durante l’inverno.

4. Fertilizzazione sostenibile

Un contributo alla ecocompatibilità delle produzioni florovivaistiche può essere offerto anche dall’impiego di pratiche di concimazione più razionali, che consentono un uso più efficiente, e dunque ridotto, dei fertilizzanti chimici.

È stato evidenziato da specialisti del settore [09] come spesso le quantità di fertilizzanti somministrati alle piante ornamentali siano eccessive rispetto al loro fabbisogno, pur effettivamente elevato a causa dell’intenso ritmo di crescita che le caratterizza. A titolo di esempio, è stato calcolato che ad una coltura fuori suolo a ciclo aperto di rosa in serra vengano somministrati annualmente oltre 10.000 mc/ha di soluzione nutritiva contenenti circa 1,4-1,5 t/ha di azoto, il che significa una dispersione di tale elemento nei corpi idrici di almeno 350-400 kg/ha, senza considerare lo spreco di acqua. È evidente, dunque, la necessità di ripensare a questa pratica, adottando dei sistemi che soddisfino le esigenze fisiologiche delle piante tutelando, però, il più possibile l’ambiente. Tralasciando quelli già diffusi, come, ad esempio, la fertirrigazione e l’irrigazione a goccia, e altri più complessi ed onerosi, quali il controllo computerizzato della fertirrigazione con sistemi esperti, accenneremo ad una tecnologia in grado di ridurre sensibilmente l’impatto ambientale del florovivaismo, garantendo nel contempo un rendimento soddisfacente: i concimi a lenta cessione. Si tratta di prodotti che possono essere impiegati in dosaggi contenuti, grazie all’assimilazione pressoché completa da parte delle piante, e che comportano minori perdite per lisciviazione. A seconda del meccanismo di cessione si dividono in [10]:

  • concimi organici: dotati di bassissima solubilità, forniscono soprattutto azoto, previa mineralizzazione ad opera di funghi e batteri,
  • concimi a lenta solubilizzazione, in cui la cessione è regolata da processi di solubilizzazione e idrolisi;
  • concimi idrosolubili rivestiti.

Questi ultimi sono denominati concimi a rilascio controllato (CRL) e sono costituiti da granuli rivestiti da membrane polimeriche che lasciano diffondere gradualmente nel terreno gli elementi minerali contenuti al loro interno. Vengono somministrati all’inizio della stagione vegetativa e rilasciano i prinicipi attivi in un periodo di almeno 5-6 mesi, che per certi prodotti può arrivare addirittura a 16-18 mesi (Sportelli, 2013).

 Un modo per ridurre l’apporto di concimi di sintesi può essere anche l’impiego di biofertilizzanti, ossia formulati contenenti agenti biologici che consentono alle piante di assorbire dal suolo le sostanze nutritive di cui hanno bisogno, ma che non sono in grado di sfruttare direttamente. Al riguardo, la ricerca sta selezionando alcune colture di batteri autoctoni, che hanno la capacità di rendere disponibili tali nutrienti, trasformandoli in una forma assimilabile dalle piante; essi, inoltre, avrebbero un ruolo positivo nel contrastare lo sviluppo di altri organismi presenti nel terreno [11]. Utile appare anche l’impiego di micorrize, biofertilizzanti a base di funghi del genere Glomus, che stabiliscono una simbiosi con le radici delle piante: queste forniscono ai funghi gli zuccheri necessari alle loro funzioni vitali, traendone in cambio l’acqua e gli elementi minerali che essi assorbono dal suolo mediante le proprie ife. È possibile incrementare ulteriormente l’assorbimento favorendo, mediante l’uso di zeoliti o di materiali superassorbenti, la proliferazione di peli radicali (Sportelli, 2013).

Particolarmente indicato per il florovivaismo è, poi, l’impiego di compost di qualità, che, oltre a consentire una riduzione dell’uso di fertilizzanti, presenta l’importante vantaggio di trasformare i rifiuti in risorse, chiudendo il ciclo della raccolta differenziata, e di migliorare le proprietà del terreno. 

3. Solarizzazione e biofumigazione

Uno dei fattori di maggiore impatto ambientale nel comparto florovivaistico è sicuramente l’impiego di fitofarmaci per la difesa fitosanitaria delle colture, soprattutto in un sistema chiuso quali sono le serre, dove si calcola si effettuino trattamenti che, per alcune specie floricole, possono superare i 20 interventi per coltura [06].

Dopo la messa al bando del bromuro di metile, largamente utilizzato in passato per la sua indubbia efficacia, l’ampio spettro di azione e i brevi tempi di applicazione, ma fortemente lesivo dello strato di ozono stratosferico, si fa ricorso oggi a prodotti chimici contenenti un centinaio di principi attivi che, seppure autorizzati, possono creare comunque problemi ambientali e tossicologici sia per gli operatori che ne devono fare uso che per le popolazioni potenzialmente esposte. Secondo l’OMS, ogni anno nel mondo vi sarebbero tre milioni di persone intossicate da pesticidi e 220.000 decessi riconducibili ad un loro uso indiscriminato (Battistel, 2012). Si stanno considerando, pertanto, con sempre maggiore interesse alcuni metodi che, senza voler essere alternativi, possono contribuire sensibilmente alla riduzione del consumo di fitofarmaci. Tra questi, oltre alla lotta integrata, all’impiego di tecniche agronomiche tradizionali, quali ad es. la rotazione, si segnala la crescente applicazione della solarizzazione e della biofumigazione.

La solarizzazione è una pratica di tipo fisico, che può essere effettuata sia in pieno campo sia nelle colture protette e che determina la morte o, quantomeno, l’inattivazione di una vasta gamma di agenti biologici, grazie alle elevate temperature che consente di realizzare nel suolo. Detta anche “pacciamatura riscaldante” o “pastorizzazione solare del terreno”, sfrutta l’effetto serra e il conseguente aumento di temperatura che si raggiunge negli strati superficiali del terreno stesso quando, dopo averlo opportunamente lavorato e inumidito, lo si ricopre con film plastici trasparenti [1] dello spessore di 0,03-0,05 mm (ne esistono sul mercato anche di biodegradabili), lasciandolo esposto all’irraggiamento solare per un periodo di almeno quattro settimane nei mesi più caldi e soleggiati (in Italia, tra luglio e agosto). In tali condizioni si possono raggiungere, fino a 30-40 cm di profondità, temperature di 45-50°C, tali da risultare letali per gran parte della microflora e microfauna e dei semi di infestanti presenti nel suolo [07].  

La solarizzazione assume un particolare interesse nel florovivaismo italiano per una serie di aspetti che caratterizza questa attività nel nostro Paese, tra i quali la localizzazione delle produzioni in zone calde e soleggiate, ideali per l’attuazione di tale pratica, e la brevissima distanza che, nelle zone floricole tradizionali, separa le aziende produttive dagli insediamenti abitativi (vedi, ad esempio, Pescia, Sanremo, Torre del Greco), rendendo pericoloso per questi ultimi un impiego massiccio di pesticidi.

Un metodo fisico capace di combattere efficacemente una vasta gamma di agenti patogeni presenti nel terreno è anche la vaporizzazione che, attraverso l’iniezione di vapore nel suolo, consente di raggiungere temperature tali da sterilizzarlo.

Un’alternativa ai fumiganti tradizionali che può essere utilizzata in sinergia con la solarizzazione, è la biofumigazione. Si tratta di una tecnica che sfrutta un sistema naturale di difesa di cui sono dotate le piante appartenenti alla famiglia delle Brassicaceae, delle Capparidaceae e di altre Dicotiledoni: queste contengono nei loro tessuti dei glucosinolati, i quali, nel momento in cui le cellule subiscono delle lesioni ad opera di fattori abiotici o biotici, vengono a contatto con un enzima (normalmente localizzato in altro comparto cellulare), che li idrolizza liberando isotiocianati, nitrili ed altri composti tossici per batteri, funghi, nematodi, insetti ecc. Tale attività biocida è stata, pertanto, sfruttata introducendo nel terreno alcune specie di Brassicaceae, da utilizzare come colture da sovescio; più recentemente, però, per l’applicazione della biofumigazione al comparto del florovivaismo si è ritenuto più conveniente utilizzare degli estratti secchi, disponibili in commercio sotto forma di pellet o farine di semi disoleati, da spargere direttamente sul suolo: in questo modo, oltre ad una maggiore praticità e velocità, si ottengono risultati più efficaci [07], [08].

 


[1] I materiali generalmente preferiti sono PVC, EVA e LDPE.