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La peste suina spaventa l’Europa

Una peste suina dall’alto potenziale distruttivo denominata “febbre suina africana” si sta avvicinando pericolosamente ai confini orientali dell’Europa e inquieta gli allevatori. La febbre suina africana (African Swine Fever – ASF) è una malattia virale con un tasso di mortalità del 100%. Alcuni virologi hanno trovato dei collegamenti tra questo virus e l’ebola.

Il virus è arrivato in Georgia nel 2007 all’interno di carne di maiale infetta proveniente dall’Africa dell’est. L’impiego di tale carne infetta nella preparazione di mangimi per altri maiali allevati in Georgia ha fatto sì che la malattia si diffondesse nel paese. Dalla Giorgia il virus si è poi diffuso in Russia, Bielorussia e di recente è comparso in diverse località di Lituania, Lettonia, Estonia e Polonia.

L’Unione Europea sta reagendo a questo pericolo potenziale finanziando un progetto denominato ASFORCE, che vede la collaborazione di 18 partner di tutto il mondo, tra cui: l’Istituto Zooprofilattico Sperimentale dell’Umbria e delle Marche, il Royal Veterinary College (Londra – UK) e l’Helmholtz Centre for Environmental Research (Leipzig – Germania). Lo scopo principale del progetto è proprio quello di approfondire le ricerche sulla modalità di diffusione di tale virus, creare dei modelli previsionali relativi ad una possibile diffusione e, soprattutto, trovare vaccini o trattamenti efficaci.

L’ASF è molto diffusa in Africa, può infettare animali selvatici, come i facoceri, senza però ucciderli. Invece causa febbre emorragiche mortali nei suini di allevamento. Sfortunatamente questo virus è abbastanza resistente e sopravvive non solo nelle carne di maiale fresca, stagionata o affumicata, ma anche nei luoghi che sono venuti a contatto con la carne infetta, quali contenitori, ruote dei veicoli o perfino il camice del veterinario. Questo comporta difficoltà notevoli nel controllo e restrizione della diffusione del virus.
Al momento non sono disponibili né vaccini né trattamenti, e data l’alta contagiosità del virus l’unica soluzione consiste in un’allerta precoce da parte dell’allevatore a cui segue l’isolamento del capo infetto e la restrizione di movimenti di persone, animali e veicoli che possono essere entrati in contatto con il virus.
Il virus attacca e uccide anche i cinghiali selvatici nel giro di qualche giorno; ma anche se questi non possono fungere da immagazzinatori del virus, tuttavia possono comunque favorirne la diffusione non solo per via diretta, perché gli animali infetti sono comunque liberi di muoversi, ma anche per via indiretta, in quanto possibili prede di cacciatori che inconsapevolmente possono contribuire alla diffusione del virus. Il divieto di caccia è necessario in tutte le zone che potrebbero essere contaminate.
Il comportamento umano incide molto sulla diffusione della malattia visto che il virus resiste anche sui veicoli e sui vestiti di chi ne viene in contatto; perciò è da evitare lo spostamento di animali infetti anche da morti.
È per questo che la presenza di animali malati al confine Russia-Polonia e nei Paesi baltici risulta molto preoccupante per gli allevatori europei.

Chris Oura, esperto virologo dell’Università di “West Indies” a S. Augustine in Trinidad e Tobago, paragona il virus della febbre suina africana all’ebola. Infatti la peste suina causa rapidi danni interni alle cellule dei rivestimenti dei vasi sanguigni dei maiali e causa anche lesioni interne catastrofiche agli organi. Al momento oggetto di studio del progetto è come il virus si trasmetta tra i maiali e a che velocità; si cerca anche di capire meglio l’epidemiologia della malattia per creare dei modelli previsionali sull’impatto di tale virus se si diffondesse all’interno dell’Unione Europea. La partecipazione dell’Italia è molto importante visto che rappresenta un’ottima fonte di informazioni essendo il virus già comparso anni addietro in Sardegna.

Per saperne di più:
ASFORCE
Royal Veterinary College
Helmholtz Centre for Environmental Research