La ricerca scientifica può cambiare l’Italia. Intervista a Roberto Defez
Continua il ciclo di interviste organizzato dalla nostra rivista in occasione del Premio Galileo 2019 per la divulgazione scientifica, il principale evento della Settimana della scienza e dell’innovazione di Padova. Questa volta pubblichiamo l’intervista a Roberto Defez, direttore del laboratorio di biotecnologie microbiche presso l’Istituto di Bioscienze e Biorisorse del CNR di Napoli e autore del libro “Scoperta. Come la ricerca scientifica può aiutare a cambiare l’Italia”, nella cinquina dei finalisti.
Dott. Defez, nella premessa al suo libro lei riporta una serie di dati, in particolare quelli relativi al rapporto del World Economic Forum sulla competitività (dati aggiornati al biennio 2017 – 2018), quanto mai scoraggianti. Come si esce da una tale situazione?
Da una tale situazione si esce avendo una precisa visione politica del Paese.
In che senso?
Nel senso che l’Italia non può certamente competere a livello europeo e con il resto del mondo per bassa qualità della manodopera, bensì attraverso un’elevata qualità del lavoro. Se si vuole intraprendere questo percorso, però, bisogna investire maggiormente nel comparto della ricerca, in innovazione e nelle nuove tecnologie, seguendo una strategia a lungo termine.
Qual è a suo avviso il più grande ostacolo alla ricerca in Italia?
L’ostacolo più grande alla ricerca, secondo me, è rappresentato dalla incapacità da parte dei governi di avere una visione a lungo termine, rivolta ai prossimi dieci anni. Le scelte di questi anni, infatti, sono ad una visione a breve termine.
Nel suo libro riporta alcuni casi di disinformazione sui temi scientifici. Perché la gente non crede più alla scienza ma si affida, spesso e volentieri, alle fake news?
Perché si tratta di informazioni ritagliate sui bisogni del consumatore.
Ovvero?
Vede, è più facile allarmare le persone sui rischi connessi, ad esempio, al glifosato presente nei prodotti alimentari che consumiamo, piuttosto che informare sui dati pubblicati da istituti e agenzie internazionali che operano nel settore. È più facile raccontare bufale sull’agricoltura spontanea che spiegare alle persone che si tratta, invece, di un’agricoltura che richiede più tempo e attenzione e che non può certamente avere gli stessi risultati di quella tradizionale.
Per quanto riguarda l’agricoltura biologica?
Il biologico è una pratica agricola difficile, poco produttiva e che garantisce basse rese. L’etichetta apposta su un prodotto ci dice che un prodotto è “bio” e noi consumatori ci fidiamo di quanto riportato dall’etichetta. Tuttavia, non abbiamo la conferma che ciò che finisce sulle nostre tavole è naturale al 100 per cento. Il biologico è diventato un vero e proprio business rivolto ad una parte dei consumatori che possono permettersi di spendere di più. In realtà, dovrebbe rimanere una pratica agricola confinata alle piccole realtà produttive e ai gruppi agricoli equosolidali. Inoltre, mi sembra che il biologico sia diventato un trend che distoglie l’attenzione sulla carenza di innovazione di cui soffre il settore dell’agricoltura in Italia.
Cambiamo argomento. Nel quarto capitolo del suo libro, in un episodio da lei ideato con i personaggi della saga di Harry Potter, scrive: “Una parte degli scienziati italiani dovrebbe essere chiamata a un maggior grado di responsabilità e autocritica”. Cosa intende dire?
A mio avviso, in Italia non esistono sistemi per isolare chi racconta volutamente sciocchezze e inventa dati senza avere dietro prove scientifiche. In Italia è diffusa la credenza che l’autore di un articolo scientifico dice sempre la verità. Ma così non è, e alcune vicende accadute nel nostro Paese nel corso degli anni lo confermano.
A conclusione del suo libro lei cita un’organizzazione scientifica internazionale dal nome molto evocativo, “Tempesta di cervelli”. Come si fanno tornare i cosiddetti “cervelli in fuga” nuovamente in Italia?
Si riportano in Italia con enorme difficoltà. È davvero difficile per uno scienziato che ha avuto la possibilità di fare un’esperienza lavorativa all’estero tornare nuovamente in Italia. Il nostro Paese soffre di una sorta di emorragia interna di scienziati e di ricercatori che se ne vanno via dai nostri istituti e laboratori. E la colpa è nostra. Dobbiamo poter creare occasioni per farli rientrare in Italia.
Sembra complesso. Potrebbe fare un esempio.
Ad esempio, si potrebbe pensare di coinvolgere coloro che hanno fatto delle esperienze lavorative all’estero nelle commissioni che si occupano di valutare i progetti, assegnare le borse di studio ecc. Sarebbe un modo per chiedere scusa all’enorme fiume di scienziati italiani che si formano in Italia e che poi vanno all’estero.