Il monopolio della produzione mineraria cinese e i motivi di una scelta alternativa

La produzione mondiale di terre rare nel 2012 è stata stimata in circa 110.000 tonnellate, lievemente inferiore a quella dell’anno precedente. La Cina, con il 97% del totale, ne detiene praticamente il monopolio, pur possedendo solo il 40% circa delle riserve accertate. Questo perché i bassi prezzi di mercato degli anni passati ed il notevole impatto ambientale generato dai processi estrattivi hanno indotto gli altri Paesi ad abbandonare la produzione e a ricorrere, per la copertura del proprio fabbisogno, alle più convenienti importazioni. Recentemente, però, lo straordinario incremento dei consumi interni cinesi, dovuto al poderoso sviluppo industriale del Paese, ha portato ad una drastica riduzione delle esportazioni, che dal 2005 al 2010, con l’imposizione di quote e dazi, si sono più che dimezzate, passando da 65.609 a 30.256 tonnellate (tabella 1). Secondo alcuni, tale riduzione, più che dalla necessità di assicurare risorse sufficienti al mercato nazionale, deriverebbe da una precisa scelta strategica della Cina, volta a costringere le multinazionali straniere utilizzatrici di terre rare a trasferire le loro produzioni nel Paese, come, del resto, hanno già fatto alcune industrie occidentali, tra cui la Apple [03].

In verità, al di là di questi sospetti più o meno fondati, va detto che la minore offerta ai Paesi occidentali è stata determinata anche dalla recente chiusura, da parte dello Stato, di numerose piccole miniere abusive, che alimentavano un traffico illegale calcolato nel 30% delle esportazioni totali, nonché da un programma di estrazione più razionale che la Cina sembra voler intraprendere, avendo preso finalmente coscienza del devastante impatto ambientale connesso ad uno sfruttamento insano delle miniere come è stato quello finora attuato.

In ogni caso, la diminuzione delle forniture, unita ad una domanda sempre più consistente da parte del mondo occidentale, ha portato nella prima decade degli anni Duemila ad una sensibile lievitazione dei prezzi, che sono aumentati in qualche caso anche di trenta volte[1]: è il caso del disprosio, che nell’arco di otto anni è passato da 15 a 467 dollari al kg (Orati,2011[05]).

In questa situazione, che rischia di diventare drammatica per l’occidente, ormai largamente dipendente dalla Cina per tutte le produzionihigh tech, le iniziative possibili sono la riattivazione di miniere abbandonate, come è già accaduto per quella di Mountain Pass, in California, che richiederà comunque tempi non brevi per giungere ad una produzione adeguata alla domanda, e la ricerca di altri giacimenti. In effetti, sono state individuate nuove riserve, anche ingenti, in diverse parti del mondo, come Canada, Sudafrica, Groenlandia e persino nei fondali dell’Oceano Pacifico: di recente è stato scoperto, in prossimità del piccolo atollo giapponese di Minami Torishima, a circa 5,8 km di profondità, un giacimento di grande importanza che potrebbe da solo soddisfare gran parte del fabbisogno nazionale.Tali riserve vanno a sommarsi a quelle già note di Usa, Russia, Australia ecc., tuttavia l’ipotesi di un loro sfruttamento appare più che problematica per i costi elevati che questo comporta; tanto più che, dopo il picco raggiunto nell’estate 2011, a partire dal 2012 i prezzi delle terre rare sui mercati internazionali sono crollati, in conseguenza, probabilmente, sia delle difficili condizioni economiche generali, che hanno determinato una diminuzione della domanda, sia di una migliore efficienza dei materiali: si pensi che concentrati di terre rare sono passati da un prezzo medio di 82 $/kg nel 2011 a 36$/kg nel 2012 (Bellomo, 2013[06]). A ciò si aggiunge il problema del grave ed esteso impatto ambientale legato ai processi di estrazione e raffinazione delle terre rare. Questi, infatti, implicano l’uso di grandi quantitativi di acidi forti, che possono determinare vaste contaminazioni del territorio e la produzione di ingenti volumi di materiale di risulta, senza considerare gli elevati livelli di radioattività ai quali sono esposti i lavoratori e che persistono a lungo nell’ambiente, dovuti alla frequente presenza di torio ed uranio nelle miniere di terre rare. Basti ricordare il disastro ambientale di Baiyunebo, nella Mongolia Cinese, che oggi è un lago radioattivo di 11 chilometri quadrati (figura 1), o quello causato in Malaysia dalla giapponese Mitsubishi Chemicals, che, dopo essere stata costretta a chiudere, nel 1992, un impianto di raffinazione di terre rare, è ora impegnata in un'operazione di decontaminazione da materiali radioattivi per una spesa totale di 100 milioni di dollari.La popolazione malese, ancora fortemente toccata da quell’esperienza, si sta opponendo con veemenza all’attività, peraltro già avviata, di un impianto di raffinazioneda 2,5 miliardi di dollaridella società australiana Lynas, malgrado questa abbia assicurato che adotterà tutte le necessarie misure per evitare qualsiasi minaccia per l’ambiente, quale, ad esempio, la diluizione e miscelazione con calce del torio radioattivo (Sher, 2013, [07]).

Un altro caso emblematico è quello dei villaggi vicini a Baotou, nella Mongolia interna, dove si trova la più grande miniera cinese di terre rare, i cui abitanti sarebbero stati trasferiti altrove per la pesante contaminazione di acqua e raccolti: si valuta che i reflui della lavorazione, acidi e radioattivi, ammonterebbero annualmente a circa dieci milioni di tonnellatee rischierebbero di inquinare il Fiume Giallo, fonte idrica per centocinquanta milioni di persone (Orati,2011[05]). Per il futuro la situazione dovrebbe migliorare, se è vero che, come sostiene Chen Zhanheng, direttore del Dipartimento accademico della Società cinese delle terre rare di Pechino, “Il governo ha già varato leggi severe per tutelare l’ambiente ed eliminare tecnologie, attrezzature e prodotti arretrati. Le fabbriche che non riusciranno ad adeguarsi andranno incontro alla chiusura o alla fusione con aziende più grandi” (Folger, [08]). Tuttavia,la decontaminazione, come si è visto, richiede tempi lunghi e costi elevati.

Una soluzione a questi problemi potrebbe essere rappresentata dal ricorso a materiali diversi dalle terre rare, ma vi sono impieghi per i quali non si conoscono prodotti sostitutivi, come nel caso, ad esempio, dei display a cristalli liquidi utilizzati per i monitor di computer e televisori, in cui si fa uso di europio e fosforo rosso (Enea, [09]). Alcune industrie automobilistiche, dal canto loro, stanno riducendo le quantità di terre rare utilizzate nelle auto elettriche e ibride ricorrendo a tecnologie differenti, come ha fatto la Toyota; che nella Prius impiegava addirittura 25 kg di metalli rari; lo stesso orientamento è seguito da alcune imprese costruttrici di impianti eolici. La prospettiva più interessante, cui si sta guardando oggi con sempre maggiore attenzione, sembra essere, tuttavia, il recupero di tali metalli dai rifiuti di apparecchiature che li contengono e, in particolare, da quelle elettriche ed elettroniche.



[1] Si è calcolato che il mercato mondiale delle terre rare abbia toccato i quattro miliardi di dollari e abbia reso possibile la produzione di beni per quattromila miliardi di dollari (Sclaunich,2012[04]).