6. Conclusioni

Il florovivaismo potrebbe essere un settore trainante per l’agricoltura italiana per numero di occupati e attività indotte; eppure, nonostante le notevoli potenzialità, ormai da diversi anni risulta poco competitivo rispetto all’agguerrita concorrenza di operatori stranieri, comunitari e non. Il punto debole che penalizza i floricoltori nazionali non è dato dalla qualità delle produzioni, mediamente più che soddisfacente, quanto piuttosto dai ritardi nell’introduzione di innovazioni, dagli elevati costi di produzione e dalla scarsa organizzazione a livello logistico e commerciale. Per guadagnare posizioni nel mercato internazionale sarebbe importante, come suggerisce il Piano Nazionale del settore florovivaistico per il triennio 2014-2016, operare su più fronti: l’aggregazione, per ottenere economie di scala, l’ottimizzazione dei costi, la pianificazione della produzione, lo sviluppo di iniziative nel settore della promozione e della commercializzazione, ma anche l’adozione di metodi di produzione ecocompatibili, puntando ad un uso sostenibile delle risorse, all’efficienza energetica e ad una gestione corretta dei sottoprodotti e dei rifiuti.

Diverse sono le opzioni possibili per la riduzione dell’impatto ambientale e quelle cui si è fatto cenno in questa nota sono solo alcune di esse: altri metodi, infatti, possono essere messi in atto al fine di ridurre le emissioni inquinanti o di contenere il consumo di risorse energetiche, idriche e di composti chimici. Si può citare, ad esempio, l’impiego in cogenerazione di centrali termiche a biomassa, che producono un bilancio delle emissioni di anidride carbonica praticamente nullo tra volumi assorbiti durante la vita vegetativa delle piante e quelli immessi in atmosfera con la combustione (Dieci-Morinilli-Sparago, 2011), o l’uso di pannelli fotovoltaici innovativi a base di diseleniuro  doppio di rame e indio nella struttura di serre “a duplice attitudine”, tali, cioè, da garantire una produzione florovivaistica di qualità apprezzabile e, nel contempo, la generazione di energia elettrica da utilizzare in azienda o da commercializzare [14].Sempre in tema energetico si può citare l’interesse, che risale già ad alcuni anni fa, per l’applicazione nelle serre di tecnologie elettriche mediante l’uso di fogli in alluminio, alimentati alla tensione di circa 24 V, per riscaldare le zone di radicazione e germinazione (Niola, 2003), mentre altri metodi puntano ad una migliore gestione dei sistemi di irrigazione e di fertilizzazione. Tra essi, la coltivazione fuori suolo [1] a ciclo chiuso, grazie al recupero della soluzione nutritiva, consente di evitare la dispersione nell’ambiente di fertilizzanti e acqua in eccesso e di utilizzare tali sostanze in modo più efficiente; ovviamente, occorrerà monitorare, eventualmente con dei chemosensori, le variazioni della composizione chimica della soluzione ricircolante, reintegrando al bisogno i sali minerali consumati.
Un contributo alla razionalizzazione dell’irrigazione e della concimazione può essere fornito dai sensori di umidità del terreno o del substrato, che attivano l’irrigazione quando la tensione di umidità raggiunge determinati valori, e dai fertirrigatori intelligenti, che, avvalendosi di sensori dielettrici, possono modulare la frequenza dell’irrigazione, nonché la conducibilità elettrica dell’acqua o della soluzione nutritiva fornita alle piante [15].

Sensori e regolatori automatici possono essere utilizzati anche per il controllo e la regolazione del microclima nelle colture protette, così da consentire l’instaurarsi di condizioni ottimali per la crescita delle diverse specie vegetali e, viceversa, poco favorevoli allo sviluppo degli organismi indesiderabili. Insieme ad altri metodi di lotta, possono così contribuire alla riduzione dell’impatto ambientale dei pesticidi, in linea con quelli che sono gli obiettivi del “Piano di Azione Nazionale per l’uso sostenibile dei prodotti fitosanitari”, adottato con il Decreto 22 gennaio 2014 [2] del Ministero delle Politiche  Agricole Alimentari e Forestali di concerto con il Ministro dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare e con il Ministro della Salute. Pubblicato sulla G. U. n. 35 del 12 febbraio 2014, il Piano “si prefigge di guidare, garantire e monitorare un processo di cambiamento delle pratiche di utilizzo dei prodotti fitosanitari verso forme caratterizzate da maggiore compatibilità e sostenibilità ambientale e sanitaria, con particolare riferimento alle pratiche agronomiche per la prevenzione e/o la soppressione di organismi nocivi…”.

Il legislatore, dunque, fornisce un ulteriore input a quanti, operando nel settore agricolo, siano propensi ad adottare metodologie ecocompatibili. Al di là della sensibilità ambientale, che può appartenere in misura maggiore o minore ai diversi imprenditori, tale impegno potrebbe essere consigliato anche soltanto da motivi di opportunità, rappresentando spesso la qualità ambientale dei prodotti un non trascurabile elemento di competitività sul mercato.



[1] La coltivazione fuori suolo è, com’è noto, una tecnica agronomica che segna il passaggio dalle coltivazioni in terra a quelle idroponiche e aeroponiche: le prime sono caratterizzate dalla presenza di un substrato inerte (perlite, vermiculite ecc.) avente la funzione di sostenere le piante e far circolare la soluzione nutritiva; le seconde sono, invece, prive di qualsiasi substrato, per cui questa viene irrorata direttamente sulle radici, opportunamente protette dalla luce. Tale metodo consente di superare due inconvenienti delle coltivazioni convenzionali, ossia la stanchezza del terreno, che dopo due o tre cicli comincia ad impoverirsi, e la limitata produttività.

[2] Il Decreto è stato emanato in attuazione della direttiva 2009/128/CE, che ha istituito un quadro per l’azione comunitaria ai fini dell’utilizzo sostenibile dei pesticidi.

 

5. Materiali di copertura innovativi nelle serre

Le serre sono sistemi agricoli complessi, in cui vanno attentamente controllati l’umidità, il contenuto di anidride carbonica, la temperatura, l’intensità e la durata della luce. In particolare, l’incidenza della radiazione solare fotosinteticamente attiva (ossia compresa tra 400 e 750 nm) ha evidentemente un’importanza determinante per le rese e la qualità delle produzioni e, pertanto, deve essere massimizzata attraverso la scelta di un materiale di copertura che assicuri la maggiore trasparenza possibile. Esso, peraltro, deve avere una buona capacità di diffondere i raggi solari in tutte le direzioni, perché è stato dimostrato che, a parità di trasmissività, coperture a luce diffusa consentono, soprattutto nelle colture a sviluppo verticale, aumenti nelle rese fino al 10-15% in Nord Europa e fino al 40-60% in clima mediterraneo: i raggi diffusi, infatti, possono raggiungere le foglie degli strati inferiori dei fusti, che con l’irraggiamento diretto rimangono in ombra in quanto schermate da quelle apicali. Tutto ciò dando per scontata, ovviamente, la capacità che il materiale deve avere di aumentare la temperatura all’interno dell’ambiente protetto, ossia di favorire l’effetto serra, quando essa è troppo bassa, al fine di diminuire i consumi energetici: si calcola, infatti, che i consumi di energia delle serre italiane per il riscaldamento artificiale si aggirino sui 140.000 TEP, con una incidenza sui costi di produzione del 20-30% [03], [06]. In estate,viceversa, quando la temperatura è molto elevata, la copertura dovrebbe essere in grado di ridurre il surriscaldamento. Nel primo caso si può far ricorso a polimeri quali l’etilenvinilacetato (EVA), l’etilenbutilacrilato (EBA), il polivinilcloruro (PVC), il tetrafluoroetilene ((EFTE), la poliammide (PA) o all’aggiunta di cariche minerali; nel secondo, possono essere utilizzati film dotati di effetto termico speciale, ottenuto mediante l’impiego di coloranti (rosso, blu, verde ecc.) o mediante la dispersione nel materiale plastico di pigmenti d’interferenza, microbolle di gas o microsfere cave di vetro, che inducono un effetto diffusivo (Battistel, 2012).

Una possibilità che la ricerca nel campo dei materiali plastici sta mettendo, in questi ultimi anni, a disposizione dei serricoltori è la realizzazione di polimeri auto-pulenti, in grado di ridurre il depositarsi sulla copertura di polvere che, così come la condensa, può diminuire sensibilmente la percentuale di luce che raggiunge le colture e, dunque, le loro rese. Tale caratteristica viene conferita ai materiali trattandoli con nanoparticelle che consentono loro di imitare il cosiddetto effetto loto, vale a dire l’effetto che si realizza in natura in questa pianta, grazie ad una microstruttura di cui sono dotate le foglie e che le rende idrofobiche: in questo modo la pioggia rimuove facilmente la polvere accumulata (Battistel, 2014).

Materiali innovatividi di particolare interesse sono, poi, quelli che vengono comunemente definiti intelligenti, in quanto fotoselettivi, ossia capaci di filtrare selettivamente la luce solare mediante film colorati. Ad essi si è rivolta l’attenzione degli addetti ai lavori, i quali ne evidenziano l’efficacia in termini di fotosintesi e fotomorfogenesi delle colture, ma anche di riduzione dell’input energetico delle serre, nonché di contributo che possono fornire al controllo di infestanti, funghi, acari ed insetti patogeni. A tale riguardo, sono stati segnalati, ad esempio, i lusinghieri risultati ottenuti in Israele nella lotta contro mosca bianca [1] e tripidi [2] con l’ausilio di teli di copertura che bloccano i raggi UV, con i quali gli insetti si orientano (Battistel, 2012).

Va segnalato, peraltro, che tali materiali, dopo l’utilizzo, favoriscono il riciclo integrale [12].

Interessante è anche la notizia di una serra tropicale intelligente capace di autoregolarsi, cioè di modificare le caratteristiche del suo involucro adattandosi alle variazioni di calore e luce: grazie ad una struttura a cuscinetti, costituiti da due o più strati sovrapposti di ETFE, la serra riesce, infatti, a modificare la trasparenza e la resistenza al calore al variare della pressione interna ai cuscinetti [13]. 

È evidente che le diverse opzioni descritte, qualora si dimostrino realmente in grado di aumentare le rese e proteggere le colture in serra, potranno consentire un impiego ridotto di fattori di produzione quali combustibili, acqua e prodotti chimici di sintesi ed offrire così un utile contributo alla salvaguardia ambientale.

 


[1] È un insetto che trova nelle serre condizioni favorevoli di sviluppo e che si nutre di moltissime varietà di piante, le più comuni delle quali sono: begonia, dalia, ciclamino, fucsia, petunia e quasi tutte le varietà di geranio

 

[2] Sono insetti che attaccano praticamente tutte le piante erbacee, da orto o da fiore, ma anche arbusti, rosai, piccoli alberi e piante da frutto (es. gli agrumi). Particolarmente colpite sono le piante in coltura protetta o ricoverate all’interno durante l’inverno.

4. Fertilizzazione sostenibile

Un contributo alla ecocompatibilità delle produzioni florovivaistiche può essere offerto anche dall’impiego di pratiche di concimazione più razionali, che consentono un uso più efficiente, e dunque ridotto, dei fertilizzanti chimici.

È stato evidenziato da specialisti del settore [09] come spesso le quantità di fertilizzanti somministrati alle piante ornamentali siano eccessive rispetto al loro fabbisogno, pur effettivamente elevato a causa dell’intenso ritmo di crescita che le caratterizza. A titolo di esempio, è stato calcolato che ad una coltura fuori suolo a ciclo aperto di rosa in serra vengano somministrati annualmente oltre 10.000 mc/ha di soluzione nutritiva contenenti circa 1,4-1,5 t/ha di azoto, il che significa una dispersione di tale elemento nei corpi idrici di almeno 350-400 kg/ha, senza considerare lo spreco di acqua. È evidente, dunque, la necessità di ripensare a questa pratica, adottando dei sistemi che soddisfino le esigenze fisiologiche delle piante tutelando, però, il più possibile l’ambiente. Tralasciando quelli già diffusi, come, ad esempio, la fertirrigazione e l’irrigazione a goccia, e altri più complessi ed onerosi, quali il controllo computerizzato della fertirrigazione con sistemi esperti, accenneremo ad una tecnologia in grado di ridurre sensibilmente l’impatto ambientale del florovivaismo, garantendo nel contempo un rendimento soddisfacente: i concimi a lenta cessione. Si tratta di prodotti che possono essere impiegati in dosaggi contenuti, grazie all’assimilazione pressoché completa da parte delle piante, e che comportano minori perdite per lisciviazione. A seconda del meccanismo di cessione si dividono in [10]:

  • concimi organici: dotati di bassissima solubilità, forniscono soprattutto azoto, previa mineralizzazione ad opera di funghi e batteri,
  • concimi a lenta solubilizzazione, in cui la cessione è regolata da processi di solubilizzazione e idrolisi;
  • concimi idrosolubili rivestiti.

Questi ultimi sono denominati concimi a rilascio controllato (CRL) e sono costituiti da granuli rivestiti da membrane polimeriche che lasciano diffondere gradualmente nel terreno gli elementi minerali contenuti al loro interno. Vengono somministrati all’inizio della stagione vegetativa e rilasciano i prinicipi attivi in un periodo di almeno 5-6 mesi, che per certi prodotti può arrivare addirittura a 16-18 mesi (Sportelli, 2013).

 Un modo per ridurre l’apporto di concimi di sintesi può essere anche l’impiego di biofertilizzanti, ossia formulati contenenti agenti biologici che consentono alle piante di assorbire dal suolo le sostanze nutritive di cui hanno bisogno, ma che non sono in grado di sfruttare direttamente. Al riguardo, la ricerca sta selezionando alcune colture di batteri autoctoni, che hanno la capacità di rendere disponibili tali nutrienti, trasformandoli in una forma assimilabile dalle piante; essi, inoltre, avrebbero un ruolo positivo nel contrastare lo sviluppo di altri organismi presenti nel terreno [11]. Utile appare anche l’impiego di micorrize, biofertilizzanti a base di funghi del genere Glomus, che stabiliscono una simbiosi con le radici delle piante: queste forniscono ai funghi gli zuccheri necessari alle loro funzioni vitali, traendone in cambio l’acqua e gli elementi minerali che essi assorbono dal suolo mediante le proprie ife. È possibile incrementare ulteriormente l’assorbimento favorendo, mediante l’uso di zeoliti o di materiali superassorbenti, la proliferazione di peli radicali (Sportelli, 2013).

Particolarmente indicato per il florovivaismo è, poi, l’impiego di compost di qualità, che, oltre a consentire una riduzione dell’uso di fertilizzanti, presenta l’importante vantaggio di trasformare i rifiuti in risorse, chiudendo il ciclo della raccolta differenziata, e di migliorare le proprietà del terreno.