La rivoluzione dell’hamburgher

dalla carne al vegetale

La rivoluzione dell’hamburger
Dalla carne al vegetale.

Il caso Kioene

di Marco Panara

Formato: 13,5 x 20,5, 194 pagine, bianco e nero, rilegatura in brossura 

Prezzo: 22,00 euro

Anno di pubblicazione: 2023

ISBN 979-12-808293-2-0

Conosciamo Marco Panara come giornalista e scrittore che si è occupato di economia, di finanza e di scuola.

Trovarlo a raccontarci la storia di una famiglia veneta che partendo dalla macelleria fonda un impero con connotazioni del tutto nuove, non ci stupisce! E non stupisce certo la seconda parte del libro dove sono esaminati, numeri alla mano, da un lato i vantaggi che il consumo di proteine vegetali porta alla salute umana, dall’altro il grande impatto ambientale dell’allevamento intensivo e delle monocolture che lo mantengono.

Ma partiamo da Villanova di Camposampiero, piccolo paese situato in provincia di Padova. Partiamo da una famiglia, due fratelli ai quali non mancano due elementi fondamentali “el levà” come si dice in veneto, ovvero le basi economiche per partire, e la capacità imprenditoriale. Quest’ultima accompagnata da impegno, caparbietà e desiderio di migliorare. I Tonazzo hanno quindi tutte le carte per proseguire e implementare l’attività di famiglia che parte come macelleria. Una macelleria che ha bisogno di materia prima, carne da vendere. Il macello non soddisfa il fabbisogno e quindi si prende l’aereo per San Paolo del Brasile. Certo ci sono dei contatti laggiù ed è meglio vedere con i propri occhi la merce, i tagli di carne da importare e commerciare.

Da San Paolo, accompagnati dal commissionario, viaggiano verso alcuni impianti di macellazione posti all’interno. Percorrono una strada che concilia il sonno a Stefano e attizza la curiosità di Albino. Distese enormi di campi coltivati a soia e camion che vanno in senso inverso al loro, anch’essi carichi di cereali e soia da trasformare in alimenti per gli animali.

Siamo nel 1988 e il re della soia in Italia, è il petroliere Raul Gardini allora alla guida del gruppo Ferruzzi Montedison. Al porto di Ravenna le navi scaricano migliaia di tonnellate di soia da trasformare in mangime per animali da allevamento. Albino percorre mentalmente la strada: Soia-Ferruzzi-Montedison-petrolio-bistecca. Una strada che si chiude ad anello. Soia-bistecca. Albino pensa in silenzio: ma perché farla così lunga? Non potremmo essere noi direttamente consumatori dei cereali e legumi che coltiviamo? E’ una strada percorribile? Può diventare innovativa? Basta crederci e provarci. Albino, il visionario, si guarda intorno vede i silos di soia i laboratori per l’estrazione dell’olio, Stefano visita i macelli e i laboratori di lavorazione. Tecniche diverse, spreco e scarsa attenzione, ecco perché i prezzi possono essere concorrenziali.

Il ritorno alla realtà di casa fa scaturire due proposte: i fratelli si confrontano, Stefano continuerà a commerciare e vendere carne, cercando magari i tagli più richiesti nelle diverse stagioni, per venire incontro alle nuove abitudini alimentari della società che a fine anni 80 del secolo scorso stanno cambiando. Il benessere economico permette alle famiglie di consumare carne anche tutti i giorni, variando dalla rossa alla bianca ma sempre con i tagli più pregiati.

Albino intraprende una strada che costerà tanto in termini di progettazione, tentativi di migliorare il prodotto ma in sostanza passare alla “bistecca” vegetale. Anni di prove per riuscire a portare al consumatore, un prodotto vegetale con caratteristiche organolettiche apprezzabili. Siamo alla fine degli anni 90 del secolo scorso, dieci anni di tentativi e finalmente si arriva ad un prodotto a base di farina di soia gradevole e apprezzabile. A chi è rivolto? Vegani e vegetariani sono una potenziale clientela ma ancora davvero ristretta. I burgher all’impanata, le polpettine, le Orticelle il Cordon Verde danno vita allo slogan iniziale “filosofia del mangiar sano” ma non serve per farsi conoscere, conquistare il mercato. I consumatori devono essere raggiunti e incuriositi, vegetariani o no possono sempre provare giusto per “cambiare”. Anche un nome può fare la differenza, si conia il nome Kioene, il prefisso ispirato all’ideogramma giapponese Ki che indica vitalità e il suffisso Ene che sta per energia.

La presenza di Kioene non è solo negli scaffali e nei banchi frigo dei supermercati ma è presente nel mondo sportivo dove promuove la pallavolo prima maschile e poi femminile. A Padova ora c’è un complesso sportivo Kioene, dove si svolgono le partite ma la sua ampiezza permette anche eventi musicali e culturali. La struttura è provvista di un vasto impianto fotovoltaico a riprova che la famiglia Tonazzo, ora ci sono anche i figli di Stefano e Albino, non si riempie la bocca di sostenibilità ma contribuisce concretamente. A questo va aggiunto l’acquisto di 6 ettari di terreno nelle vicinanze dello stabilimento, per creare un bosco di pianura con la consulenza di paesaggisti e zoologi. Un polmone aperto a tutti con vegetali e animali accolti e preservati. Un bosco di pianura in questo Veneto snaturato dall’azione dell’uomo.

Oltre la storia dell’azienda, qui ed ora secondo decennio del secolo attuale, ci sono i numeri globali. Parlo di numeri che nutrono problemi di sostenibilità ambientale dagli allevamenti intensivi con relativo uso/abuso di antibiotici, alla produzione cerealicola e leguminosa come alimenti per gli animali, con relativo utilizzo di concimi, pesticidi, erbicidi che finiscono comunque nel prodotto finale e nelle falde acquifere. Il monopolio di tutti i prodotti in mano a grandi multinazionali, senza citare la selezione e commercializzazione delle sementi anche queste in mano a un pugno di multinazionali. Numeri che fanno pensare a un cambio di paradigma a partire dal comportamento individuale; in fondo il mercato lo facciamo noi consumatori-fruitori, come piaceva dire a Tonazzo. Cercare nei supermercati alimenti proteici che partano dalle piante e che possiamo suddividere in due grandi categorie “meat analogue o like meet” che nel gusto e nel colore imitano la carne di tutti i generi e il “classic vegan” che possono imitare la carne nella forma ma il gusto è di spinaci, melanzane, carciofi ovvero i vegetali con cui sono realizzati.

Alcune riflessioni finali. La produzione di cibo e la struttura della società sono collegate. Piace pensare che la Kione, azienda con le radici piantate ben per terra possa continuare a dare un contributo a quel cambiamento, pur graduale, che permetterà di migliorare la salute umana e quella del pianeta.

Alberta

Controstoria dell’alpinismo di Andrea Zannini

Edizioni Laterza, Roma –Bari, pag. 183

Realizzato in collaborazione con il Club Alpino Italiano

Prima edizione Febbraio 2024

Prezzo di copertina € 18.00

EAN       9788858153772

Conquista, conquistare, una terminologia usata comunemente da chi arrampica o anche semplicemente sale. Ma cosa significa arrampicare? E chi può pensare che possa far rima con conquistare? Per quanti amano salire a quote alte forse il termine più adeguato è raggiungere. La conquista implica un impossessarsi, ma gli stambecchi, i camosci e anche i nostri progenitori non prendevano possesso delle vette. Forse piace pensare che godevano della bellezza dei paesaggi e a partire dal secolo dei lumi le montagne diventano meta di botanici, geologi, fisici che osservano, registrano dati, raccolgono campioni e non lo fanno per sport ma per conoscere.

Questo testo fornisce una ricostruzione storica puntuale, dettagliata del salire “a quote alte”. Quanti si definiscono o si sentono alpinisti hanno modo di rileggere la storia del loro sport preferito, definito tale solo negli ultimi due secoli. L’autore, fin dal titolo esplicita il suo intento: dare al salire in alto la supremazia a chi davvero ce l’ha. I cacciatori raccoglitori neandertalensi si avvicinano alle Alpi trentamila anni fa, spinti dal bisogno o dal desiderio semplicemente di vedere cosa c’è oltre. E i valligiani che qualche secolo fa risalivano i ripidi pendii per cacciare o raccogliere o semplicemente, ancora una volta, per vedere oltre.

Particolare è il legame tra la tonaca e la cima, sì certo i religiosi già alla fine del 1700 salivano per diletto e curiosità e per essere più vicini a Dio e magari raggiungerlo scomparendo in qualche seracco. Zannini da eccellente storico descrive ascensioni più o meno veritiere sottolineando quanta parte abbiano due elementi: la mancanza di fonti credibili, vedi ascensione del Petrarca al Ventoux e la dubbia scalata in artificiale del monte Aiguille e la mistificazione operata in alcune ascensioni tra le più importanti delle Alpi come quella al Monte Bianco o ai vari 8000 del pianeta.

Fondamentali sono gli aspetti scientifici che l’autore non manca di ricostruire, come le ascensioni con specifico scopo di misurare l’altezza in modo dettagliato attraverso i barometri e l’elemento “catena montuosa” come confine di nazione. Ne sono un esempio le Alpi e il loro ruolo durante la grande guerra. Ecco quindi che gli alpinisti sono militari, soldati, topografi che lasciano la loro vita alle alte quote per un confine.

Le prerogative dello storico si spingono anche a livello sociale ed economico con sottolineature molto efficaci sulla supremazia dei ricchi, potenti, nobili che raggiungevano le alte vette solo grazie ai silenziosi e, invisibili alle cronache, portatori guide locali. Hillary non sarebbe certo arrivato sull’Everest senza Tenzing Norgay, uno dei pochi portatori che ha avuto un giusto riconoscimento.

La ri-costruzione della storia dell’alpinismo può davvero contribuire a cambiare il modo di approcciarsi a quell’ambiente così affascinate e fragile rappresentato dalle alte quote, a cambiare anche il modo di definire il raggiungimento di una vetta, a considerare una camminata in montagna non solo una fatica sportiva un superamento dei limiti personali? Può contribuire a sostituire il temine conquistare con raggiungere? Può aumentare il rispetto per l’ambiente montano in generale? Piace pensare che oggi possa essere così e che lo sport del salire, da quando è diventato tale, non sia solo la ricerca di un primato personale o addirittura globale.

Per coloro, come chi sta scrivendo, che salgono per respirare il silenzio, soffermarsi ad annusare una nigritella, osservare le rocce, individuarne l’origine, viene spontaneo valorizzare il volume come strumento di vera e propria conoscenza di una lunga storia ricostruita attraverso le fonti e non attraverso dispute e leggende.

Alberta

Storia delle nostre paure alimentari

Come l’alimentazione ha modellato l’identità culturale

Edizioni Aboca giugno 2023

EAN 9788855232326

Parte dalla preistoria il percorso dell’autore. Per vivere-sopravvivere è necessario nutrirsi ma il cibo deve essere buono, non avere elementi che danneggino l’organismo o porti addirittura alla morte. E allora come tutti i viventi animali, anche l’uomo, usa i 5 sensi per valutare bontà o meno di un alimento. La vista è senza dubbio il primo che si mette in gioco, l’olfatto certamente, il gusto solo per ultimo quando potrebbe essere già tardi. Ma l’esperienza ha guidato la capacità di valutazione di buono-cattivo. E non sono solo i Sapiens a usare la prudenza, altri mammiferi che vivono in gruppo, ad esempio i ratti, sembra proprio che abbiano un assaggiatore che verifica l’utilizzazione o meno di un qualsiasi cibo.

La differenza, fin dall’inizio, la fa la scoperta del fuoco e della cottura dei cibi che diventano più digeribili e assimilabili. Nel capitolo “la cottura fa rima con cultura” viene argomentata proprio l’importanza della lavorazione e cottura dei cibi e del consumo comunitario che diventa occasione di scambio e crescita sociale.

Dalle prime civiltà fino ai nostri giorni ciò che provoca più paure è il “nuovo” ciò che non si conosce o che viene da lontano. Possiamo fare solo alcuni esempi con i prodotti provenienti dalle Americhe come, pomodoro, patate, grano turco. Che poi con il tempo diventano alimenti indispensabili per la sopravvivenza dei contadini. Si pensi alla polenta nel Veneto, alle patate nel nord Europa.

Lo sviluppo delle città, i cui abitanti crescono di numero, necessita di approvvigionamenti notevoli con caratteristiche qualitative precise. Si provvede pertanto a stabilire norme sui prodotti in ingresso, la lavorazione e le caratteristiche di ciascun alimento proveniente dalla campagna. Il pane doveva essere bianco, la carne fresca appena macellata. Gli animali dovevano essere ben in salute per poter avere accesso al macello. Diventa necessario dotarsi di istituzioni sempre più complesse per evitare di morire di fame o ricevere cibo pericoloso. Nel medioevo e fino anche al 1700, le epidemie colpivano soprattutto le aree cittadine molto abitate dove le norme igieniche erano poco conosciute e meno ancora praticate; sostanzialmente i pregiudizi e la medicina praticata dai cerusici era in bilico tra Ippocrate e Galeno.

Il contadini si nutrono con quanto resta dopo le forniture alle aree cittadine. Rimane per secoli, si potrebbe dire anche ai nostri tempi in alcune aree del pianeta, un’alimentazione monotona, basata su quanto cresce bene in una certa regione. Ne sono esempi alcuni cereali come il sorgo, il sesamo, il riso che continuano ad essere la base della dieta di chi vive fuori dalle città.

L’influenza della religione precede di certo il cattolicesimo, basti pensare alle tradizioni ebraiche. Ma la chiesa entra davvero nei costumi alimentari nel nostro paese. La quaresima, le vigilie e i venerdì erano votati all’astinenza dalle carni e le macellerie erano rigorosamente chiuse. E non solo. Con l’avvento dei nuovi prodotti come caffè e cioccolato, le autorità religiose alimentarono un dibattito molto vivace in particolare rispetto al cioccolato: è un cibo o è paragonabile a una semplice bevanda quindi concessa anche in quaresima? E il caffè questa bevanda amara con potere eccitante? Sarà il papa Clemente VIII che dopo aver assaggiato una tazza di caffè ne decretò la bontà e i suoi benefici effetti!

Il lettore resta senza dubbio colpito dai numerosi e dettagliati episodi legati all’uso di cibi che per noi sono del tutto comuni. Colpisce il passaggio tra l’uso dello zucchero di canna che viene soppiantato dallo zucchero di barbabietola solo alla metà del 1800. A questo proposito resta in mente un fatto particolarmente truce. Per raffinare e sbiancare lo zucchero si usavano braci ricavate da ossa. A Waterloo, nelle fosse comuni se ne trovavano tante, di uomini e di cavalli. Le ossa di centinaia di soldati hanno avuto dunque un ruolo inaspettato tanto che l’autore con ironia afferma “E’ dolce morire per la patria“.

L’autore conduce il lettore in questa lunga e dettagliata storia che parte da Ippocrate e i suoi quattro umori corporei passa per Galeno e arriva con argomentazioni sempre dettagliate e approfondite fino al rifiuto dell’Hot dog in America, accettato solo dopo il cambio del nome che era frankfurter, nome che richiamava l’origine tedesca, alla diffidenza nei confronti del sushi, alle prese di posizione preconcette nei confronti di OGM, di carne coltivata, ampliate dai mas media, dai Social e da una classe politica impegnata a salvaguardare i diritti di pochi, senza pensare alla necessità di trovare strade per nutrire otto miliardi di persone senza mandare a remengo il pianeta.

Demonizzare la farina di grillo per salvaguardare gli allevamenti intensivi. A chi giova? Ai grilli, forse, certo molto meno ancora al pianeta.

Un percorso storico che impone al lettore delle profonde riflessioni sulle scelte individuali e ai governi un cambiamento di paradigma su quanto viene definito buono e sano. Con particolare riguardo a quei governi che si riempiono la bocca di parole come sovranità alimentare e tipicità.

Alberta