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Il Bo live. Ortoressia nervosa: quando il cibo sano diventa ossessione

Pubblichiamo un interessante articolo di Federica DʹAuria comparso lo scorso 10 marzo su "Il Bo Live" dell'Università di Padova 


Non è un mistero che una dieta bilanciata e ricca di cibi salutari sia funzionale al nostro benessere sia fisico che mentale. Eppure, quando l’alimentazione e il controllo dei pasti diventano un chiodo fisso e influenzano negativamente la salute, l’umore e le abitudini quotidiane di una persona, il rischio è quello di sviluppare un disturbo del comportamento alimentare chiamato ortoressia nervosa. Chi ne soffre, infatti, tende a controllare compulsivamente le dosi e le proprietà nutritive di tutto ciò che ingerisce, evitando ogni alimento che considera insano e preoccupandosi continuamente e in modo eccessivo della qualità del cibo. Purtroppo, trattandosi di un problema emergente e ancora non diagnosticabile secondo criteri univoci, il riconoscimento dell’ortoressia e la presa in carico del paziente che ne soffre non sono sempre semplici. Ne abbiamo parlato in questo episodio di "In Salute" con il professor Stefano Caracciolo, psichiatra, psicoterapeuta e ordinario di psicologia clinica all’università di Ferrara.

“L’ortoressia è un problema comunemente descritto come un disturbo alimentare ma che non trova attualmente una definizione nel DSM-5, il manuale diagnostico e statistico di tutti i disturbi mentali riconosciuto e adottato a livello internazionale”, chiarisce il professor Caracciolo. “Pur trattandosi di una condizione degna di attenzione dal punto di vista clinico che impatta negativamente sulla salute di chi ne soffre, per l’ortoressia – al contrario di altri disturbi alimentari, come ad esempio l’anoressia nervosa – non esistono dei criteri diagnostici precisi che permettano di identificarla con certezza. Inoltre, siccome le persone con ortoressia il più delle volte non si rivolgono ai servizi sanitari (poiché non ritengono di avere un problema di salute) è impossibile raccogliere dati epidemiologici precisi che consentano di valutarne l’incidenza”.

Guarda su You tube l’intervista al professor Stefano Caracciolo sull’ortoressia nervosa. (Montaggio di Barbara Paknazar)

Insomma, non è certamente facile stabilire un confine ben preciso tra uno stile alimentare sano e l’ortoressia nervosa. “Direi che il momento in cui un regime alimentare sano diventa esagerato ed esasperato è quello in cui la persona si ritrova a sperimentare una condizione di sofferenza”, afferma Caracciolo. “La sofferenza in questione deriva dall’impossibilità di alimentarsi al di fuori di una serie di rigidissime regole autoimposte che, come suggerisce la letteratura scientifica, si basano sul controllo ossessivo dei cibi e la ripetizione di certi rituali che accompagnano la preparazione e la consumazione degli alimenti. È chiaro che in situazioni del genere la condizione patologica non deriva più di tanto dagli effetti del cibo sul corpo, bensì dall’impossibilità di uscire da questi rigidi schemi comportamentali”.

Detto questo, come spiega il professor Caracciolo, è difficile stabilire una volta per tutte quali siano quei comportamenti osservabili che permettono di distinguere una persona con ortoressia nervosa da chi invece ha semplicemente a cuore la sua alimentazione perché l’attenzione per la dieta può assumere un significato diverso per ogni persona anche in base alle sue abitudini personali, sociali e religiose. “Sono molti i fattori che possono influire sul comportamento alimentare”, riflette il professore. “Per alcune patologie, come l’anoressia nervosa, esistono alcuni comportamenti precisi e ben chiari che permettono di accertare la presenza della malattia in questione come, nel caso specifico, il controllo del peso e la distorsione della propria massa corporea. Eppure, tali sintomi non si ritrovano invece nel caso di altri problemi alimentari, come l’ortoressia, dove il paziente riesce comunque a mantenere il suo peso nella norma (secondo il calcolo dell’indice di massa corporea) nonostante segua un’alimentazione scarsa e a base di soli cibi ipocalorici.

Nel caso di questo disturbo, la sofferenza in questione si manifesta principalmente attraverso due quadri clinici, quello ansioso e quello depressivo. Infatti, attenersi a un regime alimentare così rigido e difficile da rispettare crea stress e malumore dovuti anche alle ripercussioni sui loro rapporti sociali. Se, infatti, le persone con ortoressia riescono a seguire la dieta senza danni al fisico (che tendono solitamente a sopraggiungere molto in ritardo, perché per lungo tempo l’organismo riesce a resistere anche in condizioni di restrizione alimentare), esse soffrono a causa delle conseguenze sul piano sociale e relazionale. Si trovano ad esempio nella condizione di non voler andare in pizzeria con gli amici oppure a litigare con i familiari che esprimono continue preoccupazioni riguardo alla loro dieta ed esercitano pressioni per convincerli a modificarla”.
Se solitamente le persone con ortoressia non si rendono conto di avere un problema e soffrono soprattutto perché si sentono stressate da coloro che le circondano, rimane da chiedersi come sia possibile uscirne.

Molto spesso, gli stili alimentari cambiano con il mutare delle circostanze di vita, premette Caracciolo. “Questi cambiamenti possono avere un effetto sia positivo che negativo sulle abitudini alimentari e rappresentare quindi la soluzione o la causa scatenante di un disturbo di tal genere. Ad esempio, trasferirsi altrove per motivi di studio o di lavoro e andare a vivere da soli per la prima volta può essere un incentivo a cambiare le proprie abitudini alimentari adattandole alle caratteristiche di un nuovo ambiente o ai nuovi ritmi quotidiani. In questi casi, mentre la maggior parte delle persone si adatta facilmente, quelle più vulnerabili – a causa, ad esempio, di un rapporto difficoltoso preesistente con il cibo o con il proprio corpo – possono sperimentare un peggioramento delle loro condizioni di salute. È anche ipotizzabile, come accade per l’anoressia nervosa (per cui è stato dimostrato che alcuni tratti genetici possano predisporre una persona a sviluppare questa malattia) che anche per l’ortoressia esistano fattori di rischio ereditabili”. Come spiega il professor Caracciolo, la presenza di determinati eventi che modificano le abitudini quotidiane in alcuni casi può anche cambiare le cose in meglio, spingendo la persona ad assumere uno stile alimentare meno estremo. Nei casi in cui, invece, si renda necessario un intervento terapeutico, è fondamentale l’instaurazione di un rapporto di fiducia tra medico e paziente.

“Bisogna sempre tenere a mente che ogni incontro a scopo terapeutico viaggia su un doppio binario”, ricorda il professor Caracciolo. “Il primo è rappresentato dalle cure (in questo caso mirate alla modificazione dei comportamenti ossessivi del paziente) mentre l’altro è la fiducia. Se manca quest’ultima, ogni intervento rischia di fallire. Per costruire il terreno comune per una relazione medico-paziente proficua è necessario, prima di tutto, che la richiesta di aiuto provenga in prima persona da chi ne ha bisogno, e non da parte di amici e parenti. È importante inoltre mantenere costantemente il legame di fiducia in questione attraverso tutte le fasi del percorso diagnostico e terapeutico facendo in modo che l’intera equipe multidisciplinare che segue la persona faccia squadra con lei senza criticarla, giudicarla o darle obiettivi impossibili da raggiungere, bensì incoraggiandola a raggiungere un equilibrio.
Potremmo dire che proprio l’equilibrio è il concetto chiave per uscire da questo e altri disturbi alimentari simili. Va trovato un equilibrio tra l’immagine che si vede di sé e quella che si desidera avere e tra il tipo di alimentazione a cui si vorrebbe aderire e la realtà dei fatti che non sempre rende possibile rispettarla. Dobbiamo infine ricordare che, anche nei casi più difficili – e non si tratta di un semplice augurio, ma di un dato di fatto – non bisogna mai perdere la speranza. Esiste sempre la possibilità di uscire da un disturbo alimentare”. 

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Virtanen e il “solar food”, cibo del futuro

Pubblichiamo un interessante articolo di Giovanni Ballarini comparso il 15 febbraio 2023 su Georgofili INFO, il Notiziario di informazione dell'Accademia dei Georgofili. 


Virtanen, chi era costui? Pochi zootecnici e agricoltori ricordano il finlandese Artturi Ilmari Virtanen (1895 – 1973) Premio Nobel per la chimica 1945 con le sue ricerche sui batteri azoto-fissanti dei noduli radicali delle leguminose e le sue ricerche sull’alimentazione sintetica delle vacche pubblicate nell’ormai lontano 1966 (Virtanen A. I. – Milk Production of Cows on Protein-Free Feed – Science 153, 1603-1614, 1966). Virtanen infatti alleva bovine per più generazioni alimentandole con la carta degli elenchi telefonici, urea e sali minerali, raggiungendo livelli giornalieri di oltre dieci chilogrammi e arrivando a produzioni annuali di oltre quattromila chilogrammi, dimostrando il ruolo della biosintesi proteica dei microrganismi ruminali partendo da semplici composti azotati. Oggi il motivo per ricordare Virtanen sono le ricerche che si stanno compiendo ora in Finlandia con il progetto Solar Food, una startup che riesce a produrre una proteina da cellula singola, registrata col nome di Solein, impiegando solamente acqua, aria ed elettricità da fonti rinnovabili. I ricercatori della finlandese Lappeenranta University of Technology nei laboratori del Vtt Technical Research Centre sono riusciti a produrre una proteina da cellula singola, registrata col nome di Solein usando un organismo unicellulare, simile a quelli presenti nel suolo e nel rumine degli animali, usando un bioreattore, l’idrogeno proveniente dall’idrolisi dell’acqua da fonti rinnovabili, l’anidride carbonica e l’azoto provenienti dall’atmosfera, ottenendo  una polvere composta dal 65% circa di proteine, dal 10 al 20% di carboidrati e dal 4 al 10% di grassi con la parte restante parte di minerali. Insapore, la polvere può essere usata in molti prodotti alimentari vegetariani o vegani, trasformandola anche in alimenti simili a yogurt, bevande a base vegetale, pasti completi. In corso è la procedura per un parere da parte dell’EFSA, Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare.

L’intero processo di produzione del Solein avrebbe una produzione di quattrocento grammi di anidride carbonica per chilogrammo di prodotto, rispetto ai quarantacinque chilogrammi della carne bovina e ai due chilogrammi per le piante più efficienti. Per un chilogrammo di proteina servono duecento litri di acqua, con un’impronta idrica dalle cento alle cinquecento volte inferiore alla produzione di carne e dei vegetali più comuni. Inoltre, il processo avviene in stabilimenti che non hanno bisogno di nuovi consumi di suolo.
La prima alimentazione umana è stata quella della caccia e della raccolta dei vegetali. Una prima rivoluzione inizia circa diecimila anni fa con la produzione del cibo attraverso l’allevamento degli animali e la coltivazione dei vegetali con l’agricoltura, una rivoluzione ancora in corso con gli allevamenti di pesci, gli allevamenti intensivi di ogni tipo di animali, le coltivazioni idroponiche. Oggi si sta affacciando una seconda, nuova rivoluzione alimentare umana con una produzione biosintetica degli alimenti, partendo da molecole semplici e usando l’energia solare, in un certo senso tornando alle origini della vita e a come i vegetali fanno con la clorofilla che usa i raggi solari per produrre materia organica. Una rivoluzione alimentare quest’ultima che parte anche dalle vacche di Virtanen alimentate con elenchi del telefono e urea.

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La necessità di pensare a città “biofiliche”. Un nuovo approccio di progettazione per spazi urbani vivibili e sostenibili

Pubblichiamo un articolo di Francesco Ferrini comparso il 25 gennaio 2023 su Georgofili INFO, il Notiziario di informazione dell'Accademia dei Georgofili. 


Le città di tutto il mondo stanno crescendo drammaticamente. Oggi il 55% degli abitanti del pianeta vive in aree urbane ed entro il 2030 si prevede che il 60 per cento della popolazione mondiale, ovvero quasi 5 miliardi di persone, vivrà nelle aree urbane. I movimenti di popolazioni non sono mai avvenuti in precedenza con questa velocità e con questa modalità. Tuttavia, le città non si stanno solo espandendo, ma stanno anche cambiando nei loro ruoli e nella loro funzione. La deindustrializzazione, l'aumento della mobilità e un settore dei servizi in crescita hanno visto le aree urbane trasformarsi in economie di consumo post-industriali basate sulla conoscenza piuttosto che sulla produzione. Emerge da questo spostamento del focus della funzione delle città un cambiamento “evolutivo” nella forma e nei modi in cui le città stesse dovrebbero essere progettate e costruite e come la natura dovrebbe far parte di questo cambiamento. Ciò ha attirato ulteriori ricerche e sviluppi da parte di persone interessate e con obiettivi comuni e il desiderio di consentire una maggiore opportunità per gli abitanti delle città di affiliarsi con la natura, e di tutti i vantaggi che ciò offre, all'interno dell'ambiente urbano. L'attenzione sulla connessione uomo-natura non è più relegata agli ambientalisti e alle aree naturali al di fuori delle città; è una richiesta che proviene dagli abitanti delle città.

Il design biofilico
Si è perciò evoluto un movimento sociale basato sul design biofilico sostenuto dall'aumento della popolazione urbana e dal cambiamento della funzione della città che ha portato a una dinamica mutevole e all'interazione tra luoghi e spazi urbani. Questa trasformazione recente, e in espansione, negli insediamenti urbani umani richiede un nuovo approccio alla costruzione delle città. Le città devono essere progettate, pianificate, costruite e adattate per essere sostenibili e vivibili (Storey e Kang 2015). La maggiore densità edilizia, i canyon urbani e le superfici impermeabilizzate modificano il clima locale, in particolare la temperatura, aumentando il fenomeno noto come effetto isola di calore urbano.
Questa correlazione tra l'aumento della popolazione urbana globale, il cambiamento climatico e l'effetto isola di calore urbano e la necessità di città vivibili a densità più elevata è presente in tutta la letteratura che tratta di sostenibilità e che discute di città e design. In questo quadro, la natura e il design biofilico stanno trovando un rinnovato status e riconoscimento come componenti essenziali di una città sana e sostenibile. Esempi globali di progettazione biofilica dimostrano che in molti casi l'iniziativa non è una risposta puramente funzionale alle sfide della sostenibilità di una città. C'è una motivazione al di là della funzione. Ci sono indicatori che ci dicono che si è verificato un cambiamento nell'approccio alla connessione tra uomo e natura urbana. I principi della progettazione biofilica rappresentano queste nuove iniziative emergenti che si stanno verificando nelle città. La biofilia non è dunque solo un problema di progettazione, ma un movimento costruito attorno all'idea che la connessione alla natura è un bisogno umano fondamentale. È il riconoscimento di questa necessità che ha catturato l'attenzione di così tante persone, non solo dei progettisti. Affrontare gli aspetti sociali del design biofilico solleva importanti nuove questioni compresa la “democratizzazione” della biofilia. Se la connessione alla natura è, infatti, una necessità umana evoluta, allora è una necessità che deve essere condivisa da tutti – non solo da coloro che possono permettersi di vivere in aree con spazi verdi e lavorare negli edifici con caratteristiche ed elementi naturali.

Pianificazione e progettazione di città migliori
La realizzazione che l’Homo sapiens è ora diventata prevalentemente una specie urbana significa che la necessità di riconnettersi con le qualità dell'ambiente naturale in cui ci siamo evoluti sta diventando sempre più importante. Parchi, giardini, presenza dell’acqua e viste sulla “natura” sono stati a lungo evidenti nel recinto dei ricchi. Oggi dobbiamo estendere quelle esperienze a tutti, ogni giorno.
Un punto di partenza critico nella pianificazione e nella progettazione di città migliori è infatti affrontare le profonde disuguaglianze nella presenza e nell'accesso alla natura nel paesaggio urbano. Alcune recenti ricerche hanno illustrato le disuguaglianze che esistono nella copertura arborea nei quartieri cittadini, il drammatico impatto differenziale che ciò può avere sull’isola di calore urbano all'interno di una singola area della città e la correlazione di queste disuguaglianze con pratiche di pianificazione “socialmente” sbagliate. Le conseguenze di queste pratiche di pianificazione discriminatorie continuano a influenzare le comunità disagiate e quelle socialmente deboli esponendole a temperature ambientali più elevate, a maggiori livelli di inquinamento atmosferico e a un minor accesso alle risorse ambientali come gli spazi verdi pubblici.
La pandemia ha purtroppo esacerbato queste disuguaglianze. A causa dell’isolamento dei residenti, gli spazi verdi continuano a rivelarsi una risorsa preziosa, ma privilegiata. Anche dove sono disponibili parchi pubblici, la percezione dell'accessibilità del parco e l'investimento della città nei parchi locali influenza chi sta effettivamente beneficiando dello spazio verde urbano. Il miglioramento dell'accesso non è semplicemente una questione di vicinanza al parco, ma anche di qualità di questi spazi e di esistenza di barriere, non solo fisiche, che ne limitano la fruizione per tutte le comunità.
Tuttavia, la pandemia ha anche accelerato l'introduzione di interventi per iniziare ad affrontarle, poiché ha ancora di più evidenziato l'importanza dell'accesso alla natura e agli spazi aperti nelle nostre città per la nostra salute sociale, fisica e mentale. È stato dimostrato che le persone che vivono in quartieri con un inquinamento atmosferico peggiore, che spesso mancano anche di spazi verdi, hanno evidenziato un tasso di mortalità più elevato per Covid-19. L'accesso alla natura urbana ha anche dimostrato di influenzare la riduzione dello stress e nella socializzazione, con i parchi urbani che ricevono attenzione sui benefici della natura mentre gli abitanti delle città cercano uno spazio esterno più sicuro in cui lavorare, socializzare e giocare.
Questa rinnovata attenzione è supportata da una tendenza nella pianificazione e progettazione urbana che sta cercando di fornire opportunità per connettere gli abitanti delle città con la natura attraverso progetti di servizi ecosistemici basati sulla comunità, interventi di progettazione rigenerativa e biofilica e spazi verdi residenziali, tutti collegati a un aumento del benessere, della concentrazione, della socializzazione, del senso del luogo e della connessione con la natura. Tuttavia, continua a esserci una disconnessione tra il nostro bisogno di natura, la nostra esperienza quotidiana vissuta e il comportamento sostenibile, in parte radicata nell'incapacità di comprendere come interpretare e applicare la ricerca sulla natura e la salute a diversi progetti e interventi politici a scale diverse.
In particolare, i problemi emergono da una disconnessione tra principi di progettazione biofilica, interventi di pianificazione urbana e risultati specifici di salute e benessere, nonché da una mancanza di integrazione tra le diverse discipline. Questa confusione ha implicazioni reali poiché edifici, città e regioni tentano di allineare gli obiettivi di progettazione rigenerativa con quelli di salute umana, ma spesso mancano degli strumenti e delle conoscenze per farlo, il che può comportare una mancanza di prove a sostegno dell'efficacia di questi interventi.
In particolare, un approccio sbagliato per affrontare le disuguaglianze può spesso creare impatti non intenzionali. Quando le città migliorano la presenza e l'accesso alla natura, le comunità più deboli possono essere sfollate a causa dell'aumento dei costi abitativi e del costo della vita, portando al fenomeno della gentrificazione. Di conseguenza dovremo puntare a città "just green enough" che uniscano, quindi, i miglioramenti alle infrastrutture naturali con gli sforzi per affrontare altre priorità delle comunità esistenti, come l'accesso al cibo e lo sviluppo del lavoro. Invece di una conversione su vasta scala di aree per parchi, il potenziale per evitare l'eco-gentrificazione potrebbe risiedere negli interventi su scala ridotta che sono ben dispersi e progettati in combinazione con altre risorse, come l'occupazione e il sostegno alla proprietà della casa. Con l'obiettivo che la comunità in atto sia quella meglio servita dai nuovi miglioramenti basati sulla natura.
Gli spazi verdi urbani possono essere dunque uno strumento prezioso per creare condizioni di parità per le comunità svantaggiate in un'ampia gamma di contesti, inclusi i benefici economici e sanitari, maggiore sicurezza e resilienza agli eventi calamitosi. Per raggiungere questo obiettivo, i progetti che mirano a migliorare lo spazio verde urbano per essere realmente equi devono avere il consenso delle comunità. Partendo da queste basi, e in relazione alle criticità emerse e le possibili azioni di medio e lungo periodo, anche nell’ottica del PNRR, le città possono, o meglio devono, compiere tre passi cruciali per assicurarsi che i benefici sanitari, economici e ambientali degli spazi verdi urbani diventino motori di una maggiore equità sociale.
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Fonte
https://www.georgofili.it/