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La dieta mediterranea allunga la vita

A dicembre di quest’anno, la rivista “British Medical Journal” ha pubblicato uno studio statunitense sulla correlazione tra la dieta mediterranea e la longevità. Lo studio, svolto negli Stati Uniti, ha coinvolto 4.676 donne lavoranti presso l’ospedale “Brigham and Women’s Hospital” e la scuola “Harvard Medical School” a Boston.

Dalle ricerche effettuate è emersa una correlazione tra la maggiore lunghezza dei telomeri e un’alimentazione di tipo mediterraneo.
La dieta mediterranea è già nota per i suoi effetti benefici sulla salute, tra cui la diminuzione del rischio di malattie croniche, come quelle cardiache, e del cancro. Questo studio, invece, mette per la prima volta la dieta mediterranea in relazione con la longevità.
Le caratteristiche principali della dieta mediterranea sono date dalla presenza di:

  • alti quantitativi di: frutta, verdura, frutta secca a guscio, legumi, cereali, olio d’oliva
  • medi quantitativi di pesce
  • bassi quantitativi di: lipidi insaturi, formaggi, carne e pollame.

Il bioindicatore della longevità è rappresentato dalla lunghezza dei telomeri.
I telomeri sono sequenze ripetive di DNA che si trovano alla fine dei cromosomi eucariotici. I telomeri sono sottoposti ad attrito ogni volta che la cellula somatica si divide. La funzione dei telomeri è quella di prevenire la perdita di DNA genomico presente alla fine dei cromosomi lineari durante la divisione cellulare, proteggendone così l’integrità. Vista la naturale diminuzione della lunghezza dei telomeri con l’età, questo parametro si presta ad essere considerato come biomarcatore dell’invecchiamento. Pertanto, telomeri corti vengono associati ad una minore aspettativa di vita e un aumento nella probabilità di sviluppare malattie croniche collegabili all’età.
Studi precedenti hanno evidenziato come la velocità di accorciamento del telomero non dipenda solo dall’età anagrafica, ma esistano altri fattori che possono contribuire ad accelerarne o rallentarne l’usura. Ciascun individuo, infatti, presenta un personale stato di usura. Esiste, quindi, la possibilità di modificare la velocità di usura dei telomeri: fattori come obesità, fumo di sigaretta, e consumo di bevande zuccherate sono già stati collegati alla presenza di telomeri più corti, quindi a situazioni di usura più marcata.
I ricercatori hanno quindi analizzato e cercato una correlazione tra la lunghezza dei telomeri e gli stili di vita nonché la tipologia di alimentazione.
Tra tutte le diete, i ricercatori hanno dato priorità a quella mediterranea in quanto ricca di frutta, verdura e noci, fattori già noti per il loro potere antiossidante e anti-infiammatorio.

Lo studio si è svolto su donne di mezza età e in buona salute. Oltre alle analisi cromosomiche, si sono raccolti i dati realativi alle abitudini e stili di vita e al tipo di alimentazione. Per la raccolta di questi dati i ricercatori si sono avvalsi di questionari opportunamente compilati dalle persone oggetto dello studio.
Dai risultati raccolti si è visto che più la dieta era di tipo strettamente mediterraneo, maggiore risultava la lunghezza dei telomeri. In particolare si è visto che la dieta pesava molto di più di tutti gli altri fattori sulla lunghezza dei telomeri. Si sono quindi analizzate altre diete salutiste, ma nessuna ha evidenziato effetti così evidenti come la dieta mediterranea.

Per saperne di più:

British Medical Journal

La biodiversità come misura per la resa futura del terreno

La biodiversità sta risultando un parametro molto importante nella lotta integrata in quanto si mette l’ambiente in condizioni di svolgere da solo il compito che altrimenti è necessario adempiere impiegando sostanze di sintesi non sostenibili a lungo termine. Un ambiente con poca biodiversità dà, in un certo senso, la misura di quanto il terreno sia sfruttato e quindi quanto la sua fertilità sia limitata nel tempo. In un articolo apparso di recente su Science Direct alcuni ricercatori europei hanno illustrato come misurare la biodiversità, e avere quindi un’idea sulla sostenibilità futura del proprio terreno. La ricerca è stata in parte condotta all’interno del progetto europeo “BioBio Project”.

Questo studio ha messo a punto un metodo di misurazione che può risultare molto utile soprattutto ai consulenti nel settore agricolo. Tradurre il concetto di biodiversità in numeri facilita sia la comprensione sia la valutazione da parte degli agricoltori stessi.

Le sperimentazioni sono state effettuate in 19 aziende agricole in Svizzera. Le aziende sono state mappate per quantità e qualità di animali, piante e pratiche agricole ecc. Da questi risultati sono stati identificati due parametri fondamentali che possono identificare la biodiversità:

  • ricchezza media (numero di specie presenti in ogni azienda agricola);
  • unicità dell’azienda (il contributo di ogni singola azienda alla ricchezza totale delle specie).

Queste due misurazioni riflettono due parametri diversi ma complementari sulla presenza di biodiversità: la quantità e la qualità.

Per la definizione dei valori, i ricercatori hanno definito uguale a 100 il valore ottenuto dalla media matematica di tutti i valori raccolti nelle 19 aziende. Pertanto un risultato sopra al 100 indica un’azienda sopra alla media, un risultato sotto il 100 indica un’azienda con biodiversità sotto alla media. L’organizzazione dei risultati in questo modo permette di fornire all’agricoltore una visione della propria posizione rispetto alle aziende vicine.
Dall’analisi dei risultati è emerso che tutte le aziende potevano essere raggruppate in tre categorie:

  • aziende con ricchezza nella media ma bassa unicità
  • aziende con unicità e ricchezza nella media
  • aziende con ricchezza e unicità sopra la media.

Questa suddivisione permette di fornire agli agricoltori consigli maggiormente adeguati e specifici per ogni singola realtà.
Infatti, in casi in cui l’indice ha mostrato una buona ricchezza di biodiversità, ma una scarsa unicità, si è vista una generale limitazione nel numero di tipi diversi di habitat presenti.
Un altro caso, invece, ha portato dei valori di unicità fuori dalla norma soprattutto per il quantitativo di api. Un’analisi del territorio ha evidenziato la presenza di prato molto ripido e isolato che è risultato estremamente attraente per le api e altri insetti impollinatori che nidificano nel terreno.

La possibilità di avere delle misurazioni e delle valutazioni chiare rende possibile agli agricoltori di vedere i punti di forza e le debolezze della propria azienda e quindi lo aiuta nel prendere delle decisioni. Inoltre, questo sistema dovrebbe stimolare la discussione e lo scambio di informazioni tra gli agricoltori.

Per saperne di più:

EIP-AGRI
Science Direct
BioBio Project

 

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Diminuire l’uso di antibiotici negli allevamenti. È possibile?

In Europa ogni anno muoiono 25.000 persone a causa di infezioni provocate da batteri antibiotico-resistenti. Il problema si è presentato negli ultimi anni a causa di un uso eccessivo di antibiotici sia tra gli esseri umani sia tra gli animali. La soluzione immediata è sembrata quella di sintetizzare nuovi antibiotici, ma ovviamente i batteri riescono a sviluppare resistenze anche ai nuovi ceppi di antibiotici. L’INRA (Istituto Nazionale Francese per la Ricerca in Agricoltura) ha iniziato uno studio nel 2011 a seguito dell’approvazione in Francia del piano nazionale “Ecoantibio2017” che mira a ridurre del 25% l’uso di antibiotici entro il 2017. L’istituto ha quindi iniziato uno studio multidisciplinare che comprende le seguenti ricerche:

  • studi microbiologici per esaminare il meccanismo che porta alla resistenza agli antibiotici;
  • studi sociali per capire perché gli allevatori tendano a sopravvalutare i rischi di malattia nei loro animali;
  • studi zootecnici per strutturare gli allevamenti in modo che gli animali siano più robusti e resistenti;
  • studi farmaceutici per ottenere antibiotici ad azione mirata in modo da non attaccare batteri non patogeni.

In campo microbiologico i ricercatori hanno trovato come si creano e sviluppano batteri antibiotico-resistenti. L’occasione è stata data da un’epidemia di salmonella, nel 2000, resistente a ben 5 ceppi di antibiotici differenti. In questa occasione i ricercatori hanno potuto individuare la presenza all’interno del batterio di un’isola genomica responsabile di trasmettere geneticamente la resistenza agli antibiotici. Quest’isola genomica è in grado di muoversi tra i batteri e si integra al nuovo batterio passando così le informazioni su come resistere agli antibiotici. Ad oggi rimane ancora da capire nei dettagli come avvenga l’integrazione delle isole genomiche all’interno del genoma del batterio ricevente. Data la naturale capacità di adattarsi agli stress ambientali dei batteri, è molto difficile creare antibiotici che non provochino fenomeni di resistenza, tuttavia è possibile arrivare a produrne alcuni in grado di rallentare o inibire in parte lo sviluppo di una resistenza.

Nel campo sociale, gli studiosi hanno analizzato le abitudini di allevatori, veterinari e tecnici consulenti fin dal 1950, periodo in cui gli antibiotici sono entrati negli allevamenti. In quegli anni gli antibiotici venivano mescolati agli alimenti in quanto capaci di aumentare e velocizzare la crescita del capo. Questa pratica fu vietata in Europa a partire del 2006, essendosi notata l’insorgenza di una resistenza batterica agli antibiotici. Il consumo di antibiotici rimane comunque abbastanza alto perché spesso sono usati in maniera preventiva su tutti i capi. Secondo le ricerche dell’INRA, diversi allevatori, veterinari e tecnici tendono spesso a sopravvalutare i rischi di malattia e iniziano i trattamenti antibiotici con eccessiva facilità. Le ricerche hanno però anche evidenziato l’esistenza di allevamenti in cui pur impiegando bassissime quantità di antibiotici, si mantengono alte le rese. Risulta quindi di particolare rilevanza la divulgazione e diffusione di queste ultime metodologie per ottenere un allevamento più sostenibile.

Nel campo zootecnico si è studiato l’impatto sull’animale degli antibiotici: efficacia del trattamento e impatto sul metabolismo dell’animale.
I trattamenti analizzati vanno da quelli preventivi a quelli applicati alla comparsa dei sintomi e a loro volta si dividono in precoci o tardivi. Inoltre sono stati esaminati i trattamenti personalizzati, (applicati solo al capo infetto), ristretti (applicati a tutti i capi in diretto contatto con quello infetto) o di massa (applicato indistintamente a tutti i capi dell’allevamento).
Le ricerche hanno evidenziato come in genere il trattamento precoce e personalizzato sia la miglior risposta in termini di efficacia della cura e di inibizione, per lo sviluppo di batteri antibiotico-resistenti. Un uso tardivo richiede dosi maggiori di antibiotici con un conseguente aumento delle possibilità di sviluppare batteri antibiotico-resistenti e una diminuzione delle possibilità di salvare capo. Un impiego massiccio e preventivo incrementa notevolmente la possibilità di sviluppare batteri antibiotico-resistenti. La somministrazione preventiva di antibiotici a tutti i capi in contatto con quello malato ha i suoi pro e contro e molto dipende dall’estensione dell’infezione.
Le sperimentazioni effettuate con casi di polmonite hanno comunque dimostrato che il trattamento precoce e personalizzato consegue i risultati nettamente migliori.
Gli studiosi hanno anche analizzato l’impatto degli antibiotici sulla flora intestinale dell’animale. Trattamenti massicci portano alla creazione dei geni della resistenza che possono essere ospitati anche da batteri non patogeni. Questi batteri possono tranquillamente trasmettere tali geni all’ambiente (suolo, acqua …), agli alimenti (verdure, carne …) e quindi in via indiretta all’uomo.

Gli studi farmacologici si concentrano sulla creazione di farmaci inoffensivi a livello di flora intestinale. Purtroppo non ci sono ancora dei risultati degni di nota.

Per saperne di più:

INRA