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Jellyfish Barge, una serra galleggiante completamente sostenibile

Organismi internazionali, come la Banca Mondiale, prevedono per il 2050 una popolazione del pianeta vicina ai 10 miliardi di persone. Uno dei maggiori problemi da affrontare è la soddisfazione della richiesta di cibo, considerato che in numerosi paesi si coltivano già quasi tutti i terreni disponibili. Inoltre, il crescente fabbisogno d’acqua per fini agricoli comporta, in alcune zone, come nel sud della Spagna, il consumo delle riserve idriche sotterranee con un ritmo più veloce di quanto le precipitazioni le restituiscano.

Un team completamente italiano, che vede la partecipazione di botanici e architetti, ha individuato una soluzione per risparmiare superficie coltivabile creando una serra agricola galleggiante: la Jellyfish Barge.
Jellyfish Barge è prodotto da Pnat srl, società spin-off dell’Università di Firenze, coordinata da Stefano Mancuso, direttore del Laboratorio Internazionale di Neurobiologia Vegetale (LINV) dell’Università di Firenze. Allo spin-off  partecipano alcuni ricercatori del LINV e due architetti di Studiomobile.
Il prototipo funzionante, realizzato dal LINV (Università di Firenze) grazie al contributo della Fondazione Ente Cassa di Risparmio di Firenze e della Regione Toscana, è installato nel canale Navicelli, tra Pisa e Livorno ed è stato inaugurato venerdì 31 ottobre 2014.

Pensata per comunità vulnerabili alla scarsità di acqua e di cibo, la Jellyfish Barge è costruita con tecnologie semplici e con materiali riciclati e a basso costo.
Innanzitutto, Jellyfish Barge è una serra modulare costruita su piattaforma galleggiante in grado di garantire sicurezza idrica e alimentare fornendo acqua e cibo senza pesare sulle risorse esistenti. La struttura impiega materiali a basso costo, assemblati con tecnologie semplici e facilmente realizzabili, ed è così composta:

  • un basamento in legno di circa 70 mq che galleggia su dei fusti in plastica riciclati;
  • una serra in vetro sorretta da una struttura in legno.

L’acqua dolce viene fornita da dei dissalatori solari disposti lungo il perimetro. Questi sono in grado di produrre fino a 150 litri al giorno di acqua dolce e pulita da acqua salata, salmastra o inquinata. La distillazione solare è un fenomeno naturale: nei mari, l’energia del sole fa evaporare l’acqua, che poi ricade come acqua piovana. In Jellyfish Barge il sistema di dissalazione replica questo fenomeno naturale in piccola scala, risucchiando l’aria umida e facendola condensare dentro a fusti a contatto con la superficie fredda del mare.
La poca energia necessaria a far funzionare le ventole e le pompe viene fornita da sistemi che sfruttano le energie rinnovabili, integrati nella struttura.
La serra incorpora un innovativo sistema di coltivazione idroponica che consente un risparmio di acqua fino al 70% rispetto alle culture tradizionali, grazie anche al riuso continuo dell’acqua.
Jellyfish Barge, inoltre, utilizza circa il 15% di acqua di mare che viene mescolata con l’acqua distillata, garantendo un’efficienza idrica ancora maggiore.
Il complesso funzionamento del sistema colturale è garantito da un impianto di automazione con monitoraggio e controllo remoto.

Jellyfish Barge è stata pensata per sostenere circa due nuclei familiari, quindi è appositamente di dimensioni contenute per rendere semplice e fattibile la sua costruzione anche in condizioni di ristrettezze economiche. È modulare, per cui un singolo elemento è completamente autonomo, mentre più serre affiancate possono garantire la sicurezza alimentare per un’intera comunità. La forma ottagonale della piattaforma consente di affiancare diversi moduli collegandoli con semplici basamenti galleggianti a base quadrata.


Per saperne di più:
PNAT
LINV
Studio Mobile

 

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Biofertilizzanti e batteri, il binomio per un’agricoltura sostenibile

L’Istituto Basco per la Ricerca e lo Sviluppo in Agricoltura (Neiker-Tecnalia) ha dedicato una linea di ricerca allo studio dei biofertilizzanti con lo scopo di individuare e selezionare dei batteri autoctoni idonei ad essere impiegati nelle formulazione dei biofertilizzanti. La creazione di biofertilizzanti validi ad un prezzo accessibile potrebbe risultare estremamente vantaggiosa sia per l’ambiente sia per gli agricoltori.

L’agricoltura sostenibile prevede un minor impiego di additivi chimici, siano fertilizzanti o fitofarmaci. I biofertilizzanti si stanno ponendo come delle possibili alternative e, tra questi, risultano particolarmente interessanti i formulati che contengono batteri autoctoni.
I batteri svolgono un ruolo importante in quanto, in un certo senso, aiutano le piante ad assorbire quei nutrienti già presenti nel suolo ma non normalmente fruibili in quanto insolubili. Inoltre, i batteri competono con gli altri microrganismi presenti nel suolo e possono, quindi, anche ostacolare la crescita e lo sviluppo di organismi nocivi per le colture.
Questa tipologia di biofertilizzante, pertanto, potrebbe portare non solo ad una diminuzione dell’uso di fertilizzanti di sintesi, ma pure di fitofarmaci.

Il gruppo di batteri autoctoni selezionato dai ricercatori dell’Istituto Neiker-Tecnalia, ha dimostrato di possedere tutte le caratteristiche fondamentali per poter essere impiegato nella formulazione di biofertilizzanti.
Tali batteri si sono, infatti, dimostrati capaci di:

  • aumentare la disponibilità dei nutrienti presenti nel suolo (rendendoli così assimilabili da parte delle piante);
  • produrre ormoni che stimolano la crescita della piante;
  • stimolare lo sviluppo dell’apparato radicale;
  • impedire lo sviluppo di altri micro-organismi dannosi per la pianta.

Questa specie di batteri è normalmente presente sia nel terreno sia nel tessuto delle piante. Nei vari test effettuati in vitro, questi batteri hanno fornito degli ottimi risultati. Attualmente vengono testati su delle piante di lattuga coltivate in condizioni controllate. La scelta della lattuga come coltura per il test è dovuta ad una semplice convenienza temporale data la sua rapidità di crescita.
Il test comprende l’analisi di diversi tipi di fertilizzanti per ottenere il maggior numero di informazioni sulla reale efficacia dei biofertilizzanti in generale.
Vengono quindi effettuate prove impiegando:

  • biofertilizzanti formulati con l’aggiunta di batteri;
  • biofertilizzanti prodotti in modo artigianale da agricoltori nella zona;
  • biofertilizzanti commerciali (come il bokashi);
  • fertilizzanti di sintesi.

Oltre al potere fertilizzante e alla capacità di aumentare la produttività in suoli poveri, i ricercatori misurano anche l’impatto del patogeno Sclerotinia sclerotiorum sulle varie parcelle.
La Sclerotinia sclerotiorum è un fungo che attacca le radice e può causare la sclerotinosi, malattia che porta alla necrosi delle piante. Questo patogeno crea la formazione di strutture nere e rigide (chiamate scleroti) e di una polverina bianca di micelio che si forma sulle piante che ne sono affette. Ad essere maggiormente colpite sono le colture di patate, colza, girasole, fagioli, carote.
Se le prove in vitro verranno confermate, il biofertilizzante formulato con batteri dovrebbe aiutare la pianta a difendersi da sola da questo parassita.
Al termine delle prove in ambiente protetto si procederà con quelle in campo aperto.

 

Per saperne di più:
Neiker-Tecnalia
Progetto Refertil

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Nuova irrigazione grazie a polimero che assorbe acqua e la rilascia

Arriva dal Messico l’invenzione di una pioggia solida, ovvero di un polimero biodegradabile al 100% e capace di assorbire acqua piovana fino a 200 volte il proprio peso. L’acqua può essere immagazzinata all’interno di questo polimero anche per un anno. Il polimero, idratato e mescolato al terreno, rilascia lentamente l’acqua all’apparato radicale delle piante a seconda della richiesta di queste ultime. Il rilascio, lento e continuato, può coprire un periodo di 40 giorni.

La ricerca su questo polimero trae ispirazione dai materiali super assorbenti creati negli anni ’70 dal Dipartimento di Agricoltura degli Stati Uniti (USDA). Partendo dall’amido, i ricercatori dell’USDA avevano isolato un polimero naturale in grado di assorbire acqua fino a 1400 volte il proprio peso. Questa sostanza trova tuttora svariate applicazioni soprattutto nella produzione di pannolini.
L’ingegnere messicano Sergio Jesus Rico Velasco ha trovato un’altra applicazione per questo singolare polimero: una sua particolare formulazione produce una sostanza  in grado di assorbire elevatissime quantità di acqua  e  rilasciarla quindi lentamente alle piante una volta mescolata al terreno. Viene chiamata "pioggia solida", lluvia solida in spagnolo. È un granulato in polvere di acrilato di potassio, polimero non tossico e biodegradabile. Il polimero una volta mescolato con l’acqua, in genere piovana raccolta all’interno della stessa azienda agricola, l’assorbe e la trattiene anche per un anno impedendo che la stessa evapori.

Il polimero può essere distribuito alla piante in forma disidratata o idratata a seconda delle condizioni climatiche della zona, l’importante è che comunque sia mescolato col terreno. Infatti, è proprio questa condizione necessaria affinché l’acqua possa essere disponibile per le piante.
Le piante, infine, sono in grado di prelevare dal polimero l’acqua necessaria al loro sostentamento grazie al proprio apparato radicale. Circa il 65% – 80% dell’acqua immagazzinata può essere rilasciata alle piante in un periodo che può arrivare anche a 40 giorni.
Una volta posizionato sul terreno, il polimero rimane in grado di assorbire l’acqua piovana e di rilasciarla lentamente alla pianta prolungando così il suo effetto nel tempo. Di fatto, il polimero si comporta come un silos di acqua a disposizione della pianta.

Secondo il sito di “Lluvia Solida” la presenza di circa 25 kg di prodotto per ettaro di terreno ha aumentato la resa della coltivazione del mais in Messico da 500kg/ettaro a 10ton/ettaro.
L’ideatore aggiunge, inoltre, che oltre all’aumento della resa si ha una diminuzione dei costi in quanto si impiega meno acqua, fertilizzante, energia e manodopera.
Essendo il prodotto completamente biodegradabile e non tossico per le piante, in quanto formato da bioacriloammide, dopo la sua disintegrazione la sostanza diventa parte della pianta stessa.

L’impiego ottimale di questo prodotto, secondo il Direttore della Facoltà di Ingegneria dello Sviluppo Sostenibile dell’Istituto Tecnologico di Monterrey, campo di Santa Fe (Messico), è in zone in cui sono comunque presenti delle precipitazioni. L’applicazione in zone desertiche rimane difficile.

Il prodotto è capace di mantenere le sue proprietà assorbenti per 8-10 anni di utilizzo, la sua durata è direttamente collegata alla purezza dell’acqua impiegata: più l’acqua è pura, maggiore è la durata del prodotto. La pioggia solida trova applicazione in tutti i settori agricoli e forestali, come in floricoltura, orticoltura e colture idroponiche.

L’invenzione risale a circa 10 anni fa, ma sta riscuotendo successo soprattutto in quest’ultimo periodo vista la maggiore attenzione mondiale al problema dell’approvvigionamento idrico. Attualmente il prodotto è commercializzato in 9 paesi fuori dal Messico: Argentina, Ecuador, Emirati Arabi, India, Spagna, Francia, Israele, Perù e Russia.

 

Per saperne di più:
Lluvia Solida
Rivista Expansion
USDA
BBC Science & Environment