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L’impronta idrica è troppo elevata. Urge un programma di razionalizzazione dell’acqua irrigua

Il 28 novembre 2013 si è tenuto a Roma il convegno "Water and Food Security: Food-Water and Food Value Supply Chains” organizzato dall’INEA, che ha visto la partecipazione di esponenti nazionali e internazionali del settore. Largo spazio è stato dato all’impronta ecologica idrica (water footprint) soprattutto nel bacino del Po.
Il territorio del bacino del Po, ricchissimo d’acqua, è caratterizzato, nello stesso tempo, da un uso estremamente intensivo della risorsa disponibile. La grande disponibilità di acqua è dovuta alla presenza di un idrosistema eccellente grazie alla catena alpina che immagazzina l’acqua dolce sotto forma di coltre nevosa e ghiacciai; una volta rilasciata, l’acqua confluisce in pianura, dove i grandi laghi raccolgono e modulano il deflusso. Da qui si dipartono le principali reti irrigue lombarde e piemontesi, che intercettano l’acqua prima che questa percoli nel sottosuolo permeabile dell’alta pianura. Parte dell’acqua percolata riemerge nella bassa pianura e poi defluisce nel Po.

La grande disponibilità idrica ha determinato un modello irriguo povero in termini di tecnologie innovative per un uso efficiente dell’acqua o risparmio idrico (le cosiddette tecnologie water saving). Di conseguenza l’impronta ecologica idrica dell’Italia è molto elevata: i prelievi di acqua sono tra i più alti del mondo e l’efficienza di uso tra le più basse.
Il sistema irriguo in agricoltura risulta essere una delle cause di quest’elevata impronta idrica. L’acqua impiegata in agricoltura, definita “acqua alimentare”, si distingue tra acqua “blu” (acqua dolce derivata dai fiumi o estratta dal sottosuolo) e “acqua verde” (acqua trattenuta nel suolo dopo le piogge). L’acqua verde rappresenta circa 1’80% dell’acqua utilizzata per l’agricoltura e l’allevamento, mentre il 20% rimanente è acqua blu. Agricoltori e allevatori gestiscono circa il 90% dell’acqua alimentare. Il restante 10% è gestito da altri soggetti che commerciano, trasportano, trasformano e immettono sul mercato il cibo.

Per la gran parte, la domanda di irrigazione è soddisfatta da sistemi collettivi (consorzi di bonifica), ma una quantità consistente di agricoltori si servono anche, o solo, di proprie infrastrutture di captazione (pozzi, laghetti ecc).
La gran parte delle reti di irrigazione non è a pressione, ciò significa che l’acqua può essere incanalata solo sfruttando la gravità. Le modalità di allocazione tra le diverse colture sono rigide, basate su turni predefiniti, senza possibilità di attivare una fornitura in tempo reale alle colture più vulnerabili. L’effetto paradossale è quello di utilizzare enormi quantità di acqua per irrigare colture a basso valore aggiunto, e rischiare, nel contempo, di non averne abbastanza a disposizione per le colture a più elevato valore aggiunto, qualora queste ultime si trovino “in coda”, sia dal punto di vista geografico sia stagionale, nell’accesso alla risorsa. Questa rigidità ha ripercussioni negative soprattutto in situazioni stagionali anomale in quanto, essendo le scelte sulle coltivazioni da effettuare prese all’inizio di stagione, ci si trova nell’impossibilità di effettuare qualsiasi modifica.

La strategia auspicata e in parte già intrapresa dall’Italia per migliorare l’efficienza del sistema irriguo vede l’impiego di nuove tecnologie e il coinvolgimento delle amministrazioni locali e degli Enti di gestione.
Il Prof. Antonio Massarutto dell’Università Bocconi, vede tra le innovazioni tecnologiche attuabili l'investimento nelle reti di irrigazione esistenti per arrivare a consentire un’erogazione “a domanda”. In questo caso le reti dovrebbero essere convertite in sistemi a pressione e dovrebbero essere modificate le tariffe in modo da poter utilizzare il prezzo istantaneo come strumento per ridurre l’impiego per gli usi meno produttivi.

È attivo in Italia il Sistema Informativo Nazionale per la Gestione delle Risorse Idriche in Agricoltura (SIGRIAN). Questo programma è impiegato nella gestione e programmazione nazionale, regionale e subregionale della risorsa idrica a fini irrigui.

Per gli agricoltori è attiva la piattaforma informatica Sistema Intelligente Irriframe” in grado di fornire un consiglio irriguo puntuale e preciso su ogni tipologia di coltura. Il sistema è in grado di combinare i dati del bilancio idrico suolo/pianta/atmosfera con i costi dell’intervento irriguo e quindi fornisce all’agricoltore indicazioni precise su tempi e modi di irrigazione ottimali.

Per saperne di più:
INEA
UVB (Unione Veneta Bonifiche)

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Mucche a basse emissioni

ll progetto RuminOmics è un programma finanziato dalla Comunità Europea a cui partecipano quattro enti di ricerca: Università Cattolica del Sacro Cuore di Piacenza, Università di Nottingham (UK), Wageningen University and Research Centre (NL) e AgResearch New Zealand (NZ). Lo scopo principale di questo progetto è trovare soluzioni sostenibili ed economicamente vantaggiose per abbattere le emissioni di gas serra negli allevamenti. La ricerca non è ancora terminata ma gli studiosi hanno di recente reso pubblici i progressi finora raggiunti.

Il progetto prende in considerazione il maggiore numero possibile di aspetti che in qualche modo possono essere collegati alle emissioni di gas serra. Innanzitutto si è guardato alle emissioni di metano dei bovini, questo, infatti, è un fattore che ha il suo peso nel conteggio globale delle emissioni ad effetto serra. Il potere del metano come gas serra è pari a 25 volte quello dell’anidride carbonica e il metano di origine animale corrisponde al 80% del metano totale emesso dall’agricoltura, ovvero il 35% di tutto il metano emesso di origine antropica (fonte FAO).

I ricercatori del progetto RuminOmics hanno visto che la quantità di metano prodotta dipende dal tipo di bovino e dalla sua dieta. Studi hanno evidenziato che a seconda del tipo di bovino preso in esame le emissioni possono raddoppiare o anche triplicare. Una parte degli studi si è quindi concentrata sulla selezione di un tipo di bovino in grado di produrre la stessa quantità di latte ma a più basse emissioni ad effetto serra.
Un’altra sezione è dedicata alla dieta vista la chiara correlazione tra quest’ultima e la quantità di emissioni.
Dalle prime stime emerge che la combinazione di bovini a basse emissioni con una dieta apposita potrebbe portare ad una riduzione di emissioni di metano anche di un quinto.
Un’altra sezione è dedicata alla microbiologia del rumine dei bovini. I ricercatori hanno fondate ragioni per credere che la genetica influisca anche sulla microbiologia dell’intestino, ma per esserne certi hanno bisogno di ulteriori studi.

Le ricerche genetiche finora condotte si sono limitate a miglioramenti di aspetto, fertilità e dimensioni. I ricercatori del progetto RuminOmics confidano che in un futuro abbastanza prossimo anche il fattore “basse emissioni” potrà attrarre gli allevatori di bovini. Aggiungono, infatti, che a loro avviso una diminuzione di produzione di metano dovrebbe portare ad una maggiore produzione di latte. Questa affermazione deriva dal fatto che per la formazione del metano il bovino utilizza dell’energia che, in un certo senso, viene “sottratta” da altre attività quale appunto la produzione di latte. Di conseguenza, limitando le emissioni, il bovino ha una maggior quantità di energia da convogliare sulla produzione di latte.

Per il momento, l’unico miglioramento di applicazione immediata per abbattere le emissioni di metano consiste nel modificare la dieta. La selezione genetica e l’analisi microbiologica dell’apparato digerente richiedono tempi maggiori. I bovini, infatti, hanno un rumine, uno stomaco e un sistema digerente molto più complesso del nostro.
I ricercatori stimano che per avere una selezione di bovini che presenti una riduzione di emissioni pari ad un 10% ci vorranno ancora 10-15 anni. Però, aggiungono, con la selezione del genotipo giusto probabilmente non saranno necessarie diete speciali e questo comporterebbe un abbattimento dei costi.
I risultati delle ricerche aprono strade per applicazioni analoghe anche in altri ruminanti quali capre e pecore.

Il progetto continuerà ancora per due anni e si stima che i primi risultati saranno disponibili sul mercato in 3-5 anni.

Per saperne di più:
Youris.com
Progetto RuminOmics
Università Cattolica del Sacro Cuore
University of Nottingham
Wageningen University and Research Centre
AgResearch New Zealand

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Moria dei kiwi: riconoscerne i sintomi

La moria del kiwi è una patologia che porta ad un progressivo deperimento della pianta fino alla morte della pianta stessa. L’estirpamento delle piante morte o in avanzato stato di malattia aveva evidenziato una grave marcescenza di tutto l’apparato radicale con rare o assenti radici attive. Il Prof. Mazzucchi e il Dr. Giacopini hanno pubblicato di recente un articolo dove mettono in luce quali siano i sintomi radicali anteriori alla fase terminale. Risulta infatti importante poter riconoscere la malattia già dai primissimi sintomi. I sintomi premonitori sospetti sono: poche foglie su una o più branche mostranti disseccamenti parziali, di colore bruno, associati a deformazioni del lembo, attività vegetativa ridotta, sviluppo ritardato dei frutti anche a seguito di buona impollinazione.
Gli autori specificano che per poter attribuire lo stato di malattia ad eventuali infezioni di fitoftore, bisogna controllare delicatamente le radici, operazione che può essere effettuata anche in loco, evitando tagli. Gli esiti di eventuali infezioni di fitoftore sono riconoscibili per la presenza di tratti alterati denominabili a scopo divulgativo come “collari” e “code di topo”.
I “collari” sono come dei manicotti bruni, lunghi alcuni millimetri, singoli o accoppiati, lungo il percorso di radici di diametro intermedio. La “coda di topo” è invece il residuo del cilindro centrale più o meno lignificato di una giovane e sottile radice, dove la tenera corteccia è stata degradata in tutto lo spessore. Nei casi di messa a nudo delle radici con violenti getti d’aria o d’acqua localizzati, si possono facilmente perdere i “collari”, ma non le “code di topo”.

Nei casi monitorati in provincia di Verona, i “collari” e “code di topo” sulle radici terminali di piante in fase intermedia di moria si sono dimostrate ben correlate alla presenza diPhytophthora spp..È parere degli autori che i due tipi di sintomi possano ritenersi indicatori affidabili della presenza di fitoftore (o di altri oomiceti analoghi) nel terreno del frutteto. Si ricorda inoltre che le fitoftore terricole possono causare anche “infezioni latenti” nel senso che infezioni di radichette a bassa frequenza possono non rivelarsi nella parte aerea e le piante rimanere asintomatiche.

Ogni pianta alberga nella propria rizosfera una miriade di microrganismi, tra cui potenziali agenti di infezioni in concomitanza di stress (eccesso di acqua e bassa tensione di ossigeno nel terreno, temperatura adeguata, nel caso delle fitoftore) che da un lato stimolino l’attività riproduttiva del patogeno, dall’altro lato riducano la capacità della pianta di mettere in atto barriere di difesa antimicrobiche efficaci. Una pianta poliennale ben concimata e irrigata di frequente è candidata ad ospitare oomiceti nella propria rizosfera. È verosimile che a seguito di ripetuti stress ambientali favorevoli alle fitoftore, il numero delle infezioni di radichette possa superare una soglia quantitativa critica ed iniziare a indurre comparsa di sintomi nella parte aerea. Di fatto, osservazioni ipogee di campo indicano che inizialmente, quando sono lesionate solo le parti terminali e periferiche dell’apparato radicale, le parti aeree, possono essere ancora asintomatiche.
I disseccamenti fogliari iniziali della moria e la diminuzione di attività vegetativa, lo sviluppo ritardato dei frutti comunemente riferiti a disfunzione dell’apparato radicale potrebbero in realtà essere indotti direttamente o indirettamente anche dalle abbondanti “elicitine”, liberate dalle fitoftore nei punti di infezione, tossine proteiche note per loro effetti sistemici nelle piante.
Rilevare precocemente la presenza di sintomi premonitori sulle radichette offre ai frutticoltori occasione di valutare con poca spesa il livello di rischio di moria nel proprio frutteto. Nei casi di ritrovamento positivo, anche in piante non sintomatiche nella parte aerea, sarà opportuno far monitorare il frutteto per la presenza di fitoftore mediante analisi microbiologiche appropriate.

Il 13 febbraio a Taurianova (RC) è organizzato il workshop “ Actinidia 2014 – Difesa sostenibile: Nematodi e batteriosi”. In tale sede esperti del mondo accademico e imprenditoriale faranno il punto della situazione e sulle prospettive future.

Per saperne di più:
Freshplaza
Prof. Umberto Mazzucchi, Email
Giacopini A., Agrea Centro Studi Srl, Email