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Al via il “Green deal” europeo per decarbonizzare le città

Ridurre le emissioni di gas serra del 55 per cento entro il 2030 e raggiungere la neutralità climatica entro il 2050, tra gli obiettivi principali del “Green deal”, il pacchetto di misure che la Commissione europea ha messo in campo per contrastare il cambiamento climatico e rendere le città più sostenibili sotto il profilo energetico e ambientale


L’Unione europea si è impegnata a ridurre le emissioni di gas serra del 55 per cento entro il 2030 (rispetto ai livelli del 1990) e a raggiungere la neutralità climatica sotto il profilo delle emissioni di CO2 entro il 2050. Questi sono due tra i numerosi obiettivi previsti nel Green deal europeo, un pacchetto di misure che la Commissione europea ha messo in campo per rendere l'Europa il primo continente a emissioni zero, puntando sull'efficienza energetica e sulla decarbonizzazione del parco immobiliare. Il 50 per cento dell’energia finale dei paesi dell’Ue, infatti, è utilizzata per il riscaldamento e il raffrescamento; di questa, l’80 per cento si usa per gli edifici, che rappresentano circa il 40 per cento del consumo finale di energia. Il settore edile europeo è inoltre responsabile in modo diretto (gasolio e metano per il riscaldamento) e indiretto (consumo indiretto di fonti di energia per la produzione di elettricità) del 30 per cento delle emissioni di CO2. Ciò è dovuto anche al fatto che il 60 per cento del patrimonio edilizio in Europa è costituito di edifici residenziali dotati di vecchi impianti di riscaldamento, spesso con una vita media dell’edificio superiore ai 50 anni e un consumo medio di energia che si attesta intorno ai 170 kW/m2/anno, a dispetto delle nuove normative europee in materia di efficienza energetica, che richiedono di non superare i 50 kW/m2/anno.

Per quanto riguarda il nostro Paese, le stime ci dicono che il 36 per cento, ovvero circa 48 Mtep di energia consumata a livello nazionale, sia a carico degli edifici. La ragione di questi elevati consumi energetici risiede soprattutto nella vetustà e obsolescenza del patrimonio edilizio esistente, dato che oltre 50 per cento degli edifici sono stati costruiti prima degli anni ’70. Su questo punto la direttiva europea sul rendimento energetica nell’edilizia (Energy Performance of Buildings Directive), adottata per la prima volta nel 2002, dispone che tutti gli Stati membri dell’Ue elaborino piani nazionali destinati a ridurre le emissioni dei nuovi edifici. Questi, a partire dal 2021, dovranno avere un consumo di energia pari o molto vicino allo zero (Nearly Zero Energy Buildings) ovvero dovranno essere edifici con un consumo molto basso di energia per il riscaldamento, il raffrescamento, la produzione di acqua calda sanitaria, la ventilazione e l’illuminazione. Un’ulteriore evoluzione di questa tipologia di edifici a prestazioni energetiche elevate è rappresentata dai Plus energy buildings che, accanto all’autosufficienza energetica, favoriscono anche la produzione e distribuzione di energia rinnovabile (da solare fotovoltaico e da eolico) alle utenze energetiche dell’edificio e la vendita alla rete elettrica.

Negli ultimi dieci anni il risparmio di energia nel settore edilizio ha poi favorito lo sviluppo di un’altra tipologia di costruzione che prevede l’integrazione dell’elemento verde, in linea con un concetto più esteso di sostenibilità energetica e ambientale dell’edificio. La realizzazione di soluzioni tecniche naturali costituite da sistemi vegetali orizzontali (tetti verdi), verticali (pareti verdi) o da strutture vegetali quali pergole, alberi, siepi con funzione ombreggiante, migliora l'edificio dal punto di vista estetico, favorisce l’interazione con l’ambiente e contribuisce a migliorare l’efficienza energetica dell’edificio. A questo proposito, presso il Centro ENEA Casaccia è stata avviata un’attività di ricerca e sviluppo nell’ambito del programma RDS (Ricerca di Sistema Elettrico), finanziata dal Ministero dello sviluppo economico, grazie alla quale è stato realizzato un edificio dimostrativo denominato "Scuola delle Energie", all’interno del quale il Dipartimento Unità Efficienza Energetica tiene corsi di formazione e/o aggiornamento rivolti alla pubblica amministrazione, agli operatori del settore energetico, ai professionisti del verde, ai ricercatori e agli studenti (Figura 1).

 

Figura 1. Edificio verde dimostrativo: parete verde (sinistra) e tetto verde (destra)

 

Inoltre, garantendo un isolamento termico all’edificio al quale sono applicate, le “infrastrutture verdi” possono essere considerate un valido metodo naturale per rendere gli edifici e, di conseguenza, le città più efficienti e vivibili. Infatti, la presenza di vegetazione consente la schermatura dell’edificio nei confronti della radiazione solare incidente nei periodi estivi di modo che la temperatura superficiale delle pareti dell’edificio risulta inferiore; in questo modo si riduce il passaggio di calore verso l’ambiente interno. Inoltre, poiché i sistemi vegetali possono essere considerati “materiali freddi”, le temperature superficiali delle masse fogliari delle essenze vegetali risultano non dissimili da quelle dell’aria esterna, al contrario dei “materiali caldi” (cemento, asfalto e altri) che nei mesi estivi possono raggiungere temperature superiori ai 60 °C; così si riduce anche l'emissione di calore sotto forma di radiazione infrarossa nell’ambiente circostante il verde. Infine, grazie ai fenomeni naturali della fotosintesi e dell’evapotraspirazione, i sistemi vegetali integrati sugli edifici raffreddano l’aria e consumano CO2 per la loro crescita (Tabella 1).

 

Tabella 1. Valori della quantità di COsequestrata da differenti sistemi vegetali

 

Sia i tetti che le parerti verdi possono usufruire degli strumenti di incentivazione come l’ecobonus e il conto termico fino al 65 per cento. Occorre sottolineare che il miglioramento dei valori di trasmittanza termica si riferisce alle caratteristiche della stratigrafia di isolamento del lastrico solare o delle pareti verticali dell’edificio per sostenere il sistema vegetale. Qualora le sistemazioni a verde non raggiungano i valori di trasmittanza termica previsti dall’ecobonus, si può ricorrere allo strumento del bonus verde, che prevede in alternativa la detrazione fiscale del 36 per cento, fino a un costo massimo di 5.000 euro (confermato anche per il 2020).


Per approfondire:

  • Carlo Alberto Campiotti et al. Le coltri vegetali nel settore residenziale. Energia, ambiente e innovazione, 2/2018.
  • COM 249/2013 “Infrastrutture verdi-Rafforzare il capitale naturale in Europa”.
  • Direttiva Efficienza Energetica 2012/27/UE.
  • Direttiva 2018/844 sull’efficienza energetica.
  • Giuliana Dall’O’ (2010). Abitare sostenibile. Ed. Il Mulino.
  • http://www.efficienzaenergetica.enea.it/

 

Foto d’intestazione: Hundertwasserhaus a Vienna (Foto: www.ecowave.it)

allegoria governo

Il suolo “bene comune” per il benessere dei cittadini

L’«Allegoria ed Effetti del Buono e del Cattivo Governo» di Ambrogio Lorenzetti (vedi figura sopra) è un ciclo di affreschi che l’artista realizzò, tra il 1338 e il 1339, nella Sala dei Nove del Palazzo Pubblico di Siena. Si tratta di due affreschi: da un lato, l’Allegoria del Cattivo Governo con i suoi effetti negativi (carestia, saccheggi, violenza, omicidi, povertà, ecc.); dall’altro, l’Allegoria del Buon Governo con i suoi effetti positivi (una città prospera, ricchezza, benessere, gioia, ecc.). Questi affreschi mostrano lo stretto legame che esiste tra l’amministrazione della cosa pubblica e i cittadini, che possono trarre beneficio dal governo dello Stato solo se questi si fonda su principi di giustizia sociale. Lo dimostra chiaramente la netta discrepanza tra il territorio dell’uno (Allegoria del Buon Governo) e dell’altro affresco (Allegoria del Cattivo Governo), il primo florido perché ben governato, il secondo povero perché mal governato.


Il suolo rappresenta un elemento indispensabile non solo per il settore delle costruzioni e per quello agroalimentare, ma anche per la sopravvivenza degli ecosistemi terrestri, dato che da esso dipendono gran parte dei cicli biologici.
Sulla base di questo riconoscimento, già ufficializzato nel 2015 dalla Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici di Parigi (COP21) e dagli obiettivi dell’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile (SDGs), di recente anche dalla COP26, tenutasi a Madrid dal 2 al 15 dicembre, la comunità scientifica, la FAO, l’OCSE e la Commissione europea, hanno sottolineato la necessità, ormai improrogabile, di arrestare il consumo di suolo. In particolare, il suolo è stato riconosciuto come un “bene comune”, concetto già presente nel diritto romano (“res communis omnium”). Il suolo, risorsa non rinnovabile, è un valido “alleato” nella lotta al cambiamento climatico e contribuisce alla sopravvivenza della popolazione globale, considerato che oltre il 95 per cento del cibo consumato deriva dalla coltivazione di piante alimentari e gioca inoltre un ruolo fondamentale per il mantenimento della vita dei vegetali, degli animali e dell’uomo. Si stima che il valore economico dei servizi eco-sistemici forniti dal suolo, definiti come “benefici che le persone ricevono dagli ecosistemi” (Millennium Ecosystem Assessment, 2005), non sia inferiore agli 11,4 trilioni di dollari (Peter M. Kopittke et al., 2019). Particolare rilevanza ricopre la sostanza organica immagazzinata nel suolo, composta da residui vegetali e microbici in vari stati di degradazione, che va a costituire il più grande bacino di stoccaggio di carbonio di origine organica del pianeta. Si tratta perciò di una risorsa importante per la mitigazione degli effetti del cambiamento climatico, grazie alla sua azione bilanciatrice tra le emissioni di gas serra e il sequestro di carbonio (dati FAO, 2017). A questo proposito, la Commissione europea ha evidenziato, nella sua COM(2012) 46 final, che i suoli del territorio dell’Ue contengono oltre 70 miliardi di tonnellate di carbonio organico, che costituiscono mediamente circa il 60 per cento della sostanza organica, a sua volta equivalente a quasi 50 volte le nostre emissioni annuali di gas serra (Figura 1).

 

Figura 1. La mappa mostra il contenuto di carbonio organico nei terreni agricoli dell’Ue (nel 2012)

 

Su questo punto, l’Accordo di Parigi del 2015 prevede di incrementare del 4 per mille lo stock di carbonio nei terreni agrari mentre l’Agenda 2030 fissa l’obiettivo Land Degradation Neutrality, in virtù del quale tutti i paesi aderenti all’iniziativa sono chiamati a non aumentare il consumo e/o il degrado di suolo. Il target 15.3 dell’Agenda, in particolare, sollecita poi gli stessi paesi aderenti all’Agenda 2030, a combattere la desertificazione, a ripristinare i suoli deteriorati, compresi i terreni colpiti da siccità e inondazioni, e a raggiungere uno stato di neutralità nella degradazione del suolo entro il 2030. Sulla scia di quanto stabilito in sede internazionale, anche in Italia, molte regioni hanno legiferato per salvaguardare il suolo, tenuto conto che ancora oggi manca nel nostro Paese una legge nazionale sul contenimento del consumo di suolo, sebbene in discussione dal 2012. Nonostante i numerosi richiami della comunità scientifica, il ruolo del suolo è spesso sottovalutato se non addirittura scarsamente considerato rispetto alla sua straordinaria funzione di “infrastruttura” naturale per il mantenimento della qualità ambientale del territorio e della biodiversità animale e vegetale. Il rapporto ISPRA 2019 conferma questa realtà: in Italia si consumano ogni giorno 15 ettari di suolo e, dagli anni ’50 del Novecento a oggi, siamo passati da una percentuale di territorio urbanizzato del 2,7 per cento a una superiore all 7 per cento, cioè non meno di ulteriori 21 mila chilometri quadrati di territorio urbanizzato nel 2018 (Figura 2). Più in dettaglio, gran parte del consumo di suolo (circa il 40 per cento) si è avuta per lo sviluppo di infrastrutture di trasporto (strade, autostrade, ferrovie, ecc.). Gli edifici concorrono per il 30 cento, di cui il 2,5 per cento di suolo consumato per costruire edifici nelle aree urbane; il resto è costituito da parcheggi, piazze, discariche, cave estrattive, serre e impianti fotovoltaici nelle aree agricole.

 

Figura 2. Relazione tra suolo consumato (2018) e consumo di suolo annuale netto tra il 2017 e il 2018 per regione (Rapporto ISPRA, 2019)

 

Evitare il consumo indiscriminato di suolo è prioritario per proteggere la qualità del territorio e del paesaggio, il patrimonio faunistico e floreale, oltre che per la rigenerazione delle città, la mitigazione del cambiamento climatico e, soprattutto, per garantire il benessere ai cittadini.


Per approfondire:

  • Peter M. Kopittke et al. Soil and the intensification of agriculture for global food security. Environment International. Volume 132, November 2019, 105078.
  • Rosario Pavia. Tra suolo e clima. Saggine, Donzelli editore. 2019.
  • Nel libro "Governare i beni comuni", Elinor  Ostrom, Premio Nobel nel 2009 per l’economia, dimostra come le proprietà comuni siano spesso saccheggiate in accordo con le stesse stesse leggi di mercato (…). Gli studi di Elinor Ostrom costituiscono uno strumento teorico per la protezione delle istituzioni collettive sviluppate nel corso dei secoli dai popoli per la gestione sostenibile e il mantenimento delle risorse collettive in contrapposizione con le tesi, riportate nell’articolo “The Tragedy of Commons” (1968) di Garret Hardin, secondo cui solo la privatizzazione della terra e dell’acqua e la loro gestione da parte del mercato avrebbe potuto garantirne un uso corretto e la conservazione nel lungo periodo (…).

 

Nota:

Un trilione  equivale a un milione di bilioni, cioè un miliardo di miliardi (Wikipedia).

Cop25

La COP25 chiude senza accordo sulle emissioni. Ecco tutte le decisioni rinviate al prossimo anno

Alle parole non sono seguiti i fatti e quasi tutte le decisioni sono state rinviate al prossimo anno. A mancare, anche questa volta, è stata la volontà politica di alcuni paesi di agire contro il cambiamento climatico. Durante i negoziati la Camera dei deputati ha approvato una mozione che impegna il nostro governo a dichiarare l’emergenza climatica. 


Molte ambizioni e poche decisioni

Non sono stati sufficienti i numerosi rapporti scientifici – primo fra tutti lo Special Report dell’Ipcc pubblicato a ottobre 2018 – che sottolineano l’urgenza di adottare misure per contrastare il cambiamento climatico. Né tantomeno l’appello dei giovani che nell’ultimo anno, sotto la guida della giovane attivista per il clima Greta Thunberg, scelta pochi giorni fa dal Time come “Persona dell’anno” 2019, sono scesi in piazza per dire che non c’è più tempo per salvare il nostro pianeta. Così come non è servito neppure prorogare di due giorni i lavori dell’ennesima Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (COP25), che è stata la più lunga di sempre. Alle parole non sono seguiti i fatti e anche quest’ultima conferenza si è chiusa in nulla di fatto, rinviando tutte le decisioni più importanti al prossimo anno. Nel corso dei negoziati, presieduti dal Cile, ma organizzati per motivi logistici a Madrid, i paesi del Pacifico, tra i più vulnerabili agli effetti del cambiamento climatico, hanno insistito sulla necessità di sottoscrivere promesse più ambiziose per il prossimo anno, che implementassero gli impegni assunti in precedenza e prendessero atto delle mobilitazioni della società civile, ma Cina e Brasile hanno fatto muro, imponendo che qualsiasi decisione finale spetterà ai singoli paesi i quali, peraltro, dovranno limitarsi a “comunicare” (senza vincoli) le proprie scelte. L’Unione europea si è schierata con la “coalizione del Pacifico”, capitanata dalle Isole Marshall, e alla fine un accordo, sebbene insoddisfacente, si è trovato. Tutti i nuovi impegni dovranno rappresentare un “progresso” rispetto ai precedenti e puntare a ridurre il divario tra le misure effettivamente messe in campo per contrastare il cambiamento climatico e quelle necessarie a raggiungere l’obiettivo dell’Accordo di Parigi, che prevede di contenere l’aumento della temperatura globale entro i 2 °C – con volontà di contenerlo entro gli 1,5 °C (rispetto al periodo preindustriale) al 2100. La Commissione europea ha comunque presentato un pacchetto di provvedimenti per l’ambiente e lo sviluppo sostenibile dell’Unione, ribattezzato Green new deal per sottolineare le ambiziose misure in esso contenute, che punta a ridurre le emissioni di gas serra del 55 per cento entro il 2030, raggiungendo la cosiddetta “neutralità climatica”, ovvero emissioni nette zero, entro il 2050.

 

Greta Thunberg prende la parola alla COP25 (foto: https://www.eco-business.com/)

 

Tanti i nodi rimasti da sciogliere

Uno dei punti maggiormente discussi alla COP25 è stato quello sui cosiddetti Nationally determined contributions (Ndc), ovvero le promesse di riduzione delle emissioni di gas serra avanzate dai paesi che hanno sottoscritto l’Accordo di Parigi nel 2015 e che i calcoli sinora effettuati hanno dimostrato essere insufficienti per centrare gli obiettivi fissati. Infatti, proseguendo al ritmo attuale, si assisterà ad un aumento della temperatura globale che supererà 2 °C auspicati, raggiungendo i 3,2 – 3,5 °C entro la fine del secolo. Nonostante le preoccupanti previsioni degli scienziati, alcuni paesi, in particolare Cina, India, Brasile e Sudafrica hanno dichiarato durante i negoziati che hanno fatto già “il massimo possibile in termini di ambizione climatica”. Ciò significa che questi quattro paesi – due dei quali, Cina e India, sono responsabili di oltre un terzo delle emissioni globali di CO2 – non hanno intenzione di proporre nuovi Ndc. Alla poca volontà di questi paesi si aggiunge poi il disimpegno degli Stati Uniti, la cui uscita ufficiale dall’Accordo di Parigi, annunciata due anni fa dall’amministrazione Trump, è prevista per il prossimo anno. In questa situazione, senza l’impegno dei paesi che si stanno tirando indietro nella sfida climatica, in primo luogo Stati Uniti, Cina, India e Brasile, risulterà estremamente difficile centrare gli obiettivi che la comunità internazionale si diede nel 2015 sottoscrivendo l’Accordo di Parigi. Sul fronte degli Ndc, però, una notizia positiva c’è: durante i negoziati di Madrid circa 80 paesi – tra i quali sinora non compare il nostro, sebbene il ministro dell’Ambiente Sergio Costa abbia annunciato che presto aderirà anche l’Italia – si sono impegnati a presentare nuovi obiettivi in termini di riduzione delle emissioni di CO2. La notizia negativa, però, è che questi paesi pesano “solo” per il 10 per cento in termini di emissioni a livello globale, perciò il loro contributo non sarà nullo, ma inevitabilmente marginale.

Altro punto che ha fatto assai discutere in quest’ultima conferenza sul clima è stato l’articolo 6 dell’Accordo di Parigi, quello che riguarda la regolazione globale del mercato del carbonio, sul quale i governi non hanno trovato un accordo, rinviando la decisione alla prossima sessione dell’Unfccc (Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici), che si terrà il prossimo giugno a Bonn. L’articolo prevede la sostituzione, a partire dal 2020,  dell’attuale sistema del mercato del carbonio, il Clean Development Mechanism (CDM), stabilito nel 1997 nel Protocollo di Kyoto, con un nuovo sistema, il Sustainable Development Mechanism (SDM), più vicino agli obiettivi dell’Accordo di Parigi. Entrambi permettono a paesi e imprese di ridurre le proprie emissioni di CO2 acquistando compensazioni da progetti realizzati altrove. Tuttavia, il CDM non contempla la tutela delle comunità locali e per questo motivo è stato più volte criticato per l’approvazione di progetti di compensazione che non hanno mai visto la consultazione delle popolazioni autoctone alle quali hanno causato danni, spesso pesanti. Allo stesso modo, poiché neanche nella COP25 si è trovato un accordo sull’articolo 6, per ora, nessuna tutela dei diritti delle popolazioni indigene potrà essere garantita. In compenso, è stata accolta positivamente l’istituzione di un tavolo tecnico per una Piattaforma delle Comunità Locali e Indigene, che curi gli interessi delle popolazioni che abitano nei paesi più colpiti dalla crisi climatica. E qualche passi in avanti è stato fatto anche sul fronte dei diritti umani. Nel corso dei negoziati è stato creato un piano quinquennale di contrasto alla discriminazione di genere nelle questioni climatiche, il Gender Action Plan, la cui partecipazione degli Stati rimane, tuttavia, su base volontaria. Infatti, secondo i dati delle Nazioni Unite, spesso sono le donne i soggetti maggiormente esposti alla conseguenze negative del cambiamento climatico.

Altro punto sul quale è mancato l’accordo dei governi è stato quello relativo al meccanismo di loss and damage, istituito a conclusione della COP19 di Varsavia nel 2013 e la cui revisione (che non c’è stata) era prevista proprio a Madrid, che prevede di migliorare gli approcci e la gestione dei rischi per affrontare le perdite e i danni connessi a eventi meteorologici estremi, sostenendo economicamente i paesi più vulnerabili. Questi ultimi chiedono, in particolare, 50 miliardi di dollari all’anno fino al 2022, che si vanno ad aggiungere ai 100 miliardi all’anno previsti dall’Accordo di Parigi fino al 2020, da estendere – questi ultimi – per altri cinque anni, fino al 2025. Tuttavia, gli Stati Uniti, che pure sono in procinto di uscire dall’Accordo, hanno ostacolato ogni confronto su questo punto, ignorando le richieste dei paesi più esposti alla minaccia climatica.

 

Donne sud-sudanesi trasportano l'acqua (foto: www.fao.org)

 

L’Italia dichiara l’emergenza climatica

Dopo un anno di Fridays for future, settimane di maltempo che hanno colpito il nostro Paese e nel giorno in cui la nuova presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen ha presentato al Parlamento europeo il Green new deal, la Camera dei deputati ha approvato una mozione che impegna il nostro governo a dichiarare l’emergenza climatica – come già fatto da molti Stati, regioni, amministrazioni comunali e dalla stessa Ue – e ad affrontarla con misure adeguate. La mozione impegna il governo a rafforzare il Piano energia e clima, che ha come obiettivi la decarbonizzazione, lo sviluppo dell’efficienza energetica, della ricerca e dell’innovazione tecnologica, in linea con quanto stabilito dall’Accordo di Parigi. L’atto impegna poi il governo a tagliare gradualmente i sussidi dannosi per l’ambiente, a realizzare un piano strutturale di messa in sicurezza del territorio per adattare il nostro Paese ai rischi connessi con il cambiamento climatico. Il governo dovrà inoltre lavorare per l’inserimento in Costituzione del principio dello sviluppo sostenibile e per rendere operativa la Cabina di regia Benessere Italia, cioè l’organo di supporto tecnico-scientifico alle politiche del benessere e alla valutazione della qualità di vita dei cittadini. Il governo è infine chiamato a mettere in campo un programma di investimenti pubblici orientato alla sostenibilità ambientale, che coinvolga i principali settori produttivi, sostenendo l’obiettivo europeo della carbon neutrality entro il 2050 e promuovendo l’economia circolare.