Avanti con la transizione verde e lo sviluppo sostenibile, ma attenzione al greenwashing

Di Alessandro Campiotti


La crescente attenzione verso modelli di sviluppo rispettosi dell’ambiente da parte di importanti settori della società ha spesso favorito pratiche di comunicazione ingannevole, dando luogo al fenomeno del
greenwashing

Negli ultimi anni il termine “sostenibilità” è entrato progressivamente a far parte del linguaggio comune delle persone, perdendo l’iniziale valenza accademica e assumendo un’accezione poliedrica e di facile utilizzo da parte di istituzioni, operatori commerciali, media tradizionali e nuove forme di comunicazione. Un così abbondante ricorso a questo concetto, nel tempo, ne ha destrutturato il significato originario e lo ha reso adattabile ai più diversi contesti, fino a dare adito, in alcuni casi, ad interpretazioni fuorvianti. È il caso del greenwashing, neologismo inglese che in italiano può essere tradotto come “ecologismo di facciata”, che definisce il fenomeno della comunicazione ingannevole nei confronti di utenti e consumatori riguardo alle prestazioni ecologiche di un’azienda e ai benefici ambientali di un prodotto o un servizio, che in determinate circostanze può dare luogo a vere e proprie frodi commerciali.

Il concetto di sostenibilità, negli anni ’70 relegato alla letteratura scientifica, dalla fine degli anni ’80 ha assunto una connotazione politica su spinta delle Nazioni Unite (ONU), che, con la pubblicazione del Rapporto Brundtland del 1987 dal titolo “Our Common Future” (Il Futuro di tutti Noi), hanno introdotto per la prima volta il concetto di sviluppo sostenibile, definendolo come “quello sviluppo che consente alla generazione presente di soddisfare i propri bisogni senza compromettere la possibilità delle generazioni future di soddisfare i propri”. Da quel momento, e gradualmente nei decenni a seguire, numerosi paesi hanno recepito l’idea di sostenibilità nell’ambito delle proprie politiche industriali, ambientali, sociali e di sviluppo economico. A questo proposito, nel 2015, l’ONU ha lanciato l’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile, caratterizzata da 17 obiettivi e 169 target da realizzare entro il 2030, che toccano le più diverse sfide globali, come lavoro, disuguaglianze, povertà, energia, ambiente, salute, istruzione e cambiamento climatico.

Un tale interesse da parte delle istituzioni si è tradotto in un maggior dibattito interno ai singoli stati, che ha reso l’opinione pubblica più consapevole e attenta al tema della sostenibilità – ambientale, economica, sociale – e di conseguenza ha stimolato le imprese a rimodulare la propria azione sotto il profilo della produzione, delle strategie di progettazione e del marketing. Tuttavia, questa transizione verso modelli di sviluppo più rispettosi dell’ambiente, generalmente definita “green” (verde), non sempre rispecchia un effettivo cambiamento in senso ecologico delle filiere produttive, ma in alcuni casi si limita ad essere un’operazione di maquillage (trucco) comunicativo per intercettare quel 65% di consumatori globali disposti a pagare prezzi superiori per prodotti ecosostenibili. A coniare il termine greenwashing, descrivendo per la prima volta questo fenomeno di comunicazione ingannevole, fu l’ambientalista americano Jay Westervelt nel 1986 con la pubblicazione di un saggio incentrato sul settore dell’ospitalità, in cui esaminava le pratiche promozionali, non sempre veritiere, messe in atto dagli hotel. Da allora il greenwashing è diventato un fenomeno crescente nel tempo, e come tale è stato oggetto di attenzione da parte del mondo della ricerca e dell’informazione, così come da parte di governi e autorità internazionali, che si sono attivati per stendere le basi di una regolamentazione a tutela di imprese virtuose e consumatori.

L’avvento delle nuove forme di comunicazione, in primis siti web e social network, ha ampliato enormemente i canali attraverso cui trasmettere informazioni secondo la tecnica della divulgazione selettiva, cioè rivestendo i messaggi pubblicitari di elementi e colori evocativi della natura, e omettendo al tempo stesso eventuali informazioni relative alle prestazioni poco ecologiche dell’impresa o del prodotto. I principali metodi di comunicazione ingannevole sono descritti dai cosiddetti “sette peccati del greenwashing”, che comprendono la mancanza di prove, la vaghezza del messaggio, la falsa etichetta, l’irrilevanza e la mendacità delle informazioni riportate o una combinazione di questi fattori. I rischi di una tale mistificazione del messaggio ricadono principalmente su consumatori, operatori del mercato e della finanza, che tendono gradualmente a sviluppare uno scetticismo nei confronti del concetto di sviluppo sostenibile e di conseguenza smettono di indirizzare attenzione e capitali su imprese e progetti autenticamente green.

Per contrastare tale fenomeno, lo scorso 6 marzo 2024 il Parlamento europeo ha ratificato la nuova direttiva 2024/825/UE contro il greenwashing che definisce un elenco dettagliato di pratiche commerciali da ritenere sempre sleali in quanto ingannevoli o aggressive nei confronti dei consumatori. La nuova normativa, che entrerà in vigore dal settembre del 2026, fornisce agli Stati membri della UE indicazioni in merito a controlli e verifiche da svolgere nei confronti delle dichiarazioni di prestazione ambientale presentate dalle imprese. Tuttavia, non va sottovalutata l’azione di sensibilizzazione e informazione dei consumatori, affinché possano identificare autonomamente spot, pubblicità e dichiarazioni ingannevoli.

Per approfondire:
Banca d’Italia, L’economia per tutti, Che cos’è il greenwashing (e come ci inganna), 2023,
https://economiapertutti.bancaditalia.it/notizie/che-cos-il-greenwashing-e-come-ci-inganna/?dotcache=refresh&dotcache=refresh.

Freitas Netto, S.V., Sobral, M.F.F., Ribeiro, A.R.B. et al. Concepts and forms of greenwashing: a systematic review. Environ Sci Eur 32, 19 (2020). https://doi.org/10.1186/s12302-020-0300-3

Gazzetta ufficiale dell’Unione europea, DIRETTIVA (UE) 2024/825 DEL PARLAMENTO EUROPEO E DEL CONSIGLIO, https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/PDF/?uri=OJ:L_202400825

Yildirim, S. (2023), “Greenwashing: a rapid escape from sustainability or a slow transition?”, LBS Journal of Management & Research, Vol. 21 No. 1, pp. 53-63. https://doi.org/10.1108/LBSJMR-11-2022-0077

United Nations (ONU), Report of the World Commission on Environment and Development,
Our Common Future , 1987, https://www.are.admin.ch/are/it/home/media-e-pubblicazioni/pubblicazioni/sviluppo-sostenibile/brundtland-report.html

https://environment.ec.europa.eu/topics/circular-economy/eu-ecolabel/community-and-helpdesk_en

https://environment.ec.europa.eu/system/files/2022-07/EUEcolabel_LogoGuidelines_2022.pdf
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Foto di intestazione: Ecolabel UE è il marchio di qualità ecologica dell’Unione Europea che contraddistingue prodotti e servizi che, pur garantendo elevati standard prestazionali, sono caratterizzati da un ridotto impatto ambientale durante l’intero ciclo di vita (https://www.mase.gov.it/pagina/ecolabel-ue).



Spreco alimentare, un fenomeno ancora troppo diffuso


Di Alessandro Campiotti


Sebbene un terzo della popolazione mondiale sia soggetta al pericolo dell’insicurezza alimentare, ogni anno circa un terzo del cibo prodotto viene sprecato, sollevando una serie di questioni dal punto di vista etico, economico, sociale e ambientale.

Foto di Alessandro Campiotti

Ogni anno nel mondo si spreca circa un terzo del cibo prodotto, pari ad oltre un miliardo di tonnellate lungo l’intera filiera alimentare, che va dal campo alla tavola. Di questa enorme quantità, il 13% viene perso ancora prima di raggiungere il consumatore finale, durante le fasi di produzione, lavorazione, conservazione e distribuzione, mentre un altro 19% viene sprecato nelle fasi di vendita e consumo. A detenere il primato nella classifica dello spreco sono le famiglie con il 60%, mentre i settori della ristorazione e della vendita al dettaglio sono responsabili rispettivamente del 28% e del 12%. Nei paesi dell’Unione europea (UE) la situazione non risulta migliore, infatti lo spreco alimentare annuo supera i 59 milioni di tonnellate (circa 75 chili per ogni persona), equivalenti ad un valore di mercato stimato in 132 miliardi di euro. Questa realtà, apparentemente surreale, si presta a considerazioni di ordine etico, economico, sociale e ambientale.

Purtroppo, i più recenti rapporti internazionali in materia di crisi alimentari concordano sul fatto che la situazione globale sia in continuo peggioramento, dal momento che ancora oggi circa 800 milioni di persone nel mondo soffrono di fame acuta, mentre un terzo della popolazione globale è soggetta al pericolo dell’insicurezza alimentare. Le cause sono legate a fattori molto distinti tra loro, come gli eventi meteorologici estremi sempre più frequenti (in particolare alluvioni e siccità), la manifestazione di specie di parassiti e patogeni vegetali alieni, spesso devastanti per le colture agrarie, fino ad arrivare a guerre e conflitti armati, che accentuano crisi economiche, disuguaglianze e migrazioni di massa. Inoltre, va ricordato che i numeri relativi allo spreco di cibo fotografano solo parzialmente la gravità della situazione, in quanto non tengono conto di tutte le risorse necessarie alla produzione degli alimenti, come suolo, acqua, energia, trasporti, manodopera e capitali investiti. Se poi si considera che la gran parte del cibo sprecato finisce in discarica, dove viene smaltito sotto forma di rifiuto urbano, si giunge alla conclusione che l’attuale sistema alimentare risulta poco sostenibile anche dal punto di vista dell’impatto ambientale, dal momento che nella sola UE è responsabile del 16% delle emissioni di gas serra in atmosfera.

Ma quali sono le cause alla base di tanto spreco da parte di famiglie, ristoranti e supermercati? I fattori in gioco sono numerosi e riguardano in primo luogo le abitudini delle persone, che, dettate da una certa componente psicologica, tendono ad acquistare prodotti alimentari spesso in eccesso perché indotti dal marketing che promuove offerte apparentemente molto vantaggiose. A questo si aggiunge un problema di scarsa informazione sulle conseguenze negative che comporta lo spreco del cibo, che spesso induce le persone a scartare prodotti perfettamente commestibili per non aver compreso il significato di un’etichetta o perché non completamente soddisfatte dall’aspetto estetico. Per contrastare il fenomeno dello spreco alimentare, l’UE è impegnata nel perseguimento del Target 12.3 dell’Agenda per lo Sviluppo Sostenibile, che prevede la riduzione del 50% dello spreco pro capite a livello globale entro il 2030. A questo proposito, gli stati membri dell’UE sono tenuti a rispettare il Codice di condotta sulle pratiche commerciali e di marketing nella filiera alimentare, entrato in vigore nel 2021 per agire a livello di prevenzione. Tra le principali misure del Target 12.3, c’è il riconoscimento di incentivi economici e fiscali agli operatori commerciali che si incaricano di donare il cibo in eccesso a soggetti deputati alla redistribuzione, come le banche alimentari, e allo stesso modo viene riconosciuta l’azione di quei produttori che agiscono in un’ottica di economia circolare, dando nuova vita ai prodotti non immessi sul mercato tramite la trasformazione in mangimi animali, fertilizzanti organici per il terreno e produzione di bioenergie. Per favorire questo processo, sarebbe utile organizzare campagne di sensibilizzazione per informare le persone sul tema e migliorare la loro percezione del valore del cibo, ricorrendo ad esempi concreti che dimostrino come l’azione virtuosa del singolo si traduca nel tempo anche in un risparmio economico per le famiglie e per l’intera comunità. A questo proposito, nel 2019 l’Assemblea delle Nazioni Unite ha istituito la Giornata mondiale di consapevolezza delle perdite e degli sprechi alimentari, che ricorre il 29 settembre di ogni anno con l’obiettivo di far luce su un tema assai gravoso ma ancora troppo poco considerato.

Per approfondire:

Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile (ASviS), l’Agenda 2030 dell’Onu e gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile, 2020, https://asvis.it/public/asvis2/files/Pubblicazioni/Fatti_%26_Cifre_2020.pdf;

European Commission, Food waste, https://food.ec.europa.eu/food-safety/food-waste_en;

Global Network Against Food Crises (GNAFC), Global Report on Food Crises 2024, https://azionecontrolafame.it/news/rapporto-sofi-2024/;

United Nations, International Day of Awareness on Food Loss and Waste Reduction 29 September, https://www.un.org/en/observances/end-food-waste-day.

Il ruolo dell’economia circolare nel Green Deal europeo

di Alessandro Campiotti

Dal palco di Ecomondo 2024, tradizionale kermesse tenutasi dal 4 al 7 novembre a Rimini, è stata ribadita l’importanza di una transizione verso un’economia che sia sostenibile nel tempo, quindi decarbonizzata, circolare e rispettosa della natura.

@Fiera di Rimini

Si è da poco conclusa la 28° edizione di Ecomondo, l’evento annuale ospitato alla Fiera di Rimini che coinvolge i diversi stakeholder che operano nei settori della green and circular economy. Numerosi esponenti del panorama politico, industriale, scientifico e giornalistico hanno avuto l’occasione di incontrarsi e confrontarsi sulle strategie di sviluppo della politica ambientale dell’Unione europea (UE), per fare il punto sugli obiettivi raggiunti in materia di transizione ecologica e programmare quelli da perseguire nei prossimi anni. Il fitto programma di convegni, interviste e tavole rotonde ha consentito di toccare e approfondire i più diversi argomenti legati al tema della sostenibilità ambientale: dalla sfida climatica alle prospettive della nuova legislatura europea, dalla gestione dei rifiuti urbani alla qualità dell’aria, dalla circolarità delle imprese al ripristino della natura. Nell’ambito dell’evento, hanno avuto luogo gli Stati Generali della green economy, dove è stata presentata la Relazione sullo Stato della Green Economy 2024, curata da Edo Ronchi, già ministro dell’ambiente e attualmente presidente della Fondazione per lo Sviluppo Sostenibile. Durante il suo intervento, Ronchi ha elencato i risultati finora raggiunti dal Green Deal europeo, l’ambizioso piano finanziato con oltre 600 miliardi di euro, che comprende un pacchetto di misure in materia di clima, energia e trasporti, finalizzato a ridurre le emissioni di gas climalteranti del 55% entro il 2030 rispetto ai livelli del 1990, per raggiungere la neutralità climatica, ovvero l’azzeramento delle emissioni nette, entro il 2050. Affinché il Green Deal favorisca la transizione verso un’economia sostenibile nel tempo, cioè decarbonizzata, circolare e rispettosa della natura, ha sottolineato Ronchi, è necessario correggere quanto prima eventuali errori di programmazione e affrontare interessi e visioni consolidate che possono rivelarsi un ostacolo alla buona riuscita del Piano.

Secondo la Relazione sullo Stato della Green Economy, che analizza i punti cardine del Green Deal sotto il profilo italiano e internazionale, dal 1990 al 2023 l’Italia ha ridotto le emissioni di gas a effetto serra del 25% rispetto alla media europea del 31%. Questo processo di decarbonizzazione è dovuto all’impegno assunto da alcuni dei settori industriali più energivori, che solo nel 2023 ha determinato in Italia un taglio delle emissioni pari al 6%. Entrando più nel dettaglio, i settori dell’edilizia e dell’industria, responsabili rispettivamente del 40% e del 21% del consumo di energia, hanno effettuato tagli del 5,5% e del 6% in un anno; al contrario, il settore dei trasporti, responsabile del 35% dei consumi, ha registrato un aumento del 2,2%. In Italia, infatti, nel 2023 sono stati raggiunti 41 milioni di veicoli circolanti, cioè 694 ogni 1000 abitanti, rispetto ad una media europea di 520, con un sostanziale peggioramento della vivibilità delle città a causa del traffico eccessivo e dell’inquinamento atmosferico, a cui bisogna far fronte potenziando il trasporto pubblico e aumentando il ricorso ai biocarburanti. Allo stesso tempo, risulta prioritario contrastare il consumo mondiale di risorse (minerali, metalli, biomasse e combustibili fossili), che dal 1950 al 2023 è aumentato da 12 a 106 miliardi di tonnellate, determinando serie conseguenze sull’ambiente e sul clima.

A questo proposito, uno dei pilastri strategici del Green Deal prevede il potenziamento del livello di circolarità dell’economia europea, mediante una serie di interventi che mirano a progettare i prodotti in modo che risultino più duraturi, riparabili e riciclabili nel tempo. Questa logica di progettazione ecocompatibile interessa alcuni tra i principali settori produttivi – industria, edilizia, trasporti – e allo stesso tempo punta a migliorare la gestione dei rifiuti urbani e speciali, il cui tasso di riciclo in Italia ha raggiunto il 72% nel 2020, superiore alla media europea del 58%. In questo contesto, sottolinea ancora la Relazione, occorre rafforzare il ruolo delle imprese nel Green Deal, garantendo l’accesso alle tecnologie a zero emissioni nette tramite il Regolamento Net-zero Industry Act e sostenendo a livello finanziario le imprese che si impegnano nella decarbonizzazione dei processi produttivi e nell’attuazione di pratiche ecologiche e circolari, come prevede il Clean Insdustrial Deal. Per questi motivi, l’UE ha introdotto la rendicontazione societaria di sostenibilità (CSRD), secondo cui le imprese soggette a tale direttiva dovranno fornire informazioni in merito alle performance di circolarità delle diverse fasi della produzione. Inoltre, per monitorare la risposta del mondo produttivo sotto il profilo della comunicazione, nel 2024 è stata approvata la Direttiva comunitaria contro il greenwashing per contrastare le pratiche commerciali ingannevoli in tema di sostenibilità ambientale.

Per approfondire:

Direttiva 2024/825 del Parlamento europeo e del Consiglio del 28 febbraio 2024 che modifica le direttive 2005/29/Ce e 2011/83/Ue per quanto riguarda la responsabilizzazione dei consumatori per la transizione verde mediante il miglioramento della tutela dalle pratiche sleali e dell’informazione.

Fondazione per lo sviluppo sostenibile, RELAZIONE SULLO STATO DELLA GREEN ECONOMY – 2024, https://www.statigenerali.org/wp-content/uploads/2024/10/Relazione-sullo-stato-della-green-economy-in-Italia-2024.pdf

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