Cambiare l’uso del suolo per sfamare tutti in modo sostenibile

Un articolo di Sofia Belardinelli pubblicato il 6 novembre 2023 su Il Bo Live dell’Università di Padova

Entro pochi decenni, la popolazione umana mondiale potrebbe raggiungere i 10 miliardi. Per sfamare un tale numero di persone, anche la produzione di cibo dovrà aumentare in modo esponenziale. Ci troviamo, tuttavia, su un pianeta finito, che può offrire una quantità limitata di risorse. Molte di queste, inoltre, non sono rinnovabili (se non in un ordine temporale ben superiore a quello umano), e la loro disponibilità è già oggi sensibilmente ridotta.

La produzione di cibo dipende dai servizi ecosistemici, funzioni insostituibili garantite da ecosistemi naturali in buona salute. La presenza di acqua pulita, la biodiversità, lo stoccaggio di carbonio, la fertilità dei suoli sono alcuni dei servizi ecosistemici essenziali perché qualsiasi forma di produzione alimentare sia possibile.

La crisi ambientale in atto (costituita da cambiamento climatico, perdita di biodiversità, inquinamento e degradazione del suolo, nonché dalle interazioni tra questi fattori) costituisce un grave rischio per la sicurezza alimentare in tutto il mondo. Il venir meno di una variabilità climatica stagionale relativamente stabile e la perdita di funzionalità degli ecosistemi sono solo due tra i numerosi fattori che contribuiranno, nei prossimi decenni, alla riduzione della produttività dei terreni in tutto il mondo.

Al tempo stesso – e qui la paradossalità della crisi ambientale si mostra in tutta la sua evidenza – proprio il settore alimentare contribuisce in modo sostanziale ad aggravare la crisi. In un rapporto intitolato “Climate change and land” (2019), l’IPCC ha calcolato che, tenendo conto di tutte le fasi della produzione alimentare, dalla coltivazione alla trasformazione al trasporto, il comparto agricolo causa circa un quarto del totale mondiale annuo di emissioni di gas climalteranti. Il cambiamento dell’uso dei suoli (ad esempio, la trasformazione di un’area boschiva in pascolo) rappresenta un concreto rischio per il mantenimento della diversità biologica ed ecologica. Infine, la progressiva adozione di tecniche più moderne ha comportato l’utilizzo sempre più massiccio di sostanze chimiche, il cui accumulo negli ambienti terrestri e marini ha causato una vera e propria crisi di inquinamento.

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Foto da Il Bo Live - unipd

“Il Bo live”. Litio, terre rare e cobalto: tre minerali critici

Un articolo di di Francesco Suman pubblicato su "Il Bo Live" dell'Università di Padova 


La lista dei minerali considerati critici dall’Europa viene aggiornata ogni tre anni. In quella del 2023 se ne contano 34, anche se alcuni come le terre rare o i metalli del gruppo del platino sono, per l’appunto, raggruppamenti di più materiali.
La lista non è una mappatura scientifica dell’abbondanza di alcuni elementi della tavola periodica nella crosta terrestre, ma piuttosto una valutazione geopolitica della loro reperibilità sul mercato, presente e futura. I criteri con cui viene stabilito se un materiale è critico si possono trovare in uno studio approfondito allegato alla proposta della Commissione, il Critical Raw Materials Act, ma sono sostanzialmente tre: il rischio di interruzione dell’approvvigionamento, la rilevanza per l’industria europea, la scarsa sostituibilità.

Rispetto a quella precedente del 2020, la nuova lista presenta delle new entries, come l’arsenico, usato in metallurgia e nei semi-conduttori, il feldspato, impiegato per produrre vetro e ceramica, e il manganese, cruciale componente delle batterie. Altri sono dei ritorni, come quello dell’elio, che serve alla criogenia, oltre che ai semi-conduttori, e che era stato incluso nella lista del 2017 ma non in quella del 2020.
Alcuni minerali sono stati inseriti nella lista nonostante non incontrino tutti i criteri di criticità, ma perché ugualmente considerati strategici. È il caso del rame, alla base di ogni rete elettrica, e del nickel, presente ad esempio nei poli delle batterie al litio.
Altre ancora invece sono delle conferme, come quelle di litio, terre rare e cobalto, ingredienti protagonisti, per diverse ragioni, delle tecnologie essenziali sia alla transizione energetica sia a quella digitale.

Eccoli in dettaglio:

Litio

Il litio è alla base di tutte le batterie ricaricabili più diffuse, dagli smartphone ai veicoli elettrici, ed è stato aggiunto alla lista dei minerali critici per la prima volta nel 2020.

Secondo la BP Statistical Review of World Energy (che unisce dati dello US e dello UK Geological Survey e del World Mining Data), nel 2021 sono state prodotte nel mondo circa 106.000 tonnellate di litio. Il Cile ne detiene le maggiori riserve (9,2 milioni di tonnellate) ed è il secondo produttore al mondo con 26.000 tonnellate, circa un quarto del totale.
L’Australia invece, seconda per riserve (5,7 Mt), è il primo produttore con 55.000 tonnellate, più della metà del totale globale. La Cina, con 14.000 tonnellate, è la terza produttrice, mentre è quarta per riserve, con 1,5 Mt, dietro all’Argentina che ha 2,2 Mt ma ne produce solo 6.000 l’anno.
Altri giacimenti, stimati sotto il milione di tonnellate, si trovano negli Stati Uniti (0,75 Mt), in Zimbabwe (0,2 Mt), in Brasile (0,1 Mt) e in Portogallo (0,06 Mt). Altri depositi di litio, per un totale di mezzo milione di tonnellate, sono distribuiti nel resto del mondo.
Recentemente anche l’Iran e l’India hanno annunciato la scoperta di grandi giacimenti di litio, rispettivamente di 8,5 Mt e quasi 6 Mt. Tuttavia non sarà semplice sfruttarli nel breve termine, poiché l’estrazione richiede tempo.

Esistono diversi metodi per estrarre il litio, poiché può essere contenuto o in rocce, come in Australia, o in laghi salmastri sotterranei detti salar, spagnolo per salina. L’estrazione dalle saline richiede un elevato consumo di acqua (si stima 500.000 galloni per tonnellata di litio), che spesso entra in conflitto con la domanda idrica degli agricoltori, come accade ad esempio nel Salar de Atacama, in Cile. Inoltre, il processo di filtraggio produce diverse sostanze tossiche e inquinanti.
Oggi l’Europa importa proprio dal Cile più dei tre quarti del litio che consuma (79%). Oltre al Portogallo, avrebbe giacimenti in Spagna e Repubblica Ceca, ma spesso i progetti di estrazione incontrano le resistenze delle comunità locali.
La disponibilità di questo minerale al momento non è limitata e nuovi giacimenti stanno venendo individuati, tuttavia secondo un rapporto della Agenzia Internazionale dell’Energia la sua domanda, guidata soprattutto dall’espansione del mercato dei veicoli elettrici, entro il 2040 potrebbe crescere di oltre 40 volte rispetto ai livelli attuali. Secondo quanto riporta uno studio della Commissione Europea entro il 2050 lieviterebbe fino a 57 volte. Anche per questo il mondo della ricerca sta lavorando allo sviluppo di sistemi di accumulo alternativi al litio, come le batterie al sodio, considerate tra le più promettenti.

Terre rare

Le cosiddette terre rare sono un insieme di 17 elementi della tavola periodica: 15 hanno numero atomico compreso tra 57 e 71 e sono chiamati lantanoidi, mentre altri due, scandio e ittrio, hanno numero atomico 21 e 39, rispettivamente. Sono tutti accomunati da alcune caratteristiche, quali un magnetismo stabile e una notevole duttilità, che li rende particolarmente adatti la produzione di magneti, con largo impiego nell’industria informatica, energetica e meccanica. Servono ad esempio per le turbine eoliche offshore e per i veicoli elettrici, ma non per la costruzione delle batterie al litio.
A dispetto del nome, non sono elementi così rari sulla crosta terrestre. Tuttavia, la loro lavorazione è concentrata in un solo Paese, la Cina, da cui l’Europa importa la totalità delle terre rare pesanti (una decina di elementi) e l’85% di quelle leggere.
Solo poco più di un terzo (il 35%) delle riserve mondiali ad oggi note si trovano in Cina (si stimano 44 Mt), Paese che però è di gran lunga il dominatore del mercato, con più di due terzi della produzione globale (168.000 tonnellate all’anno). Questo perché è in grado di estrarle e lavorarle a basso costo, senza dare troppo peso all’impatto ambientale, che non è trascurabile.
Recentemente in Svezia è stato scoperto un deposito di terre rare, ma serviranno dai 10 ai 15 anni prima di poterlo sfruttare. Altri depositi si trovano in Brasile (21 Mt), Russia (19 Mt), India (6,9 Mt), Australia (4,4 Mt) e in altri Paesi (per un totale di altri 26 Mt). Il secondo produttore dopo la Cina sono gli Stati Uniti con il 15% della quota globale (43.000 tonnellate l’anno). Sul gradino più basso del podio c’è l’Australia con quasi l’8% della produzione globale (22.000 t).
La IEA stima che la domanda di terre rare crescerà di circa 7 volte per soddisfare la domanda nel 2040. È un aumento notevole, ma non tanto quanto quello atteso per altri minerali come il cobalto, la grafite o il nickel, la cui domanda si stima verrà moltiplicata di circa 20 volte, se la transizione ecologica verrà realizzata in linea con gli impegni che limitino il riscaldamento globale al di sotto dei 2°C. Eventuali interruzioni di forniture delle materie prime comporterebbero un rallentamento della transizione stessa e un aumento dei suoi costi complessivi.

Cobalto

Esistono diversi tipi di batterie al litio. Molte di quelle costruite fino ad oggi impiegano cobalto nel catodo, il polo negativo. Ci sono però anche tecnologie alternative che possono farne a meno, come le batterie al litio-ferro-fosfato, già montate su alcuni veicoli elettrici, o quelle al sodio, che si spera presto saranno disponibili, anche per i sistemi di accumulo delle rinnovabili. Sebbene quindi in alcuni tipi di batterie il cobalto possa venire eliminato, o sostituito dal nickel, con ogni probabilità continuerà a essere presente nelle batterie dei dispositivi più piccoli come smartphone, computer portatili e fotocamere.
Circa 3,5 milioni di tonnellate, la metà delle riserve globali note, si trovano nella Repubblica Democratica del Congo, Paese che domina la produzione mondiale (con 93.000 tonnellate annue, il 70% del totale) e da cui l’Europa importa i due terzi del proprio fabbisogno. Altre 1,4 Mt (circa il 20% delle riserve globali) si trovano in Australia, che però si ferma a poco più del 4% della produzione globale (5.600 t), poco meno di quanto fa la Russia (con 6.500 t).
Nonostante le immense riserve di un minerale che garantisce lo sfruttamento dell’energia elettrica al resto del mondo, solo un cittadino congolese su 10 ha accesso all’energia elettrica e nel 2030 le cose potrebbero non andare diversamente: 6 dei 7 Paesi in cui sarà concentrata la povertà energetica saranno africani e uno di questi sarà proprio il Congo.
Nel 2021, la Cina è arrivata a controllare 15 delle 19 principali miniere congolesi da cui si estrae il cobalto, come prodotto secondario delle miniere di rame. La miniera di Kinsafu ad esempio è recentemente passata dal controllo del colosso minerario statunitense Freeport McMoRan a quello di China Molybdenum. Quella di Tenke Fungurume da sola produce il doppio del cobalto di qualsiasi altro Paese nel mondo e da quando è passata in mani cinesi le incursioni di chi vuole impossessarsi illegalmente del cobalto sono aumentate.
Lo ha rivelato una recente inchiesta del New York Times che denuncia quanto le estrazioni di questo minerale, oltre ad aver storicamente sfruttato il lavoro minorile, abbiano finanziato guerre e conflitti, contribuendo all’instabilità di diversi governi africani. Il cobalto va considerato pertanto non solo un minerale critico, ma un vero e proprio minerale di conflitto.

L’approccio predatorio e colonialista che per tutto il XX secolo, e spesso ancora oggi, ha accompagnato le estrazioni di petrolio (il Congo è anche uno dei 10 maggiori produttori di oro nero dell’Africa) e altre risorse naturali dai Paesi in via di sviluppo non può e non deve venire riprodotto in un mondo, quello della transizione ecologica, che voglia dirsi sostenibile.
È pertanto essenziale costruire una filiera del riciclo che sia in grado di recuperare le materie prime già presenti nei dispositivi e riutilizzarle senza dover dipendere da estrazioni e importazioni da Paesi che la stessa domanda di mercato contribuisce a rendere instabili.
Per realizzare tutto questo occorrono norme, come quella della responsabilità estesa dei produttori, che devono rendere conto di tutto il ciclo di vita di un prodotto che immettono sul mercato. Le regole del gioco devono rendere conveniente al produttore l’approvvigionamento di materie prime dalla filiera del riciclo piuttosto che da un sottosuolo che altrimenti continuerebbe a venire depredato di risorse.

Il petrolio, così come il gas o il carbone, una volta estratti vengono bruciati e non possono venire recuperati. Il litio, il cobalto, la grafite, il nichel, le terre rare, così come il manganese e altri minerali critici invece sì, a patto che la batteria, il dispositivo o la tecnologia in cui sono impiegati siano progettati per rendere possibile il loro recupero. Occorrerà ad esempio impiegare colle che non abbiano come unico obiettivo l’ottimizzazione degli spazi e l’ergonomia del dispositivo, rendendo difficile la separazione dei materiali in fase di riciclo. Magari ne perderà l’estetica dei nostri smartphone, ma questo sì è un costo che vale la pena pagare.

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foto da unipid.it

Il Bo live. Ortoressia nervosa: quando il cibo sano diventa ossessione

Pubblichiamo un interessante articolo di Federica DʹAuria comparso lo scorso 10 marzo su "Il Bo Live" dell'Università di Padova 


Non è un mistero che una dieta bilanciata e ricca di cibi salutari sia funzionale al nostro benessere sia fisico che mentale. Eppure, quando l’alimentazione e il controllo dei pasti diventano un chiodo fisso e influenzano negativamente la salute, l’umore e le abitudini quotidiane di una persona, il rischio è quello di sviluppare un disturbo del comportamento alimentare chiamato ortoressia nervosa. Chi ne soffre, infatti, tende a controllare compulsivamente le dosi e le proprietà nutritive di tutto ciò che ingerisce, evitando ogni alimento che considera insano e preoccupandosi continuamente e in modo eccessivo della qualità del cibo. Purtroppo, trattandosi di un problema emergente e ancora non diagnosticabile secondo criteri univoci, il riconoscimento dell’ortoressia e la presa in carico del paziente che ne soffre non sono sempre semplici. Ne abbiamo parlato in questo episodio di "In Salute" con il professor Stefano Caracciolo, psichiatra, psicoterapeuta e ordinario di psicologia clinica all’università di Ferrara.

“L’ortoressia è un problema comunemente descritto come un disturbo alimentare ma che non trova attualmente una definizione nel DSM-5, il manuale diagnostico e statistico di tutti i disturbi mentali riconosciuto e adottato a livello internazionale”, chiarisce il professor Caracciolo. “Pur trattandosi di una condizione degna di attenzione dal punto di vista clinico che impatta negativamente sulla salute di chi ne soffre, per l’ortoressia – al contrario di altri disturbi alimentari, come ad esempio l’anoressia nervosa – non esistono dei criteri diagnostici precisi che permettano di identificarla con certezza. Inoltre, siccome le persone con ortoressia il più delle volte non si rivolgono ai servizi sanitari (poiché non ritengono di avere un problema di salute) è impossibile raccogliere dati epidemiologici precisi che consentano di valutarne l’incidenza”.

Guarda su You tube l’intervista al professor Stefano Caracciolo sull’ortoressia nervosa. (Montaggio di Barbara Paknazar)

Insomma, non è certamente facile stabilire un confine ben preciso tra uno stile alimentare sano e l’ortoressia nervosa. “Direi che il momento in cui un regime alimentare sano diventa esagerato ed esasperato è quello in cui la persona si ritrova a sperimentare una condizione di sofferenza”, afferma Caracciolo. “La sofferenza in questione deriva dall’impossibilità di alimentarsi al di fuori di una serie di rigidissime regole autoimposte che, come suggerisce la letteratura scientifica, si basano sul controllo ossessivo dei cibi e la ripetizione di certi rituali che accompagnano la preparazione e la consumazione degli alimenti. È chiaro che in situazioni del genere la condizione patologica non deriva più di tanto dagli effetti del cibo sul corpo, bensì dall’impossibilità di uscire da questi rigidi schemi comportamentali”.

Detto questo, come spiega il professor Caracciolo, è difficile stabilire una volta per tutte quali siano quei comportamenti osservabili che permettono di distinguere una persona con ortoressia nervosa da chi invece ha semplicemente a cuore la sua alimentazione perché l’attenzione per la dieta può assumere un significato diverso per ogni persona anche in base alle sue abitudini personali, sociali e religiose. “Sono molti i fattori che possono influire sul comportamento alimentare”, riflette il professore. “Per alcune patologie, come l’anoressia nervosa, esistono alcuni comportamenti precisi e ben chiari che permettono di accertare la presenza della malattia in questione come, nel caso specifico, il controllo del peso e la distorsione della propria massa corporea. Eppure, tali sintomi non si ritrovano invece nel caso di altri problemi alimentari, come l’ortoressia, dove il paziente riesce comunque a mantenere il suo peso nella norma (secondo il calcolo dell’indice di massa corporea) nonostante segua un’alimentazione scarsa e a base di soli cibi ipocalorici.

Nel caso di questo disturbo, la sofferenza in questione si manifesta principalmente attraverso due quadri clinici, quello ansioso e quello depressivo. Infatti, attenersi a un regime alimentare così rigido e difficile da rispettare crea stress e malumore dovuti anche alle ripercussioni sui loro rapporti sociali. Se, infatti, le persone con ortoressia riescono a seguire la dieta senza danni al fisico (che tendono solitamente a sopraggiungere molto in ritardo, perché per lungo tempo l’organismo riesce a resistere anche in condizioni di restrizione alimentare), esse soffrono a causa delle conseguenze sul piano sociale e relazionale. Si trovano ad esempio nella condizione di non voler andare in pizzeria con gli amici oppure a litigare con i familiari che esprimono continue preoccupazioni riguardo alla loro dieta ed esercitano pressioni per convincerli a modificarla”.
Se solitamente le persone con ortoressia non si rendono conto di avere un problema e soffrono soprattutto perché si sentono stressate da coloro che le circondano, rimane da chiedersi come sia possibile uscirne.

Molto spesso, gli stili alimentari cambiano con il mutare delle circostanze di vita, premette Caracciolo. “Questi cambiamenti possono avere un effetto sia positivo che negativo sulle abitudini alimentari e rappresentare quindi la soluzione o la causa scatenante di un disturbo di tal genere. Ad esempio, trasferirsi altrove per motivi di studio o di lavoro e andare a vivere da soli per la prima volta può essere un incentivo a cambiare le proprie abitudini alimentari adattandole alle caratteristiche di un nuovo ambiente o ai nuovi ritmi quotidiani. In questi casi, mentre la maggior parte delle persone si adatta facilmente, quelle più vulnerabili – a causa, ad esempio, di un rapporto difficoltoso preesistente con il cibo o con il proprio corpo – possono sperimentare un peggioramento delle loro condizioni di salute. È anche ipotizzabile, come accade per l’anoressia nervosa (per cui è stato dimostrato che alcuni tratti genetici possano predisporre una persona a sviluppare questa malattia) che anche per l’ortoressia esistano fattori di rischio ereditabili”. Come spiega il professor Caracciolo, la presenza di determinati eventi che modificano le abitudini quotidiane in alcuni casi può anche cambiare le cose in meglio, spingendo la persona ad assumere uno stile alimentare meno estremo. Nei casi in cui, invece, si renda necessario un intervento terapeutico, è fondamentale l’instaurazione di un rapporto di fiducia tra medico e paziente.

“Bisogna sempre tenere a mente che ogni incontro a scopo terapeutico viaggia su un doppio binario”, ricorda il professor Caracciolo. “Il primo è rappresentato dalle cure (in questo caso mirate alla modificazione dei comportamenti ossessivi del paziente) mentre l’altro è la fiducia. Se manca quest’ultima, ogni intervento rischia di fallire. Per costruire il terreno comune per una relazione medico-paziente proficua è necessario, prima di tutto, che la richiesta di aiuto provenga in prima persona da chi ne ha bisogno, e non da parte di amici e parenti. È importante inoltre mantenere costantemente il legame di fiducia in questione attraverso tutte le fasi del percorso diagnostico e terapeutico facendo in modo che l’intera equipe multidisciplinare che segue la persona faccia squadra con lei senza criticarla, giudicarla o darle obiettivi impossibili da raggiungere, bensì incoraggiandola a raggiungere un equilibrio.
Potremmo dire che proprio l’equilibrio è il concetto chiave per uscire da questo e altri disturbi alimentari simili. Va trovato un equilibrio tra l’immagine che si vede di sé e quella che si desidera avere e tra il tipo di alimentazione a cui si vorrebbe aderire e la realtà dei fatti che non sempre rende possibile rispettarla. Dobbiamo infine ricordare che, anche nei casi più difficili – e non si tratta di un semplice augurio, ma di un dato di fatto – non bisogna mai perdere la speranza. Esiste sempre la possibilità di uscire da un disturbo alimentare”. 

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