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Rapporto GreenItaly 2018: l’Italia tra le prime economie verdi in Europa

Secondo il rapporto GreenItaly 2018, negli ultimi cinque anni, un’impresa su quattro ha investito in prodotti e tecnologie green per ridurre l’impatto ambientale, risparmiare energia e contenere le emissioni di CO2, mentre i cosiddetti “green jobs” occupano ormai 3 milioni di lavoratori. L’Italia leader in Europa anche per quanto riguarda il riciclo dei rifiuti e l’economia circolare. Con 31,5 miliardi di euro di valore aggiunto generato ogni anno, l’agricoltura italiana si colloca al primo posto nella classifica Ue a 28, davanti a Francia, Spagna e Germania. 


Un’impresa su quattro in Italia ha puntato sulla green economy

L’Italia rappresenta una delle prime “economie verdi” all’interno dell’Unione europea. Negli ultimi cinque anni, oltre 345 mila imprese hanno investito in prodotti e tecnologie green per ridurre l’impatto ambientale, risparmiare energia e contenere le emissioni di CO2, mentre i cosiddetti green jobs occupano ormai 3 milioni di lavoratori. Questo è quanto emerge dal rapporto GreenItaly 2018  presentato a Roma lo scorso 30 ottobre. Il rapporto è stato redatto dalla Fondazione Symbola e Unioncamere, in collaborazione con Conai e Novamont e sotto il patrocinio del Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare. Nel 2018, sottolinea il rapporto, c’è stata una domanda di 474 mila nuovi contratti relativi a green jobs. Tra le figure professionali maggiormente richieste figurano gli ingegneri energetici, gli agricoltori biologici, gli esperti di acquisti verdi, i tecnici meccatronici e gli installatori di impianti termici a basso impatto ambientale. La prima regione italiana per numero di contratti relativi a green jobs, la cui attivazione è prevista per quest’anno, è la Lombardia, dove se ne contano oltre 123 mila, cioè il 26,1% del totale nazionale. Seguono l’Emilia Romagna e il Lazio con poco più di 45 mila richieste (9,6% del totale nazionale), Veneto con 42.654 (9%) e Piemonte con 38.869 (8,2%). In fondo alla classifica compaiono Puglia con 20.912 (4,4%), Sicilia con 19.994 (4,2%) e Friuli-Venezia Giulia con 11.546 (2,4%). A livello locale, le prime provincie per numero di contratti relativi a green jobs sono Milano (+63.242 nuove posizioni), Roma (+37.570), Torino (+23.478) e Napoli (+16.761) (Figura 1).

 

Figura 1. Distribuzione nazionale dei contratti relativi a “green jobs” la cui attivazione è prevista per il 2018 (fonte: rapporto GreenItaly 2018)

 

L’Italia leader nelle performance ambientali

Il rapporto GreenItaly 2018 riconosce l’Italia tra i leader europei per quanto riguarda le performance ambientali nei seguenti ambiti:

  • Materie prime. Con 307 tonnellate di materia prima per ogni milione di euro prodotto dalle imprese, l’Italia risulta più efficiente rispetto alla media Ue a 28 (455 t), collocandosi al terzo posto dopo Regno Unito (236 t) e Lussemburgo (283 t) (dati Eurostat). 
  • Energia. L’Italia si posiziona al secondo posto nella classica Ue a 28, dopo il Regno Unito, per consumi energetici per unità di prodotto, con 14,2 tonnellate di petrolio equivalente per milione di euro (il Regno Unito ne consuma 10,6 t). 
  • Riduzione delle emissioni. L’Italia si colloca al terzo posto tra le prime cinque grandi economie dell’Unione europea, con 104,2 tonnellate di CO2 per milione di euro prodotto, dietro a Francia (85,5 t) e Regno Unito (93,4 t), ma davanti a Spagna e Germania. 
  • Rifiuti. Con 43,2 tonnellate per ogni milione di euro prodotto, l’Italia si colloca al primo posto tra i Paesi dell’Unione europea per quanto riguarda la riduzione dei rifiuti (la media Ue è di 9,3 t). 
  • Economia circolare. Per ogni chilogrammo di risorsa consumata l’Italia genera 4 euro di PIL, a fronte di una media Ue di 2,2 euro (dati dell’Istituto di ricerche Ambiente Italia). L’Italia è inoltre il Paese dell’area Ue con la più elevata percentuale di riciclo dei rifiuti urbani ed industriali (il 79% dei rifiuti viene avviato a riciclo a fronte di una media Ue del 38%). Insieme con la Germania, l’Italia è leader in termini di quantità di materie seconde riciclate nell’industria manifatturiera. Ciò comporta un risparmio potenziale pari a 21  milioni di tonnellate equivalenti di petrolio e a 58 milioni di tonnellate di CO2 in meno emesse nell’atmosfera.

 

L’agricoltura italiana è la più green d’Europa

L’agricoltura italiana genera un valore aggiunto di 31,5 miliardi di euro ogni anno, cioè il 18% del valore complessivo dell’Ue a 28. Questo fa sì che l’Italia si collochi al primo posto nella classifica Ue a 28, davanti a Francia (28,8 miliardi di valore aggiunto), Spagna (26,4 miliardi) e Germania (17,5 miliardi). I dati emergono da alcuni focus tematici della Coldiretti inseriti nel GreenItaly 2018 che confermano l’importanza del settore nel panorama economico nazionale ed internazionale. Nel 2017, si legge nel rapporto, l’export agroalimentare ha raggiunto il valore record di 41,03 miliardi di euro, con una crescita del 6,8% rispetto al 2016. Tuttavia, sottolinea la Coldiretti, persiste il problema del falso Made in Italy agroalimentare, che ha un valore pari ad oltre 100 miliardi di euro (con un incremento del 70% registrato solo negli ultimi 10 anni). L’Italia si colloca comunque tra i primi Paesi a livello globale per quanto riguarda la sicurezza dei prodotti alimentari. Nel nostro Paese i prodotto alimentari con residui chimici irregolari rappresentano appena lo 0,4% del totale, a fronte di una media Ue dell’1,2%. Nel 2017, inoltre, l’Italia è stato il secondo Paese al mondo per export di prodotti biologici (quasi 2 miliardi di euro di fatturato), dietro ai soli Stati Uniti (2,4 miliardi di euro). Grazie alle sue molte tradizioni enogastronomiche e alla vastissima biodiversità, sia animale che vegetale, l’Italia può inoltre vantare il maggior numero di indicazioni geografiche protette (IGP) per i prodotti alimentari, ben 296, che fanno del nostro Paese un unicum in Europa. 

 

foto living planet report

L’attività umana minaccia la biodiversità animale

Secondo l’ultimo Living Planet Report del WWF, in poco più di 40 anni abbiamo perduto il 60% delle popolazioni di vertebrati (mammiferi, uccelli, pesci, rettili e anfibi) a livello globale. È la prima volta nella storia del pianeta che una specie, quella umana, ha un così forte impatto sulla vita degli ecosistemi ed è responsabile di una simile estinzione di massa. La salvaguardia della biodiversità animale sarà uno dei temi chiave nella 14° Conferenza delle Parti della Convenzione sulla Diversità Biologica che si terrà a Sharm-el-Sheikh, in Egitto, dal 17 al 29 novembre. 


Dal 1970 al 2014 il 60% delle popolazioni di vertebrati (mammiferi, uccelli, pesci, rettili e anfibi) è scomparso. E responsabile di questa vera e propria ecatombe è l’attività umana. A lanciare l’allarme è il WWF nel suo ultimo Living Planet Report . Lo studio, svolto in collaborazione con la Zoological Society of London, viene pubblicato ogni due anni (la prima edizione risale al 1998) e rappresenta una fotografia dello stato di salute delle specie animali che abitano il nostro pianeta. Per monitorare il declino della fauna selvatica i ricercatori hanno analizzato i dati relativi a 16.704 popolazioni di vertebrati appartenenti ad oltre 4 mila specie, avvalendosi del Living Planet Index (LPI), un indicatore statistico fornito dalla Zoological Society of London, e hanno evidenziato l’insostenibile impatto dell’attività umana sulla vita del pianeta (Figura 1).

 

Figura 1. La perdita di biodiversità animale registrata dal 1970 al 2014 attraverso il Living Planet Index (fonte: Living Planet Report 2018, WWF)

 

È la prima volta nella storia del pianeta, si legge nel rapporto, che una specie, quella umana, ha un così forte impatto sulla vita degli ecosistemi ed è responsabile di una simile estinzione di massa. Tutto ciò ha un costo. Numerose ricerche dimostrano l’incalcolabile importanza dei sistemi naturali per la nostra salute, il nostro benessere, la nostra alimentazione e, in generale, il proseguimento della nostra vita sul pianeta. A livello globale, si stima che la natura offra servizi per un valore di circa 125 mila miliardi di dollari, una cifra superiore al Prodotto interno lordo di tutti i paesi del mondo, che si aggira intorno agli 80 mila miliardi di dollari. La principale causa della perdita di fauna selvatica, sottolinea il rapporto, è la distruzione degli habitat naturali ad opera dell’uomo e la loro trasformazione in terreni agricoli. Esistono tuttavia cause più dirette: oltre 300 specie di mammiferi, ad esempio, rischiano l’estinzione a causa della caccia, mentre gli oceani, un tempo ricchi di specie, sono sempre più vuoti a causa della pesca industriale e dell’inquinamento da plastica. Altra minaccia per la biodiversità animale è l’inquinamento chimico. A questo proposito, un recente studio pubblicato sulla rivista scientifica Science, indica che la metà di tutte le orche è destinata ad estinguersi nei prossimi anni a causa degli inquinanti chimici dispersi negli oceani. I ricercatori individuano tra le altre cause responsabili della perdita di biodiversità, sia animale che vegetale, anche l’introduzione di specie alloctone, ovvero specie che provengono da una certa regione geografica e che, spostandosi in un’altra attraverso l’opera volontaria o involontaria dell’uomo, creano problemi o introducono casualmente un parassita. Molte specie di anfibi, ad esempio, sono oggi minacciate da un particolare fungo che si è diffuso nel mondo a causa del commercio di animali esotici e che sta minacciando tali creature, che rappresentano una delle specie più a rischio estinzione del pianeta. Tra le aree del mondo che stanno subendo le perdite maggiori compaiono il Sud America e l’America centrale, dove, stando alle stime, le popolazioni di vertebrati hanno subito un calo addirittura dell’89% (dal 1970 al 2014), soprattutto a causa dell’abbattimento indiscriminato di vaste foreste ricche di biodiversità. A questo proposito, una recente analisi condotta in 46 paesi situati nella fascia climatica tropicale e subtropicale, dimostra che l’agricoltura industriale e quella di sussistenza sono state responsabili rispettivamente del 40% e del 33% della conversione forestale tra il 2000 e il 2010. Il 27% della deforestazione, invece, è stata causata dall’urbanizzazione, dall’espansione delle infrastrutture e dalle attività minerarie. Gli habitat che hanno subito maggiori danni sono stati fiumi e laghi, dove le specie selvatiche sono diminuite dell’83%, anche a causa dell’onnipresenza delle dighe, una delle molteplici attività dell’uomo. Nonostante i numeri catastrofici, il WWF fa sapere che siamo ancora in tempo per invertire la rotta ed impedire la scomparsa di molte altre specie animali. Grazie agli sforzi di salvaguardia dell’ambiente e di conservazione delle specie selvatiche, il numero di tigri del Bengala, una delle specie più a rischio estinzione del pianeta, è raddoppiato negli ultimi nove anni, mentre il panda gigante, che vive nelle regioni montuose del Sichuan (Cina) e che rappresenta il simbolo del WWF, dal 2016 non è più classificato come specie a rischio estinzione. Questi sono alcuni tra gli esempi virtuosi di reintroduzione di specie animali, che si pensava fossero a rischio estinzione, e che oggi, grazie all’attività dell’uomo, stanno tornando ad abitare il nostro pianeta. Tuttavia, avverte il WWF, la conservazione delle specie animali non basta: l’aspetto più urgente da affrontare rimane il nostro ruolo di consumatori. “Non possiamo più ignorare l’impatto degli attuali insostenibili modelli di produzione e dei nostri stili di vita dispendiosi”, ha dichiarato il direttore del WWF Marco Lambertini in una nota stampa. “È ormai innegabile lo stretto legame tra il sistema alimentare e il declino delle specie animali – ha aggiunto Lambertini – e ridurre il consumo di carne è il primo indispensabile passo da compiere per arrestare l’emorragia di fauna selvatica”. I sistemi naturali e la diversità biologica consentono lo stabile funzionamento dell’atmosfera, degli oceani, delle foreste e dei bacini idrici, oltre a garantire la nostra stessa sopravvivenza sul pianeta.

La salvaguardia della biodiversità biologica sarà il tema chiave della 14° Conferenza delle Parti della Convenzione sulla Diversità Biologica che si terrà a Sharm-el-Sheikh, in Egitto, dal 17 al 29 novembre. La Conferenza farà il punto della situazione sull’attuale piano strategico per la biodiversità, relativo al periodo 2011 – 2020, e servirà a definire il prossimo piano globale per la salvaguardia della biodiversità animale post – 2020.

Uliveto in Puglia dopo le forti precipitazioni

L’area mediterranea colpita dai cambiamenti climatici

Uno studio pubblicato sulla rivista scientifica Nature Climate Change sottolinea che l’area mediterranea si sta riscaldando ad una velocità maggiore rispetto al resto del mondo. Secondo l’UNISDR, l’organismo delle Nazioni Unite per la riduzione dei disastri naturali, l’Italia è tra i paesi più esposti ai cambiamenti climatici. Nel 2018, fa sapere la Coldiretti, siccità, alluvioni, tempeste, ondate di calore e altri fenomeni climatici estremi hanno causato danni economici per oltre 750 milioni di euro solamente al settore agricolo. 


L’area mediterranea si riscalda velocemente

La temperatura media annuale nell’area mediterranea è aumentata di 1,4 °C (rispetto ai livelli preindustriali), cioè 0,4 °C in più rispetto alla media globale. Questo significa che nell’area mediterranea i cambiamenti climatici stanno producendo i loro effetti ad una velocità maggiore rispetto al resto del mondo. A lanciare l’allarme è uno studio  pubblicato nei giorni scorsi sulla rivista scientifica Nature Climate Chance. Secondo lo studio, condotto da un team di ricercatori dell’Institut  méditerranéen de biodiversité et d’écologie marine et continentale (Imbe), del CNRS, dell’Université d’Avignon, dell’IRD e dell’Université Aix-Marseille, esistono cinque grandi problematiche che i Paesi del bacino del Mediterraneo dovranno affrontare nei prossimi anni, ovvero l’accesso sicuro all’acqua potabile, l’approvvigionamento alimentare, la conservazione degli ecosistemi, la salute delle persone e la sicurezza delle infrastrutture. Anche se l’aumento della temperatura globale si dovesse limitare ai 2 °C entro la fine del secolo – le principali agenzie internazionali, in particolare l’Ipcc (Gruppo intergovernativo delle Nazioni Unite per la ricerca sui cambiamenti climatici), indicano la soglia massima dei 2 °C se vogliamo evitare una vera e propria catastrofe climatica – le precipitazioni estive nell’area mediterranea diminuirebbero drasticamente. Il calo sarebbe compreso tra il 10% e il 30%, a seconda della regione presa in considerazione. Il calo delle precipitazioni aggraverebbe la mancanza d’acqua (Figura 1) e provocherebbe, di conseguenza, un forte calo della produzione agricola, che investirebbe soprattutto le regioni più a Sud. Inoltre, si avrebbero periodi di siccità più frequenti e con una durata maggiore, mentre i periodi piovosi, al contrario, diventerebbero più rari ma più violenti.

 

Figura 1. Risorse naturali annue di acqua rinnovabile nei principali bacini idrografici del Mediterraneo. Le risorse sono espresse come livello pro capite di carenza d’acqua per uso umano (fonte: Nature Climate Chance)

 

Per quanto riguarda l’aumento del livello del mare, negli ultimi anni, la superficie del Mediterraneo ha registrato una crescita di 60 millimetri. Questa tendenza, sottolinea lo studio, è in forte crescita a causa dell’aumento delle temperature medie registrate nell’area, dello scioglimento dei ghiacciai al Polo Nord e di una significativa acidificazione delle acque del bacino. Dal momento che buona parte della CO2 prodotta dall’attività antropica viene assorbita proprio dal mare, l’acidificazione delle acque rappresenta un enorme problema per l’equilibro dell’area mediterranea. Infatti, maggiore sarà il livello di acidificazione, minore sarà la capacità del mare, sempre più saturo, di recuperare biossido di carbonio. Per quanto riguarda poi la salute umana, uno dei cinque temi presi in esame dallo studio, potremmo assistere ad un aumento vertiginoso del raggio d’azione di alcune malattie, in particolare del virus del Nilo occidentale, che si potrebbero diffondere in tutta l’area mediterranea nei prossimi anni. Inoltre, fanno sapere i ricercatori, potrebbe aumentare il numero di persone affette da malattie cardiovascolari e respiratorie, causate dell’aumento dell’inquinamento atmosferico che si registrerebbe se dovesse persistere il trend attuale.

 

L’Italia tra i 10 Paesi più a rischio a livello globale

In Italia, nel 2018, siccità, alluvioni, tempeste, ondate di calore e altri fenomeni climatici estremi hanno causato danni economici per oltre 750 milioni di euro solo al settore agricolo. La stima è stata resa nota dalla Coldiretti, l’associazione di categoria del mondo dell’agricoltura italiano, che ha fatto un bilancio dei danni economici prodotti dall’ondata di maltempo che ha investito in questi giorni il nostro Paese. Il 2018 è stato l’anno più caldo dal 1800 (anno in cui sono iniziate le rilevazioni) con una temperatura media superiore di 1,53 °C rispetto alla media nei primi nove mesi dell’anno, durante i quali si sono alternati periodi di intense precipitazioni a momenti di siccità. E la Coldiretti non è l’unica a lanciare l’allarme per l’Italia. Negli ultimi vent’anni, fa sapere l’UNISDR, l’organismo delle Nazioni Unite per la riduzione dei disastri naturali, gli eventi climatici estremi hanno provocato perdite per quasi 49 miliardi di euro. Questo fa sì che l’Italia si collochi tra i 10 Paesi più colpiti al mondo per alluvioni, tempeste, siccità, ondate di calore e terremoti che nel periodo considerato, a livello globale, hanno provocato perdite economiche per oltre 2.500 miliardi di euro, il 77% dei quali a causa dei cambiamenti climatici.


Nota:

L’immagine d’intestazione dell’articolo mostra un uliveto in Puglia dopo le forti precipitazioni che hanno interessato la regione negli ultimi giorni.