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Virtanen e il “solar food”, cibo del futuro

Pubblichiamo un interessante articolo di Giovanni Ballarini comparso il 15 febbraio 2023 su Georgofili INFO, il Notiziario di informazione dell'Accademia dei Georgofili. 


Virtanen, chi era costui? Pochi zootecnici e agricoltori ricordano il finlandese Artturi Ilmari Virtanen (1895 – 1973) Premio Nobel per la chimica 1945 con le sue ricerche sui batteri azoto-fissanti dei noduli radicali delle leguminose e le sue ricerche sull’alimentazione sintetica delle vacche pubblicate nell’ormai lontano 1966 (Virtanen A. I. – Milk Production of Cows on Protein-Free Feed – Science 153, 1603-1614, 1966). Virtanen infatti alleva bovine per più generazioni alimentandole con la carta degli elenchi telefonici, urea e sali minerali, raggiungendo livelli giornalieri di oltre dieci chilogrammi e arrivando a produzioni annuali di oltre quattromila chilogrammi, dimostrando il ruolo della biosintesi proteica dei microrganismi ruminali partendo da semplici composti azotati. Oggi il motivo per ricordare Virtanen sono le ricerche che si stanno compiendo ora in Finlandia con il progetto Solar Food, una startup che riesce a produrre una proteina da cellula singola, registrata col nome di Solein, impiegando solamente acqua, aria ed elettricità da fonti rinnovabili. I ricercatori della finlandese Lappeenranta University of Technology nei laboratori del Vtt Technical Research Centre sono riusciti a produrre una proteina da cellula singola, registrata col nome di Solein usando un organismo unicellulare, simile a quelli presenti nel suolo e nel rumine degli animali, usando un bioreattore, l’idrogeno proveniente dall’idrolisi dell’acqua da fonti rinnovabili, l’anidride carbonica e l’azoto provenienti dall’atmosfera, ottenendo  una polvere composta dal 65% circa di proteine, dal 10 al 20% di carboidrati e dal 4 al 10% di grassi con la parte restante parte di minerali. Insapore, la polvere può essere usata in molti prodotti alimentari vegetariani o vegani, trasformandola anche in alimenti simili a yogurt, bevande a base vegetale, pasti completi. In corso è la procedura per un parere da parte dell’EFSA, Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare.

L’intero processo di produzione del Solein avrebbe una produzione di quattrocento grammi di anidride carbonica per chilogrammo di prodotto, rispetto ai quarantacinque chilogrammi della carne bovina e ai due chilogrammi per le piante più efficienti. Per un chilogrammo di proteina servono duecento litri di acqua, con un’impronta idrica dalle cento alle cinquecento volte inferiore alla produzione di carne e dei vegetali più comuni. Inoltre, il processo avviene in stabilimenti che non hanno bisogno di nuovi consumi di suolo.
La prima alimentazione umana è stata quella della caccia e della raccolta dei vegetali. Una prima rivoluzione inizia circa diecimila anni fa con la produzione del cibo attraverso l’allevamento degli animali e la coltivazione dei vegetali con l’agricoltura, una rivoluzione ancora in corso con gli allevamenti di pesci, gli allevamenti intensivi di ogni tipo di animali, le coltivazioni idroponiche. Oggi si sta affacciando una seconda, nuova rivoluzione alimentare umana con una produzione biosintetica degli alimenti, partendo da molecole semplici e usando l’energia solare, in un certo senso tornando alle origini della vita e a come i vegetali fanno con la clorofilla che usa i raggi solari per produrre materia organica. Una rivoluzione alimentare quest’ultima che parte anche dalle vacche di Virtanen alimentate con elenchi del telefono e urea.

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La necessità di pensare a città “biofiliche”. Un nuovo approccio di progettazione per spazi urbani vivibili e sostenibili

Pubblichiamo un articolo di Francesco Ferrini comparso il 25 gennaio 2023 su Georgofili INFO, il Notiziario di informazione dell'Accademia dei Georgofili. 


Le città di tutto il mondo stanno crescendo drammaticamente. Oggi il 55% degli abitanti del pianeta vive in aree urbane ed entro il 2030 si prevede che il 60 per cento della popolazione mondiale, ovvero quasi 5 miliardi di persone, vivrà nelle aree urbane. I movimenti di popolazioni non sono mai avvenuti in precedenza con questa velocità e con questa modalità. Tuttavia, le città non si stanno solo espandendo, ma stanno anche cambiando nei loro ruoli e nella loro funzione. La deindustrializzazione, l'aumento della mobilità e un settore dei servizi in crescita hanno visto le aree urbane trasformarsi in economie di consumo post-industriali basate sulla conoscenza piuttosto che sulla produzione. Emerge da questo spostamento del focus della funzione delle città un cambiamento “evolutivo” nella forma e nei modi in cui le città stesse dovrebbero essere progettate e costruite e come la natura dovrebbe far parte di questo cambiamento. Ciò ha attirato ulteriori ricerche e sviluppi da parte di persone interessate e con obiettivi comuni e il desiderio di consentire una maggiore opportunità per gli abitanti delle città di affiliarsi con la natura, e di tutti i vantaggi che ciò offre, all'interno dell'ambiente urbano. L'attenzione sulla connessione uomo-natura non è più relegata agli ambientalisti e alle aree naturali al di fuori delle città; è una richiesta che proviene dagli abitanti delle città.

Il design biofilico
Si è perciò evoluto un movimento sociale basato sul design biofilico sostenuto dall'aumento della popolazione urbana e dal cambiamento della funzione della città che ha portato a una dinamica mutevole e all'interazione tra luoghi e spazi urbani. Questa trasformazione recente, e in espansione, negli insediamenti urbani umani richiede un nuovo approccio alla costruzione delle città. Le città devono essere progettate, pianificate, costruite e adattate per essere sostenibili e vivibili (Storey e Kang 2015). La maggiore densità edilizia, i canyon urbani e le superfici impermeabilizzate modificano il clima locale, in particolare la temperatura, aumentando il fenomeno noto come effetto isola di calore urbano.
Questa correlazione tra l'aumento della popolazione urbana globale, il cambiamento climatico e l'effetto isola di calore urbano e la necessità di città vivibili a densità più elevata è presente in tutta la letteratura che tratta di sostenibilità e che discute di città e design. In questo quadro, la natura e il design biofilico stanno trovando un rinnovato status e riconoscimento come componenti essenziali di una città sana e sostenibile. Esempi globali di progettazione biofilica dimostrano che in molti casi l'iniziativa non è una risposta puramente funzionale alle sfide della sostenibilità di una città. C'è una motivazione al di là della funzione. Ci sono indicatori che ci dicono che si è verificato un cambiamento nell'approccio alla connessione tra uomo e natura urbana. I principi della progettazione biofilica rappresentano queste nuove iniziative emergenti che si stanno verificando nelle città. La biofilia non è dunque solo un problema di progettazione, ma un movimento costruito attorno all'idea che la connessione alla natura è un bisogno umano fondamentale. È il riconoscimento di questa necessità che ha catturato l'attenzione di così tante persone, non solo dei progettisti. Affrontare gli aspetti sociali del design biofilico solleva importanti nuove questioni compresa la “democratizzazione” della biofilia. Se la connessione alla natura è, infatti, una necessità umana evoluta, allora è una necessità che deve essere condivisa da tutti – non solo da coloro che possono permettersi di vivere in aree con spazi verdi e lavorare negli edifici con caratteristiche ed elementi naturali.

Pianificazione e progettazione di città migliori
La realizzazione che l’Homo sapiens è ora diventata prevalentemente una specie urbana significa che la necessità di riconnettersi con le qualità dell'ambiente naturale in cui ci siamo evoluti sta diventando sempre più importante. Parchi, giardini, presenza dell’acqua e viste sulla “natura” sono stati a lungo evidenti nel recinto dei ricchi. Oggi dobbiamo estendere quelle esperienze a tutti, ogni giorno.
Un punto di partenza critico nella pianificazione e nella progettazione di città migliori è infatti affrontare le profonde disuguaglianze nella presenza e nell'accesso alla natura nel paesaggio urbano. Alcune recenti ricerche hanno illustrato le disuguaglianze che esistono nella copertura arborea nei quartieri cittadini, il drammatico impatto differenziale che ciò può avere sull’isola di calore urbano all'interno di una singola area della città e la correlazione di queste disuguaglianze con pratiche di pianificazione “socialmente” sbagliate. Le conseguenze di queste pratiche di pianificazione discriminatorie continuano a influenzare le comunità disagiate e quelle socialmente deboli esponendole a temperature ambientali più elevate, a maggiori livelli di inquinamento atmosferico e a un minor accesso alle risorse ambientali come gli spazi verdi pubblici.
La pandemia ha purtroppo esacerbato queste disuguaglianze. A causa dell’isolamento dei residenti, gli spazi verdi continuano a rivelarsi una risorsa preziosa, ma privilegiata. Anche dove sono disponibili parchi pubblici, la percezione dell'accessibilità del parco e l'investimento della città nei parchi locali influenza chi sta effettivamente beneficiando dello spazio verde urbano. Il miglioramento dell'accesso non è semplicemente una questione di vicinanza al parco, ma anche di qualità di questi spazi e di esistenza di barriere, non solo fisiche, che ne limitano la fruizione per tutte le comunità.
Tuttavia, la pandemia ha anche accelerato l'introduzione di interventi per iniziare ad affrontarle, poiché ha ancora di più evidenziato l'importanza dell'accesso alla natura e agli spazi aperti nelle nostre città per la nostra salute sociale, fisica e mentale. È stato dimostrato che le persone che vivono in quartieri con un inquinamento atmosferico peggiore, che spesso mancano anche di spazi verdi, hanno evidenziato un tasso di mortalità più elevato per Covid-19. L'accesso alla natura urbana ha anche dimostrato di influenzare la riduzione dello stress e nella socializzazione, con i parchi urbani che ricevono attenzione sui benefici della natura mentre gli abitanti delle città cercano uno spazio esterno più sicuro in cui lavorare, socializzare e giocare.
Questa rinnovata attenzione è supportata da una tendenza nella pianificazione e progettazione urbana che sta cercando di fornire opportunità per connettere gli abitanti delle città con la natura attraverso progetti di servizi ecosistemici basati sulla comunità, interventi di progettazione rigenerativa e biofilica e spazi verdi residenziali, tutti collegati a un aumento del benessere, della concentrazione, della socializzazione, del senso del luogo e della connessione con la natura. Tuttavia, continua a esserci una disconnessione tra il nostro bisogno di natura, la nostra esperienza quotidiana vissuta e il comportamento sostenibile, in parte radicata nell'incapacità di comprendere come interpretare e applicare la ricerca sulla natura e la salute a diversi progetti e interventi politici a scale diverse.
In particolare, i problemi emergono da una disconnessione tra principi di progettazione biofilica, interventi di pianificazione urbana e risultati specifici di salute e benessere, nonché da una mancanza di integrazione tra le diverse discipline. Questa confusione ha implicazioni reali poiché edifici, città e regioni tentano di allineare gli obiettivi di progettazione rigenerativa con quelli di salute umana, ma spesso mancano degli strumenti e delle conoscenze per farlo, il che può comportare una mancanza di prove a sostegno dell'efficacia di questi interventi.
In particolare, un approccio sbagliato per affrontare le disuguaglianze può spesso creare impatti non intenzionali. Quando le città migliorano la presenza e l'accesso alla natura, le comunità più deboli possono essere sfollate a causa dell'aumento dei costi abitativi e del costo della vita, portando al fenomeno della gentrificazione. Di conseguenza dovremo puntare a città "just green enough" che uniscano, quindi, i miglioramenti alle infrastrutture naturali con gli sforzi per affrontare altre priorità delle comunità esistenti, come l'accesso al cibo e lo sviluppo del lavoro. Invece di una conversione su vasta scala di aree per parchi, il potenziale per evitare l'eco-gentrificazione potrebbe risiedere negli interventi su scala ridotta che sono ben dispersi e progettati in combinazione con altre risorse, come l'occupazione e il sostegno alla proprietà della casa. Con l'obiettivo che la comunità in atto sia quella meglio servita dai nuovi miglioramenti basati sulla natura.
Gli spazi verdi urbani possono essere dunque uno strumento prezioso per creare condizioni di parità per le comunità svantaggiate in un'ampia gamma di contesti, inclusi i benefici economici e sanitari, maggiore sicurezza e resilienza agli eventi calamitosi. Per raggiungere questo obiettivo, i progetti che mirano a migliorare lo spazio verde urbano per essere realmente equi devono avere il consenso delle comunità. Partendo da queste basi, e in relazione alle criticità emerse e le possibili azioni di medio e lungo periodo, anche nell’ottica del PNRR, le città possono, o meglio devono, compiere tre passi cruciali per assicurarsi che i benefici sanitari, economici e ambientali degli spazi verdi urbani diventino motori di una maggiore equità sociale.
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Fonte
https://www.georgofili.it/
immagine da homepage ilBolive, UniPd

La vita delle api mellifere potrebbe essersi dimezzata negli ultimi 50 anni, di Barbara Paknazar

Pubblichiamo un interessante articolo comparso il 10 gennaio 2023 su "Il Bo Live" dell'Università di Padova


La vita media delle api mellifere potrebbe essersi dimezzata nel corso degli ultimi 50 anni, passando da 34 a 17 giorni. A questo risultato, che aggiunge un nuovo motivo di preoccupazione sul futuro di questo straordinario insetto, è giunto uno studio condotto da due entomologi dell'università del Maryland che hanno realizzato la scoperta mentre conducevano esperimenti sull’alimentazione di esemplari allevati in laboratorio. Lo scopo iniziale degli scienziati era quello di valutare gli effetti ottenuti affiancando acqua semplice alla dieta a base di acqua zuccherata con cui tipicamente vengono nutrite le api in cattività. L’obiettivo era quello di imitare meglio le condizioni naturali in cui vivono le api. Confrontando i risultati con quelli sulla storia dell'approvvigionamento idrico negli studi in gabbia presenti in letteratura, i ricercatori hanno così osservato che, indipendentemente da come venivano nutrite, la vita media delle loro api era la metà di quella delle api studiate in esperimenti simili fatti negli anni ’70 negli Stati Uniti. Gli autori della ricerca, pubblicata su Scientific Reports, hanno poi utilizzato un modello matematico per stabilire il possibile impatto del dimezzamento della longevità degli alveari sui quantitativi di miele e dunque sul settore dell’apicoltura. Quello che è emerso è una diminuzione di produttività pari al 33%, in linea con i tassi medi di perdita realmente riportati dagli apicoltori statunitensi negli ultimi 14 anni.

Lo studio

I ricercatori hanno condotto lo studio raccogliendo api allo stadio di pupa entro 24 ore dalla loro uscita dalle celle dell’alveare, per poi far loro proseguire la crescita in un'incubatrice e trasferirle in laboratorio all’interno di gabbie speciali. Il fatto che le api oggetto della ricerca siano state allevate in condizioni controllate, senza quindi essere soggette a fattori ambientali dannosi come virus e pesticidi, ha portato gli scienziati ad avanzare l’ipotesi che a questo significativo declino della longevità possano contribuire cause genetiche. “Noi isoliamo le api dalla colonia appena prima che diventino adulte, dunque tutto ciò che sta riducendo la loro longevità, avviene prima di questo passaggio", ha spiegato Anthony Nearman, primo autore dello studio. È stato proprio Nearman, studente di dottorato al dipartimento di Entomologia dell’università del Maryland, ad accorgersi per primo che la vita media delle api operaie allevate in laboratorio era di appena 17 giorni, indipendentemente dal tipo di alimentazione somministrata all’insetto impollinatore. Una revisione approfondita dai dati presenti in letteratura ha quindi permesso di constatare che negli anni ’70 le api operaie in gabbia vivevano in media oltre 34 giorni e il declino della longevità è risultato essere costante lungo l’intero arco di mezzo secolo, nonostante gli standard con cui vengono mantenute le api in laboratorio siano andati progressivamente migliorando.
E sebbene le condizioni presenti in laboratorio siano molto diverse da quelle che contraddistinguono le colonie negli alveari, la vita media delle api di laboratorio si è sempre dimostrata simile a quella delle api in colonia (che per le operaie è pari a poco più di un mese).
Le cause che hanno portato al dimezzamento della vita media delle api allevate in laboratorio restano ancora da chiarire: il fatto che gli insetti siano stati precocemente portati in condizioni controllate tende a far escludere un ruolo da parte di agenti patogeni, inquinamento o pesticidi (sebbene in generale sia assodato che alcuni prodotti fitosanitari usati in agricoltura abbiano pesanti ripercussioni sulle api). Al riguardo i ricercatori spiegano che per quanto non si possa del tutto scartare la possibilità che fattori ambientali, come appunto virus o pesticidi, siano entrati in gioco durante lo stadio larvale degli insetti, quando stanno covando nell'alveare e le api operaie le stanno nutrendo, gli esemplari studiati non hanno manifestato sintomi evidenti che fossero riconducibili a questa tipologia di esposizioni. Per questo motivo Anthony Nearman e il co-autore Dennis van Engelsdorp hanno avanzato l'ipotesi che la longevità delle api si sia ridotta a causa di cambiamenti genetici che potrebbero a loro volta essere la conseguenza involontaria delle pratiche di selezione condotte dagli apicoltori: le colonie costituite da api che vivono meno tempo potrebbero apparire più sane ed essere state quindi favorite dagli apicoltori rispetto a quelle composte da api che vivono più a lungo ma che sono colpite da malattie o da patogeni. Questo studio è il primo a mostrare un declino complessivo della durata della vita delle api da miele potenzialmente indipendente da fattori di stress ambientali, il cui impatto sulle api è comunque fortemente distruttivo, come recentemente ricordato anche dall'esperienza che Paolo Fontana entomologo e apidologo della Fondazione Edmund Mach di San Michele all’Adige, ha condiviso con Il Bo Live. La sopravvivenza delle api è infatti già messa a dura prova da molte pressioni: solo per citare qualche esempio, un recente studio dell'università di Bristol pubblicato su Pnas Nexus ha scoperto che i fertilizzanti alterano il modo in cui le api percepiscono i fiori, scoraggiandone la visita. C'è poi il ben noto problema della tossicità delle sostanze chimiche usate in ambito agricolo dove, secondo uno studio pubblicato nel 2021 su Science, in un decennio l'impatto tossico dei pesticidi sulle api e altri impollinatori è raddoppiato, nonostante un calo della quantità di prodotti utilizzati. A tutto questo si aggiunge poi l'alterazione dell'habitat delle api con una forte perdita delle superfici dei prati di fiori selvatici, convertiti in suoli agricoli.
La ricerca condotta da Nearman e vanEngelsdorp si propone adesso di confrontare i dati provenienti da altri paesi del mondo per scoprire se la tendenza è in atto anche al di fuori degli Stati Uniti. E non bisogna dimenticare che le condizioni di laboratorio possono nascondere dettagli difficilmente confrontabili a distanza di mezzo secolo, come i materiali delle gabbie o la velocità del flusso di aria negli incubatori.
La vera sfida è adesso capire se la vita media delle api mellifere si è ridotta anche in natura e se un simile trend è comune a diverse specie di api. A questa domanda occorre trovare presto una risposta: le api e altri insetti impollinatori sono essenziali per un buon raccolto per il 75% delle colture che coltiviamo in tutto il mondo. Inoltre impollinano circa l'80% di tutte le piante selvatiche e hanno un ruolo fondamentale per la tutela della biodiversità. Le conseguenze del loro declino riguardano tutti noi.

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