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Una persona su dieci nel mondo vive in condizioni di povertà estrema

Secondo un recente rapporto della Banca mondiale, dal 1990 al 2015, oltre un miliardo di persone è uscito da una situazione di povertà estrema. Tuttavia, entro il 2030, il 90% di tutti i poveri del mondo potrebbe concentrarsi nella sola Africa subsahariana. La povertà cresce in Occidente: l’Eurostat censisce 118 milioni di persone a rischio povertà in Europa. Stando ai dati attuali, la strada verso l’eliminazione della povertà a livello globale, cioè il primo obiettivo dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite, sembra essere ancora lunga. 


“Laddove gli uomini sono condannati a vivere nella miseria, i diritti dell'uomo sono violati. Unirsi per farli rispettare è un dovere sacro”. Queste furono le parole pronunciate da padre Joseph Wresinsky, in occasione di una manifestazione pacifica per dire no alla miseria, organizzata per sua iniziativa il 17 ottobre 1987 a Parigi. La manifestazione si tenne nel piazzale monumentale di Trocadérò e vi parteciparono oltre cento mila attivisti per i diritti umani (Figura in alto). Cinque anni più tardi, nel 1992, l’iniziativa di Wresinsky spinse le Nazioni Unite a riconoscere il 17 ottobre come Giornata mondiale contro la povertà. Dopo la Giornata mondiale dell’alimentazione dedicata alle disuguaglianze alimentari, celebrata il 16 ottobre, il 17 è stata la volta della Giornata mondiale contro la povertà, che ha come principale obiettivo quello di porre l’accento sul tema della povertà, non solo economica, ma in tutte le sue forme. Non è un caso che queste due ricorrenze ricadano ogni anno a distanza di un giorno. Fame e povertà sono due fenomeni strettamente legati: dove non c’è lavoro c’è indigenza, dove c’è carenza di risorse per sopravvivere c’è fame. In altre parole, sono due facce della stessa medaglia.

In occasione della Giornata mondiale contro la povertà, la Banca mondiale ha reso noti i dati relativi alla povertà estrema nel mondo. Secondo il rapporto Povertà e prosperità condivisa 2018, nel 2015, ultimo anno per cui sono disponibili gli ultimi dati, 736 milioni di persone, vale a dire una persona su dieci a livello globale, hanno vissuto in condizioni di povertà estrema, ovvero con meno di 1,90 dollari al giorno (secondo la definizione di “povertà estrema” delle Nazioni Unite). Si tratta della percentuale più bassa che sia mai stata registrata, sottolinea il rapporto, poiché è scesa di un punto percentuale ogni anno dal 1990, quando i poveri estremi erano circa 1,9 miliardi, al 2015. Questo significa che, in 25 anni, oltre un miliardo di persone è uscito da una situazione di povertà estrema. Si tratta di un trend in crescita: per il 2018, le previsioni preliminari della Banca mondiale indicano un’ulteriore riduzione della povertà estrema che, ad oggi, dovrebbe interessare l’8,6% della popolazione mondiale. Il calo della povertà estrema, si legge nel rapporto, è stato dovuto alla vertiginosa crescita economia che ha interessato il continente asiatico negli ultimi vent’anni circa, in particolare Cina e India. Inoltre, se le previsioni si dovessero concretizzare, fa sapere la Banca mondiale, l’obiettivo di ridurre i poveri  estremi al 9% della popolazione globale, fissato dalle Nazioni Unite per il 2020, sarebbe stato raggiunto con due anni di anticipo. Tuttavia, arrivano segnali preoccupanti circa l’aumento della povertà in Africa, soprattutto nella regione subsahariana, dove, stando alle stime, nel 2030, si concentrerà il 90% di tutti i poveri estremi del mondo. Già oggi, sottolinea il rapporto, quest’area del continente africano risulta la più colpita dalla piaga della povertà estrema: tra i Paesi più a rischio, figurano il Togo, in cima alla classifica mondiale per il numero di persone sotto la soglia di indigenza assoluta, il Sierra Leone, il Niger e la Repubblica Democratica del Congo. Per quanto riguarda l’Asia, i Paesi più poveri sono il Bangladesh, l’India e il Nepal, seguiti da Pakistan, Buthan e Sri Lanka. In America Latina, invece, il Paese più povero in assoluto è l’Honduras, seguito da Guatemala e Nicaragua. Questa è la classifica se si tiene conto solamente del reddito giornaliero. Se si prendessero in considerazione altre variabili, la classifica potrebbe essere leggermente differente.

La povertà non interessa solo i Paesi elencati dalla Banca mondiale. Anche in Occidente, sia pure con parametri di riferimento diversi rispetto a quelli usati nei continenti più esposti al fenomeno, la povertà è in forte crescita. In Europa, ad esempio, secondo l’Eurostat (Ufficio Statistico dell’Unione europea), 118 milioni di persone vivono a rischio povertà, cioè quasi un cittadino europeo su quattro. Per quanto riguarda l’Italia, secondo l’Istat, oltre 5 milioni di persone vivono al di sotto della soglia di povertà e oltre 17 milioni (circa il 30% della popolazione) rischiano di cadervi. Nella classifica dei Paesi europei per livello di povertà, l’Italia si colloca al quinto posto, dopo Bulgaria, Romania, Grecia e Lituania. Dopo la Grecia, l’Italia è il Paese europeo dove il rischio di cadere in povertà è maggiormente aumentato dal 2008 ad oggi, cioè negli anni della crisi economica. Dal rapporto Povertà in attesa, pubblicato dalla Caritas in occasione della Giornata mondiale contro la povertà, emerge inoltre che, dagli anni pre-crisi ad oggi, il numero di poveri è aumentato del 182%. Si tratta di un dato allarmante, fa sapere la Caritas, e in controtendenza rispetto a quello registrato nell’area Ue, dove il rischio di cadere in una situazione di povertà è salito solo dal 2009 al 2012 per poi scendere costantemente fino ad oggi. Stando ai dati attuali, la strada verso l’eliminazione della povertà a livello globale sembra essere ancora lunga. Il primo obiettivo dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite, che prevede di eliminare la povertà in tutte le sue forme e in ogni parte del mondo, rimane una delle principali sfide dei prossimi anni.  

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Il cambiamento climatico ci porterà via anche la birra

Uno studio della University of East Anglia, pubblicato sulla rivista scientifica Nature Plants, evidenzia gli effetti del cambiamento climatico sulla coltivazione di orzo, il principale ingrediente per la produzione della birra. Nel peggiore dei casi, sottolinea lo studio, una riduzione nella produzione di orzo potrebbe comportare un calo del 16% del consumo globale di birra.


A causa del cambiamento climatico la birra potrebbe diventare un lusso per pochi. Secondo un recente studio pubblicato sulla rivista scientifica Nature Plants, l’aumento della temperatura globale, dovuto ai cambiamenti climatici, potrebbe influenzare considerevolmente la coltivazione dell’orzo, il principale ingrediente per la produzione della birra. Lo studio, condotto da un team di ricercatori della University of East Anglia, in Inghilterra, viene diffuso proprio nei giorni in cui l’Ipcc, l’organismo scientifico delle Nazioni Unite per la ricerca sul cambiamento climatico, nel suo ultimo Special Report, ha sottolineato la necessità di agire entro i prossimi 12 anni per salvare il Pianeta dalla catastrofe climatica. All’allarmante monito lanciato dalle Nazioni Unite, si aggiunge ora quello dello studio dell’Università inglese secondo cui, l’aumento della temperatura globale avrà, tra le sue conseguenze, anche quella di limitare il consumo di birra. Lo studio ha preso in esame i possibili effetti che fenomeni climatici estremi, come siccità e ondate di calore, potrebbero avere sulla coltivazione della pianta di orzo in tutti e sei i continenti abitati in un periodo di tempo relativamente lungo, tra il 2010 e il 2099. In particolare, il team di ricercatori ha considerato due possibili scenari futuri con due diversi livelli di emissioni di gas ad effetto serra (Figura 1) e ha simulato le conseguenze di un clima più caldo ed estremo sulla produzione del cereale, utilizzando un software per modellare la crescita e la resa delle colture rispetto alle condizioni meteorologiche. Sulla base dei modelli elaborati, i ricercatori hanno scoperto che un clima estremo, dovuto all’aumento della temperatura globale, potrebbe ridurre la produzione di orzo tra il 3% e il 17%. Alcune aree del globo, come il Centro e il Sud America, potrebbero subire i danni maggiori; altre, come la Cina settentrionale e gli Stati Uniti, potrebbero vedere aumentare i loro raccolti anche del 90%. Per quanto riguarda l’Europa, tra i Paesi più colpiti, ci sarebbero quelli che hanno una secolare tradizione nella produzione di birra come il Belgio, la Repubblica Ceca e l’Irlanda. Nel Paese produttore della famosa "birra scura", nel 2099, il prezzo di una pinta potrebbe aumentare del 43% – 338% (rispetto al prezzo attuale), a seconda della gravità della realtà in cui ci troveremo a vivere. Tra i paesi più a rischio, lo studio annovera anche la Polonia, che rischierà di vendere la birra ad un prezzo quasi quintuplicato, e Germania, Regno Unito e Giappone, dove, a causa del crollo della produzione di orzo, dovuto all’aumento della temperatura, le vendite di birra potrebbe diminuire di quasi un terzo. In Italia, invece, sottolinea lo studio, l’aumento delle temperature potrebbe ridurre la produzione di orzo a tal punto da dover pagare una birra quasi quattro euro in più rispetto al prezzo attuale.

 

Figura 1. Aumento del prezzo medio di una birra a seconda del livello di emissioni di gas ad effetto serra (fonte: Nature)

 

Prendere in considerazione gli effetti che il cambiamento climatico avrà sulla produzione di birra potrebbe sembrare banale. Ma Dabo Guan, economista ed esperto di cambiamenti climatici della University of East Anglia, ritiene che lo studio appena pubblicato possa far capire all’opinione pubblica le vaste implicazioni del cambiamento climatico, in particolare, quelle che avranno considerevoli ricadute sulla nostra vita quotidiana. L’obiettivo dello studio è infatti quello di far riflettere le persone sull’impatto che il cambiamento climatico potrebbe avere sulle produzioni alimentari in generale, prendendo in esame un prodotto di largo consumo come la birra. “Se le persone vorranno ancora bere una birra davanti ad una partita di calcio – ha dichiarato Guan – allora dovranno fare qualcosa” (riporta Nature).

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Eliminare la fame nel mondo entro il 2030 obiettivo chiave della FAO

Oggi ricorre la Giornata Mondiale dell’Alimentazione, istituita nel 1979 con l’obiettivo di sensibilizzare l’opinione pubblica sui temi della sicurezza alimentare, della povertà, della fame e della malnutrizione nel mondo. Nonostante cresca il numero di persone che vivono in condizioni di sofferenza alimentare, la FAO ritiene che sia ancora possibile eliminare la piaga della fame nel mondo entro il 2030.


Per la FAO (Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura) l’obiettivo “Fame zero” entro il 2030 è possibile, a condizione che i Paesi uniscano le proprie forze per far sì che tutti, in ogni parte del mondo, abbiano accesso ad una quantità adeguata di cibo sano e nutriente. Questo è il messaggio lanciato dalle Nazioni Unite in occasione della Giornata mondiale dell’alimentazione 2018 . Istituita nel 1979 durante i lavori della ventesima conferenza generale della FAO, la Giornata mondiale dell’alimentazione si celebra il 16 ottobre di ogni anno in ricordo del giorno di fondazione dell’Organizzazione stessa, creata proprio il 16 ottobre del 1945. L’obiettivo della Giornata è quello di sensibilizzare l’opinione pubblica sui temi della sicurezza alimentare, della povertà, della fame e della malnutrizione nel mondo, con particolare attenzione alle misure necessarie per eliminare le disuguaglianze legate all’accesso al cibo. Un’esigenza sempre più impellente considerando che la fame e la malnutrizione, insieme con le crisi economiche, le guerre e gli eventi climatici estremi, rappresentano due fenomeni in forte crescita a livello globale.

Nel 2017, secondo l’ultimo rapporto della FAO sullo stato della sicurezza alimentare e della denutrizione nel mondo, 821 milioni di persone hanno sofferto la fame (17 milioni in più rispetto al 2016), vale a dire una persona su nove a livello globale. Di questi, 500 milioni vivono in Asia, 256 milioni in Africa e 40 milioni in America Latina e ai Caraibi. Il dato più allarmante, sottolinea il rapporto, è rappresentato dal fatto che ben 151 milioni (nel 2012 erano 169 milioni) sono bambini al di sotto dei cinque anni, i quali rischiano ritardi nella crescita, nell’apprendimento e nello sviluppo delle capacità richieste dagli impegni futuri. A livello globale, l’Africa e l’Asia rappresentano le aree dove si concentra il maggior numero di bambini che soffrono la fame, rispettivamente il 39% e il 55% del totale. Al contempo, 1,9 miliardi di persone, cioè oltre un quarto della popolazione mondiale, è in sovrappeso e ogni anno, sottolinea la FAO, muoiono 3,4 milioni di persone per problemi legati all’obesità. Il fenomeno è diffuso soprattutto nel Nord America, ma anche in Asia e in Africa si registra un trend al rialzo. Malnutrizione e obesità sono due fenomeni, spiega il rapporto, che coesistono in molti Paesi del mondo e possono riscontrarsi nelle stesse famiglie, dove si registra uno scarso accesso al cibo nutriente, dovuto ad un costo più alto dei prodotti, maggiore stress di vivere in uno stato di insicurezza alimentare e altri adattamenti fisiologici dovuti alle privazioni sulla tavola, i quali possono favorire un più elevato rischio di cadere in una situazione di sovrappeso od obesità. Contribuiscono poi ad aggravare la situazione il fatto che un terzo del cibo prodotto a livello globale viene sprecato ogni anno e che il 6% di tutte le emissioni di gas serra è causato proprio dall’enorme quantità di cibo che finisce nelle discariche. Fame e sviluppo rurale, oltretutto, sono strettamente connessi al fenomeno migratorio, sia a livello locale che internazionale. La migrazione interna, sottolinea la FAO nel suo rapporto Stato dell’alimentazione e dell’agricoltura 2018 – migrazioni, agricoltura e sviluppo rurale, pubblicato in questi giorni, è un fenomeno significativamente più ampio rispetto a quella internazionale: stando agli ultimi dati, oltre un miliardo di persone che vivono nei Paesi in via di sviluppo hanno migrato all’interno del loro Paese, l’80% dei quali si è trasferito in aree rurali. A questo proposito, la FAO suggerisce misure a livello governativo che non mirino solamente ad arginare il fenomeno migratorio. Per i Paesi in via di sviluppo, sottolinea l’Organizzazione, è fondamentale promuovere opportunità di lavoro nel settore agricolo, al fine di fornire alle comunità rurali posti il più possibile vicini al luogo nel quale vivono. I Paesi che si trovano ad un livello di sviluppo intermedio, invece, dovrebbero dare priorità ai collegamenti tra le aree rurali e quelle urbane per espandere le opportunità economiche oltre i confini delle città. Infine, i Paesi soggetti ad una forte migrazione (tra i quali l’Italia) dovrebbero migliorare i loro modelli di integrazione sociale. In questa realtà, sostenibilità e innovazione tecnologica giocheranno un ruolo sempre più importante: da un lato, contribuiranno a garantire la sopravvivenza delle comunità rurali con un approccio rispettoso dell’ambiente; dall’altro, i piccoli coltivatori dovranno adottare metodi di agricoltura sostenibile che aumentino la produttività e il reddito nelle aree rurali.

Alla luce dei dati sull’aumento del numero di persone che soffrono la fame nel mondo, le Nazioni Unite chiedono l’attuazione di interventi volti a garantire l’accesso universale al cibo e invitano i singoli Paesi a prestare maggiore attenzione alle fasce della popolazione più esposte alle conseguenze dello scarso accesso al cibo. Le Nazioni Unite chiedono inoltre maggiori sforzi nella cooperazione internazionale e la promozione di politiche volte all’adattamento, alla mitigazione e alla riduzione del rischio di catastrofi naturali di origine climatica, senza le quali, sarà difficile raggiungere l’ambizioso obiettivo di eliminare la fame entro il 2030.