foto living planet report

L’attività umana minaccia la biodiversità animale

Secondo l’ultimo Living Planet Report del WWF, in poco più di 40 anni abbiamo perduto il 60% delle popolazioni di vertebrati (mammiferi, uccelli, pesci, rettili e anfibi) a livello globale. È la prima volta nella storia del pianeta che una specie, quella umana, ha un così forte impatto sulla vita degli ecosistemi ed è responsabile di una simile estinzione di massa. La salvaguardia della biodiversità animale sarà uno dei temi chiave nella 14° Conferenza delle Parti della Convenzione sulla Diversità Biologica che si terrà a Sharm-el-Sheikh, in Egitto, dal 17 al 29 novembre. 


Dal 1970 al 2014 il 60% delle popolazioni di vertebrati (mammiferi, uccelli, pesci, rettili e anfibi) è scomparso. E responsabile di questa vera e propria ecatombe è l’attività umana. A lanciare l’allarme è il WWF nel suo ultimo Living Planet Report . Lo studio, svolto in collaborazione con la Zoological Society of London, viene pubblicato ogni due anni (la prima edizione risale al 1998) e rappresenta una fotografia dello stato di salute delle specie animali che abitano il nostro pianeta. Per monitorare il declino della fauna selvatica i ricercatori hanno analizzato i dati relativi a 16.704 popolazioni di vertebrati appartenenti ad oltre 4 mila specie, avvalendosi del Living Planet Index (LPI), un indicatore statistico fornito dalla Zoological Society of London, e hanno evidenziato l’insostenibile impatto dell’attività umana sulla vita del pianeta (Figura 1).

 

Figura 1. La perdita di biodiversità animale registrata dal 1970 al 2014 attraverso il Living Planet Index (fonte: Living Planet Report 2018, WWF)

 

È la prima volta nella storia del pianeta, si legge nel rapporto, che una specie, quella umana, ha un così forte impatto sulla vita degli ecosistemi ed è responsabile di una simile estinzione di massa. Tutto ciò ha un costo. Numerose ricerche dimostrano l’incalcolabile importanza dei sistemi naturali per la nostra salute, il nostro benessere, la nostra alimentazione e, in generale, il proseguimento della nostra vita sul pianeta. A livello globale, si stima che la natura offra servizi per un valore di circa 125 mila miliardi di dollari, una cifra superiore al Prodotto interno lordo di tutti i paesi del mondo, che si aggira intorno agli 80 mila miliardi di dollari. La principale causa della perdita di fauna selvatica, sottolinea il rapporto, è la distruzione degli habitat naturali ad opera dell’uomo e la loro trasformazione in terreni agricoli. Esistono tuttavia cause più dirette: oltre 300 specie di mammiferi, ad esempio, rischiano l’estinzione a causa della caccia, mentre gli oceani, un tempo ricchi di specie, sono sempre più vuoti a causa della pesca industriale e dell’inquinamento da plastica. Altra minaccia per la biodiversità animale è l’inquinamento chimico. A questo proposito, un recente studio pubblicato sulla rivista scientifica Science, indica che la metà di tutte le orche è destinata ad estinguersi nei prossimi anni a causa degli inquinanti chimici dispersi negli oceani. I ricercatori individuano tra le altre cause responsabili della perdita di biodiversità, sia animale che vegetale, anche l’introduzione di specie alloctone, ovvero specie che provengono da una certa regione geografica e che, spostandosi in un’altra attraverso l’opera volontaria o involontaria dell’uomo, creano problemi o introducono casualmente un parassita. Molte specie di anfibi, ad esempio, sono oggi minacciate da un particolare fungo che si è diffuso nel mondo a causa del commercio di animali esotici e che sta minacciando tali creature, che rappresentano una delle specie più a rischio estinzione del pianeta. Tra le aree del mondo che stanno subendo le perdite maggiori compaiono il Sud America e l’America centrale, dove, stando alle stime, le popolazioni di vertebrati hanno subito un calo addirittura dell’89% (dal 1970 al 2014), soprattutto a causa dell’abbattimento indiscriminato di vaste foreste ricche di biodiversità. A questo proposito, una recente analisi condotta in 46 paesi situati nella fascia climatica tropicale e subtropicale, dimostra che l’agricoltura industriale e quella di sussistenza sono state responsabili rispettivamente del 40% e del 33% della conversione forestale tra il 2000 e il 2010. Il 27% della deforestazione, invece, è stata causata dall’urbanizzazione, dall’espansione delle infrastrutture e dalle attività minerarie. Gli habitat che hanno subito maggiori danni sono stati fiumi e laghi, dove le specie selvatiche sono diminuite dell’83%, anche a causa dell’onnipresenza delle dighe, una delle molteplici attività dell’uomo. Nonostante i numeri catastrofici, il WWF fa sapere che siamo ancora in tempo per invertire la rotta ed impedire la scomparsa di molte altre specie animali. Grazie agli sforzi di salvaguardia dell’ambiente e di conservazione delle specie selvatiche, il numero di tigri del Bengala, una delle specie più a rischio estinzione del pianeta, è raddoppiato negli ultimi nove anni, mentre il panda gigante, che vive nelle regioni montuose del Sichuan (Cina) e che rappresenta il simbolo del WWF, dal 2016 non è più classificato come specie a rischio estinzione. Questi sono alcuni tra gli esempi virtuosi di reintroduzione di specie animali, che si pensava fossero a rischio estinzione, e che oggi, grazie all’attività dell’uomo, stanno tornando ad abitare il nostro pianeta. Tuttavia, avverte il WWF, la conservazione delle specie animali non basta: l’aspetto più urgente da affrontare rimane il nostro ruolo di consumatori. “Non possiamo più ignorare l’impatto degli attuali insostenibili modelli di produzione e dei nostri stili di vita dispendiosi”, ha dichiarato il direttore del WWF Marco Lambertini in una nota stampa. “È ormai innegabile lo stretto legame tra il sistema alimentare e il declino delle specie animali – ha aggiunto Lambertini – e ridurre il consumo di carne è il primo indispensabile passo da compiere per arrestare l’emorragia di fauna selvatica”. I sistemi naturali e la diversità biologica consentono lo stabile funzionamento dell’atmosfera, degli oceani, delle foreste e dei bacini idrici, oltre a garantire la nostra stessa sopravvivenza sul pianeta.

La salvaguardia della biodiversità biologica sarà il tema chiave della 14° Conferenza delle Parti della Convenzione sulla Diversità Biologica che si terrà a Sharm-el-Sheikh, in Egitto, dal 17 al 29 novembre. La Conferenza farà il punto della situazione sull’attuale piano strategico per la biodiversità, relativo al periodo 2011 – 2020, e servirà a definire il prossimo piano globale per la salvaguardia della biodiversità animale post – 2020.

Uliveto in Puglia dopo le forti precipitazioni

L’area mediterranea colpita dai cambiamenti climatici

Uno studio pubblicato sulla rivista scientifica Nature Climate Change sottolinea che l’area mediterranea si sta riscaldando ad una velocità maggiore rispetto al resto del mondo. Secondo l’UNISDR, l’organismo delle Nazioni Unite per la riduzione dei disastri naturali, l’Italia è tra i paesi più esposti ai cambiamenti climatici. Nel 2018, fa sapere la Coldiretti, siccità, alluvioni, tempeste, ondate di calore e altri fenomeni climatici estremi hanno causato danni economici per oltre 750 milioni di euro solamente al settore agricolo. 


L’area mediterranea si riscalda velocemente

La temperatura media annuale nell’area mediterranea è aumentata di 1,4 °C (rispetto ai livelli preindustriali), cioè 0,4 °C in più rispetto alla media globale. Questo significa che nell’area mediterranea i cambiamenti climatici stanno producendo i loro effetti ad una velocità maggiore rispetto al resto del mondo. A lanciare l’allarme è uno studio  pubblicato nei giorni scorsi sulla rivista scientifica Nature Climate Chance. Secondo lo studio, condotto da un team di ricercatori dell’Institut  méditerranéen de biodiversité et d’écologie marine et continentale (Imbe), del CNRS, dell’Université d’Avignon, dell’IRD e dell’Université Aix-Marseille, esistono cinque grandi problematiche che i Paesi del bacino del Mediterraneo dovranno affrontare nei prossimi anni, ovvero l’accesso sicuro all’acqua potabile, l’approvvigionamento alimentare, la conservazione degli ecosistemi, la salute delle persone e la sicurezza delle infrastrutture. Anche se l’aumento della temperatura globale si dovesse limitare ai 2 °C entro la fine del secolo – le principali agenzie internazionali, in particolare l’Ipcc (Gruppo intergovernativo delle Nazioni Unite per la ricerca sui cambiamenti climatici), indicano la soglia massima dei 2 °C se vogliamo evitare una vera e propria catastrofe climatica – le precipitazioni estive nell’area mediterranea diminuirebbero drasticamente. Il calo sarebbe compreso tra il 10% e il 30%, a seconda della regione presa in considerazione. Il calo delle precipitazioni aggraverebbe la mancanza d’acqua (Figura 1) e provocherebbe, di conseguenza, un forte calo della produzione agricola, che investirebbe soprattutto le regioni più a Sud. Inoltre, si avrebbero periodi di siccità più frequenti e con una durata maggiore, mentre i periodi piovosi, al contrario, diventerebbero più rari ma più violenti.

 

Figura 1. Risorse naturali annue di acqua rinnovabile nei principali bacini idrografici del Mediterraneo. Le risorse sono espresse come livello pro capite di carenza d’acqua per uso umano (fonte: Nature Climate Chance)

 

Per quanto riguarda l’aumento del livello del mare, negli ultimi anni, la superficie del Mediterraneo ha registrato una crescita di 60 millimetri. Questa tendenza, sottolinea lo studio, è in forte crescita a causa dell’aumento delle temperature medie registrate nell’area, dello scioglimento dei ghiacciai al Polo Nord e di una significativa acidificazione delle acque del bacino. Dal momento che buona parte della CO2 prodotta dall’attività antropica viene assorbita proprio dal mare, l’acidificazione delle acque rappresenta un enorme problema per l’equilibro dell’area mediterranea. Infatti, maggiore sarà il livello di acidificazione, minore sarà la capacità del mare, sempre più saturo, di recuperare biossido di carbonio. Per quanto riguarda poi la salute umana, uno dei cinque temi presi in esame dallo studio, potremmo assistere ad un aumento vertiginoso del raggio d’azione di alcune malattie, in particolare del virus del Nilo occidentale, che si potrebbero diffondere in tutta l’area mediterranea nei prossimi anni. Inoltre, fanno sapere i ricercatori, potrebbe aumentare il numero di persone affette da malattie cardiovascolari e respiratorie, causate dell’aumento dell’inquinamento atmosferico che si registrerebbe se dovesse persistere il trend attuale.

 

L’Italia tra i 10 Paesi più a rischio a livello globale

In Italia, nel 2018, siccità, alluvioni, tempeste, ondate di calore e altri fenomeni climatici estremi hanno causato danni economici per oltre 750 milioni di euro solo al settore agricolo. La stima è stata resa nota dalla Coldiretti, l’associazione di categoria del mondo dell’agricoltura italiano, che ha fatto un bilancio dei danni economici prodotti dall’ondata di maltempo che ha investito in questi giorni il nostro Paese. Il 2018 è stato l’anno più caldo dal 1800 (anno in cui sono iniziate le rilevazioni) con una temperatura media superiore di 1,53 °C rispetto alla media nei primi nove mesi dell’anno, durante i quali si sono alternati periodi di intense precipitazioni a momenti di siccità. E la Coldiretti non è l’unica a lanciare l’allarme per l’Italia. Negli ultimi vent’anni, fa sapere l’UNISDR, l’organismo delle Nazioni Unite per la riduzione dei disastri naturali, gli eventi climatici estremi hanno provocato perdite per quasi 49 miliardi di euro. Questo fa sì che l’Italia si collochi tra i 10 Paesi più colpiti al mondo per alluvioni, tempeste, siccità, ondate di calore e terremoti che nel periodo considerato, a livello globale, hanno provocato perdite economiche per oltre 2.500 miliardi di euro, il 77% dei quali a causa dei cambiamenti climatici.


Nota:

L’immagine d’intestazione dell’articolo mostra un uliveto in Puglia dopo le forti precipitazioni che hanno interessato la regione negli ultimi giorni. 

Rue des Saules (Parigi, Montmartre). Foto di A. Campiotti

L’agricoltura urbana contro la fame nel mondo

Nel 2025 la popolazione mondiale raggiungerà gli 8 miliardi di individui, di cui oltre la metà abiterà nelle città. Perciò, garantire la disponibilità di cibo per tutti sarà una delle principali sfide dei prossimi anni. L’agricoltura urbana potrà contribuire al fabbisogno alimentare di milioni di persone. Già oggi, secondo la FAO, le persone coinvolte in progetti di agricoltura urbana sono oltre un miliardo a livello globale. E il fenomeno non interessa solo i Paesi del Sud del mondo. Anche in Europa, Stati Uniti e Canada, sono stati avviati progetti di agricoltura urbana promossi da amministrazioni locali e associazioni di cittadini.


Una “via d’uscita alla povertà alimentare”

Nel 2025 la popolazione mondiale raggiungerà gli 8 miliardi di individui, di cui oltre la metà abiterà nelle città. Perciò, garantire la disponibilità di cibo per tutti sarà una delle principali sfide dei prossimi anni. Già oggi, nelle città di medie dimensioni, la produzione e l’approvvigionamento alimentare incidono per un terzo sull’impronta ecologica. Da alcuni anni a questa parte, la FAO (Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura) ha individuato una “via d’uscita alla povertà alimentare” nell’agricoltura urbana, soprattutto nei Paesi in via di sviluppo, dove nei prossimi anni, stando alle stime, si concentrerà buona parte della popolazione mondiale. La crescita demografica comporterà una crescita urbanistica senza precedenti, con enormi conseguenze in termini ambientali. I tassi di urbanizzazione più elevati, sottolineano le Nazioni Unite, riguarderanno i Paesi africani, asiatici e dell’America Latina, dove si registrerà una forte crescita delle cosiddette “megacittà”, cioè aree urbane con oltre 10 milioni di abitanti, e i maggiori problemi legati all’approvvigionamento alimentare (Figura 1).

 

Figura 1. Le città nel mondo con oltre 10 milioni di abitanti dal 1950 al 2025 (fonte: The Guardian, 2013)

 

Modelli di agricoltura urbana del passato

Nel corso della storia, l’agricoltura urbana ha avuto un ruolo significativo per l’economia e lo sviluppo delle città.  Gli archeologi hanno infatti scoperto importanti sistemi di irrigazione e terrazzamenti nelle antiche città degli imperi babilonese e persiano, Incas e delle civiltà che abitarono l’area mediterranea (Figura 2).

 

Figura 2. A. Giardini pensili a Babilonia

 

Figura 2. B. Terrazzamenti agricoli a Machu Picchu

 

Figura 2. C. Terrazzamenti agricoli nell’area mediterranea

 

Ad esempio, la città-fortezza di Machu Picchu, in Perù, era autosufficiente grazie ad un sistema di terrazzamenti che permetteva la coltivazione in un ambiente montuoso (la città si trova ad un’altitudine di circa 2.500 metri). Gli Incas irrigavano i propri campi con le acque reflue e si servivano di semplici tecniche di idroponica. L’agricoltura urbana veniva inoltre praticata a Babilonia, dove, sin dal VI secolo a.C, erano presenti i giardini pensili, e in altre città dell’area mediterranea.

 

L’agricoltura urbana in crescita a livello globale

L’agricoltura urbana è ancora oggi  diffusa in molte aree del mondo dove rappresenta una sorta di “filiera corta” locale. Numerosi casi di studio condotti in alcune città del mondo mostrano l’enorme potenziale dell’agricoltura praticata in città (Figura 3). A Nairobi, in Kenya, le famiglie producono dal 20 al 25% del loro fabbisogno alimentare attraverso l’agricoltura pratica in città. A Dar es Salaam, in Tanzania, l’agricoltura urbana fornisce dal 20 al 30% del cibo necessario a sfamare il 50% delle famiglie. A Kampala, in Uganda, il 55% delle famiglie produce il 40% del proprio fabbisogno alimentare attraverso l’agricoltura urbana, mentre il 32% delle famiglie produce più del 60% di quanto mediamente consuma. A Cuba, esiste una rete di oltre 10 mila ettari di terreni e punti vendita, gli organopónicos, che forniscono ogni anno alle città milioni di tonnellate di verdura e altri generi alimentari. A Lima, in Perù, il 4% del PIL è ottenuto attraverso l’agricoltura urbana. A Montreal, nel Québec (Canada), l’agricoltura urbana è ormai diventato un elemento permanente nei parchi municipali. A Vancouver, in Canada, esiste un’agenzia municipale dedicata alla politica alimentare urbana e il 44% degli abitanti è coinvolto nella produzione di cibo in terreni privati, nei cortili condominiali, nei balconi, nei tetti e nei 17 orti urbani comunitari realizzati dall’amministrazione locale. Dal momento che in Canada circa 2,5 milioni di persone dipendono dalle banche del cibo, la produzione di cibo derivante dall’agricoltura urbana gioca un ruolo fondamentale. Detroit, negli Stati Uniti, dopo la crisi dell’industria automobilistica, aveva perduto il 40% della propria popolazione, ma l’agricoltura urbana ha contribuito a rilanciare la città. Dal 2000 ad oggi sono stati realizzati 1.400 orti comunali, in cui si producono oltre 200 tonnellate di cibo all’anno, e 45 fattorie urbane. Questo ha portato Detroit a diventare una città modello della rivoluzione verde americana. A Lisbona, invece, l’esperienza dei giardini pedagogici ha indotto l’amministrazione cittadina a realizzare una fattoria urbana innovativa, oggi visitata da oltre 100 mila persone ogni anno. Londra produce 232milat di frutta e verdura con una produttività di 10.7 t/ha, a Mosca il 65% delle famiglie è coinvoltoin attività di agricoltura urbana,mentre a  Berlino ci sono 80.000 comunità che praticano l’agricoltura urbana.Nei Paesi del Nord Europa, l’agricoltura urbana non contribuisce solo a sfamare coloro che non possono permettersi una quantità di cibo adeguata alle loro esigenze, ma rappresenta anche l’antidoto contro la dieta delle classi più povere, generalmente iperproteica e povera di vitamine e fibre, a base di junk food (“cibo spazzatura”). I casi di studio esaminati mostrano che l’agricoltura urbana non rappresenta un fenomeno in espansione solo nelle città del Sud del mondo; essa ha trovato l’interesse da parte delle amministrazioni pubbliche e dei cittadini anche nelle città dell’Occidente.

 

Figura 3. Agricoltura urbana in serra (evidenziata in giallo)

 

Nel complesso, secondo la FAO, le persone coinvolte in progetti di agricoltura urbana sono oltre un miliardo (negli anni ’90 erano già 800 milioni) di cui 230 milioni vivono in America Latina e 130 milioni in Africa. Oggi, l’agricoltura urbana, nelle sue diverse forme di sviluppo, può essere uno strumento efficace nella lotta alla fame nel mondo che, tra l’altro, è il primo obiettivo dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite. L’adozione dell’agricoltura in contesti urbani, soprattutto nelle grandi città, oltre ai benefici prima enunciati, contribuisce anche alla lotta al cambiamento climatico, mitigandone gli effetti. Non ultimo, essa risponde alla domanda di naturalità e ruralità richiesta con sempre maggior forza dai cittadini che abitano nelle grandi città del mondo.


Fonti per approfondire:

  • Centro Regionale d’Informazione delle Nazioni Unite (www.unric.org);
  • Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura (www.fao.org);
  • Consorzio Universitario per la Ricerca Socioeconomica e per l’Ambiente (www.cursa.it).

 

Nota:

L’immagine d’intestazione dell’articolo mostra uno scorcio del “vigneto di Montmartre” a Parigi, in Rue des Saules 11 (XVIII arrondissement). La foto è stata scattata da Andrea Campiotti (autore dell'articolo).