Nomadi e stanziali sono stati per millenni due facce della stessa medaglia

di Valerio Calzolaio

Un articolo di Valerio Calzolaio pubblicato il 20 gennaio 2024 su “Il Bo Live” dell’Università di Padova

Il termine italiano “nomadismo” deriva etimologicamente da varie ascendenze in lingue indoeuropee. In greco si riferiva precisamente alla pastorizia, ai pastori e al pascolo. In arabo “bedu” è beduino, nomade, pastore. Il termine italiano “migrazione” ha altre ascendenze. La radice del migrare affonda nell’andare oltre. Donne e uomini sulla Terra stanno in luoghi diversi, cercano apporto alimentare, talora imparano a trovarlo seguendo gli animali o errando, errano per sopravvivere e riprodursi, talora migrano. Il nomadismo dei raccoglitori cacciatori fa riferimento alla ricerca di alimenti di piccoli gruppi o bande in spazi limitati, più che al cambio di biodiversità (e clima). Gruppi della specie talora migrano di conseguenza, si orientano al nomadismo prima per raccogliere vegetali (e acqua), poi per seguire e cacciare erbivori migratori, via via più consapevoli e orgogliosi di essere liberi di muoversi e di cacciare. Il cacciatore del Paleolitico è più errante che nomade. E il nomadismo è una dinamica evolutiva delle specie umane, soprattutto dei sapiens, identitaria con il Neolitico.

Si tratta di vero e proprio nomadismo pastorale quando è organizzato in funzione del capitale animale, prima prevalentemente sulla base delle attività e dei comportamenti degli animali, poi orientato dagli umani. Il nomadismo dei raccoglitori cacciatori prepara, sperimenta, articola, diversifica l’agricoltura e l’allevamento. I nomadi sono costretti ad adattarsi a maggiori variazioni del clima, dei biomi, della biodiversità. Non tutta la specie umana era nomade prima del Neolitico, cioè consapevolmente coerentemente efficacemente dotata di una tecnica relazionale con luoghi più o meno ampi, con l’ambiente, con il clima, con l’acqua, con la terra. Il nomadismo poteva essere una tecnica di sopravvivenza, talora forzato, occasionale, regressivo. Riguardava alcuni gruppi, in alcuni continenti, in alcuni periodi. Risulta diventare un’identità sociale riconoscibile e consapevole solo lentamente. Migrare era una sequenza progressiva di risposte adattative, una strategia evolutiva di sopravvivenza ed adattamento, all’interno della quale vi poteva anche essere, da un certo momento in poi, l’attività pastorale nomade.

Fra i suggerimenti di lettura della nostra redazione per le recenti festività a cavallo fra il 2023 e il 2024, è stato autorevolmente indicato anche un bellissimo interessante saggio di Anthony SattinNomadi. I popoli in cammino che hanno plasmato le nostre civiltàNeri Pozza Vicenza 2023 (orig. 2022), pag. 425. Opportunamente, l’autore concentra l’attenzione sui millenni del Neolitico, pur non approfondendo la discussione sull’utilizzo del termine e l’esistenza del fenomeno durante i precedenti lunghissimi articolati milioni di anni del Paleolitico.  L’ipotesi è chiara e convincente: per la maggior parte degli ultimi dieci mila anni il rapporto tra popolazioni nomadi e popolazioni sedentarie è stato complementare e interdipendente, fortune e crisi intrecciate. Tuttavia noi sedentari ricostruiamo storie e geografie a nostra immagine e somiglianza, meglio esserne consapevoli; ancor meglio risulta studiare e cercare di comprendere come e perché tanti gruppi di sapiens siano sempre restati in movimento anche alla fine dell’ultimo periodo glaciale, preferendo leggerezza di strutture e continui equilibrati adattamenti con gli ecosistemi circostanti.

Una volta eravamo tutti cacciatori e tutti raccoglitori: i primi a smettere di fare l’una e l’altra cosa risalgono a non più di dodicimila anni fa. Il che non significa che prima eravamo tutti nomadi, piuttosto erranti. Sattin ritorna utilmente sull’etimologia: alle radici del termine indoeuropeo nomos vi è il “pascolo”, uno specifico modo di “cacciare”. Poi il termine nomas indicò qualcuno errante in cerca di pascoli. Le tribù pastorali erranti erano sia nomadi che stanziali, una parallela evoluzione si collegò ai cambiamenti climatici strutturali (che resero possibili allevamento e agricoltura) o frequenti (più o meno ciclici o stagionali). Dopo la costruzione dei primi agglomerati urbani e l’insediamento “residenziale” di un gran numero di persone, il termine “nomade” prese a essere utilizzato per indicare genti che vivono senza mura, ossia ai margini dei centri abitati. Oggi noi sedentari lo usiamo in due modi molto diversi, spiega l’autore: con un senso di nostalgia romantica e vagabonda, da una parte; come un carattere di sbandati senza fissa dimora, “sconosciuti” dall’altra parte.

Dodicimila anni fa la maggior parte dei (forse) cinque milioni di sapiens viventi erano nomadi, per millenni comunità, popoli e imperi di nomadi sono restati ampi e potenti, ma hanno lasciato meno testimonianze scritte o “fisse”, poco leggibili con le lenti dei sedentari. Eppure… Il giornalista, storico, conduttore televisivo e scrittore di viaggi Anthony Sattin (1956) rilegge in modo appassionante la preistoria e la storia dal punto di vista dei gruppi umani in movimento, dai trionfi passati che hanno sempre e comunque plasmato le nostre civiltà, alla riduzione progressiva di numero e a una sorta di demonizzazione attuale dei “nomadi”. La prima parte del volume riguarda i tanti primi millenni del Neolitico in cui le popolazioni stanziali e quelle nomadi (che comunque entrambe scolpivano ed erigevano monumenti, avevano culti e celebravano i luoghi dei morti, tramandavano storie) per lo più convivevano e collaboravano, poiché l’umanità passò certo per gradi dalla caccia e dalla raccolta dei “frutti” della terra (talora poi da far fermentare con un secondo lavoro, l’autore accenna frequentemente a farina, birra e vino) all’agricoltura e alla pastorizia….

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Cosa contiene il Piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici

di Francesco Suman

Alluvione in Emilia Romagna, 2023. Flickr (da Il BO LIVE)

Un articolo di Francesco Suman pubblicato il 15 gennaio 2024 su Il Bo Live dell’Università di Padova

dati rilasciati dal sistema di monitoraggio europeo Copernicus a inizio gennaio hanno confermato che il 2023 è stato l’anno più caldo che la civiltà umana abbia mai vissuto. Temperature più alte si sono esperite solo più di 125.000 anni fa. La media si è assestata a +1,48°C rispetto al periodo pre-industriale, ma pressoché tutta la seconda metà dell’anno ha superato 1,5°C, sforando addirittura i 2°C a metà novembre. Tutti i giorni dell’anno sono invece stati stabilmente al di sopra di 1°C: non era mai successo da quanto si monitora il clima.

Carlo Buontempo, direttore di Copernicus, ha commentato che “gli eventi estremi osservati negli ultimi mesi forniscono una testimonianza drammatica di quanto lontano siamo dal clima in cui la nostra civiltà si è sviluppata”. L’accordo di Parigi richiede agli Stati di ridurre le emissioni per restare al di sotto di 2°C, possibilmente 1,5°C, soglie oltre le quali il funzionamento di società ed ecosistemi verrebbe compromesso da un clima a cui semplicemente non sono adattati.

Copernicus 2023
Copernicus storico

Secondo il World Economic Forum, i primi quattro posti dei maggiori rischi che il mondo corre nei prossimi 10 anni sono occupati da eventi meteorologici estremi, impatto del cambiamento climatico sul sistema Terra, perdita di biodiversità e collasso ecosistemico, carenza di risorse naturali. Ogni Paese dovrà fare la propria parte non solo per mitigare il riscaldamento globale, ma anche per adattarsi ai cambiamenti già avvenuti e ormai irreversibili.

Dopo anni di attesa, a inizio gennaio il Ministero dell’ambiente e della sicurezza energetica (Mase) ha approvato il Piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici (Pnacc). Il testo è puntuale sull’analisi scientifica dell’andamento climatico in Italia, passato e futuro, ma non lo è altrettanto sul fronte operativo: in particolare mancano indicazioni precise sui fondi da destinare alle oltre 360 misure elencate.

Per questo occorrerà attendere l’attivazione della struttura di governance, l’Osservatorio nazionale sull’adattamento ai cambiamenti climatici, la cui nascita è prevista entro tre mesi dall’approvazione del Pnacc e che dovrà definire ruoli, responsabilità e priorità delle azioni, oltre ai finanziamenti che le supportano.

Sono tante, dettagliate e fortemente interconnesse tra loro le misure di adattamento di cui l’Italia ha bisogno. Città, trasporti, infrastrutture, patrimonio culturale, produzione energetica (specialmente quella idro e termoelettrica), agricola, ittica, turismo, salute, e ancora foreste, suolo, biodiversità, acque dolci e di mare: non c’è ambito che non venga interessato dai cambiamenti climatici e che dunque deve adattarsi.

“L’Italia, tra i paesi dell’Unione Europea, detiene il triste primato del valore economico delle perdite subite, tra i 74 e i 90 miliardi di euro negli ultimi 40 anni, e tra i 1500 e i 2000 euro pro capite” si legge nel Piano. A fronte di un aumento dei fenomeni meteorologici estremi come alluvioni e siccità che si affiancano agli impatti di lungo termine, con le sue caratteristiche morfologiche peculiari, 8.000 km di costa e una straordinaria biodiversità, l’Italia “rischia di pagare un prezzo altissimo in termini di capacità produttiva, perdita di Pil e di posti di lavoro”. Servono “azioni sistemiche”, riporta il documento, “maggiori incentivi, anche fiscali, per i sistemi di produzione innovativi, sostenibili ed a impatto climalterante ridotto”.

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su ilbolive.unipd.it

COP 28: facciamo un bilancio

Un articolo di Simone Orlandini e Giulia Galli
pubblicato su Georgofili INFO il 10 gennaio 2024

“Il 12 dicembre si è conclusa a Dubai (Emirati Arabi Uniti) la 28esima Conferenza delle Parti, l’incontro che vede i Paesi del mondo riunirsi per discutere gli interventi per contrastare il cambiamento climatico. Una COP28 delle contraddizioni e delle prime volte, potremmo dire. Delle contraddizioni, perché organizzata in un paese la cui ricchezza è basata sull’estrazione del petrolio e presieduta dall’amministratore delegato della principale azienda petrolifera emiratina. Delle prime volte, perché sono state dedicate intere giornate a temi che finora non erano mai stati affrontati così ampiamente. Stare al passo con le montagne russe di eventi che si sono susseguiti nell’arco di due settimane, dal 30 novembre al 12 dicembre, non è facile. Ma andiamo con ordine.
Questa COP era partita con molto entusiasmo con l’adozione, durante la prima sessione plenaria, del Loss and Damage Fund (fondo a compensazione di perdite e danni) a favore dei Paesi più fragili. Proposto nella precedente COP27, prevede l’istituzione di un fondo che vada ad aiutare economicamente quei Paesi che più risentono della crisi climatica in termini di danni, ma che meno contribuiscono alle emissioni. L’obiettivo è stanziare 100 miliardi di dollari all’anno entro il 2030; purtroppo siamo ben lontani dal raggiungerlo. Per dare qualche numero, l’Unione Europea ha promesso 225 milioni, gli Emirati Arabi Uniti 100 milioni, il Giappone 10,5 milioni e gli USA (solo) 17,5 milioni di dollari. E l’Italia? A sorpresa, la premier Giorgia Meloni ha dichiarato che il nostro Paese metterà a disposizione 100 milioni di euro. Resta tuttavia da capire che forma prenderanno questi finanziamenti.
Durante la prima settimana di COP28 si è parlato anche di finanza climatica, just transition, diritti umani, dell’importanza della biodiversità e del ruolo delle comunità indigene, oltre a dedicare – per la prima volta – due giornate al tema della salute e a quello dell’agricoltura e sistemi alimentari. Proprio quest’ultimo aspetto ha fatto sì che si parlasse di “COP del cibo”: nonostante il settore agricolo sia considerato allo stesso tempo causa e vittima dei cambiamenti climatici, non gli era mai stato dato ampio spazio all’interno di una COP sul clima…. Vai all’articolo 

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