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L’inquinamento da plastica minaccia il nostro futuro

Una ricerca della Cornell University stima che siano presenti nelle acque di tutto il mondo almeno 11,1 miliardi di oggetti di plastica. Senza un cambio di rotta, sottolinea l’UNEP, nei mari e negli oceani ci sarà più plastica che pesci entro il 2050. Papa Francesco nel suo discorso in occasione della Giornata mondiale di preghiera per la cura del Creato annuncia: “Non possiamo permettere che i mari e gli oceani si riempiano di distese inerti di plastica galleggiante”.


Il messaggio di Papa Francesco

“Non possiamo permettere che i mari e gli oceani si riempiano di distese inerti di plastica galleggiante. Anche per questa emergenza siamo chiamati a impegnarci, con mentalità attiva, pregando come se tutto dipendesse dalla Provvidenza divina e operando come se tutto dipendesse da noi”. Con queste parole Papa Francesco ha voluto rinnovare il suo messaggio ambientalista nel discorso  pronunciato in occasione della Giornata mondiale di preghiera per la cura del Creato, lo scorso 1 settembre. Al centro del discorso del Papa non c’è solo il problema della carenza di acqua potabile, ma l’acqua in generale, come bene universale, unico e inestimabile. Il Papa ha inoltre citato la principale problematica che affligge le acque di tutto il mondo e contro la quale, soprattutto negli ultimi anni, si sta schierando l’azione ambientalista globale: l’inquinamento da plastica. La plastica avvelena la terra, le acque, l’aria (se bruciata), intossica animali e vegetali, entrando nella catena alimentare (anche la nostra), finendo nel cibo che mangiamo e nell’acqua che beviamo. Una ricerca della Cornell University di Ithaca (Stati Uniti), apparsa sulla rivista scientifica Science a gennaio di quest’anno, ha stimato che siano presenti nelle acque globali almeno 11,1 miliardi di oggetti di plastica,  che rappresentano una seria minaccia per i 124 mila coralli (Figura 1) che costituiscono a loro volta le 159 barriere coralline presenti nel Pacifico nelle aree geografiche del Myanmar, Tailandia, Indonesia e Australia.

 

Figura 1. Coralli avvolti dalla plastica (fonte: Science) 
 

Secondo le stime riportate nello studio, la quantità di rifiuti plastici presenti sulle barriere coralline aumenterà di altri 15 miliardi di unità entro il 2025. A questo proposito, l’UNEP, l’Agenzia Onu per l’Ambiente, da anni ha lanciato l’allarme: senza un cambio di rotta, nei mari e negli oceani ci sarà più plastica che pesci entro il 2050. 

 

I rifiuti plastici contribuiscono al riscaldamento globale

Secondo uno studio dell’Università delle Hawaii, apparso di recente sulla rivista scientifica PlosOne, i rifiuti plastici dispersi nelle acque di tutto il mondo contribuiscono alle emissioni di gas serra e quindi al riscaldamento globale. Lo studio, inoltre, riporta che la plastica presente nei mari e negli oceani, degradando, emette anche due gas serra, l’etilene e il metano. Quest’ultimo, sebbene resista meno all’atmosfera rispetto all’anidride carbonica, nel periodo in cui è attivo è capace di produrre un riscaldamento 25 volte superiore a quello generato dalla CO2. Il team di ricercatori che ha condotto lo studio ha osservato per un periodo di circa sette mesi il processo di degradazione di alcuni dei materiali plastici più diffusi, tra i quali policarbonati, acrilici, polipropilene e polietilene e hanno scoperto che il polimero più impattante in termini di produzione di gas serra è il polietilene (PE). Il polietilene è anche il polimero sintetico più utilizzato al mondo e rappresenta circa il 36% di tutta la plastica prodotta a livello globale. Il PE è molto usato in agricoltura per la copertura di serre e per la pacciamatura di piante coltivate in pieno campo. Viene inoltre utilizzato per gli imballaggi, per il rivestimento interno della maggior parte delle confezioni, per i tubi, per i tappi e per molti altri prodotti di largo consumo, risultando il rifiuto plastico più diffuso nell’ambiente. Tuttavia, lo studio sottolinea che la plastica non è ancora riconosciuta come fonte di emissione di gas serra. Comunque, le emissioni derivanti da questi materiali aumenteranno man mano che la plastica andrà ad accumularsi nelle acque perché il processo di decomposizione, causato da luce, calore, umidità, ossidazione chimica e altre attività biologiche, produce cambiamenti nella struttura fisica e chimica del materiale. Inoltre, si legge nello studio, la plastica non si degrada solo quando viene gettata in acqua ma anche a causa dell’irraggiamento solare in ambienti non bagnati. In questo caso la produzione di etilene è addirittura 76 volte maggiore di quella in ambiente acquatico. Il processo di degradazione della plastica, sia in ambiente asciutto che acquatico, porta spesso alla formazione di unità sempre più piccole, le microplastiche, che moltiplicano gli elementi soggetti alla decomposizione, accelerando, di conseguenza, il numero di fonti di emissione di gas serra. Dati il ritmo veloce con cui la plastica viene prodotta, utilizzata e gettata via (a livello globale, solo il 15% della plastica viene riciclato) e il fatto che oltre 8 milioni di tonnellate di materiali plastici finiscono ogni anno nella acque globali, ai quali vanno aggiunti quelli dispersi sulla terraferma, le emissioni di gas serra, derivanti dal processo di degradazione, continueranno ad aumentare nei prossimi anni. 

 

Al via il super progetto per ripulire gli oceani

La speranza di avere degli oceani puliti finalmente privi di rifiuti plastici non è ancora morta. Sabato 8 settembre è stato avviato a San Francisco l’Ocean Cleanup Project (Figura 2), il super progetto ideato per ripulire gli oceani dalla plastica. Dopo cinque anni di sviluppo il sistema automatico di raccolta dei rifiuti plastici è pronto alla prova. Questo sistema, ideato dal giovane ingegnere olandese Boyan Slat,  è  costituito da una catena di barriere galleggianti della lunghezza di due chilometri poste in favore delle correnti che, in questo modo, convogliano la plastica verso piattaforme che fungono da imbuto (Video). Le barriere possiedono delle “gonne”, ovvero dei prolungamenti che si estendono sotto la superficie dell’acqua che consentono di raccogliere la plastica sommersa. Grazie alla sua conformazione, il sistema assume una forma ad “U” mentre si muove, consentendo così di incanalare la plastica verso il centro. Nel lungo viaggio di pulizia degli oceani, si prevede che navi di supporto intervengano periodicamente per rimuovere la plastica accumulata. Il sistema è inoltre dotato di luci alimentate ad energia solare e sensori che comunicano la sua posizione in ogni momento.

 

Figura 2. Ocean Cleanup Project (immagine realizzata al computer)

 

Il primo obiettivo del progetto sarà quello di ridurre del 50% il Pacific Trash Vortex (Figura 3), cioè l’enorme “isola di plastica” creatasi nell’Oceano Pacifico ad ovest degli Stati Uniti (con un estensione di circa 1,6 milioni di metri quadrati dove galleggiano oltre 80 mila tonnellate di rifiuti plastici), entro cinque anni e del 90% entro il 2040.

 

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Figura 3. Pacific Trash Vortex (“Grande chiazza di immondizia nel Pacifico”) vista dal satellite 

 

Se la tecnologia dovesse dare i risultati sperati, spiegano i responsabili del progetto, potrebbe essere la prima di una “flotta galleggiante” composta da altri 60 sistemi destinata alla pulizia delle acque globali che entrerà in funzione a partire dal 2020.

biologica driver sviluppo principale

L’agricoltura biologica driver di sviluppo dell’economia italiana

Secondo un rapporto dell’Eurostat l’Italia si conferma terza economia agricola in Europa, con 12 milioni di ettari di superficie utilizzata e il 12% del fatturato del settore dell’area Ue. L’Italia leader anche nel settore dell’agricoltura biologica: in testa alla classifica Sicilia, Puglia e Calabria. L’agricoltura biologica tema centrale al Salone Internazionale del biologico e del naturale in programma a Bologna dal 7 al 10 settembre.


L’Italia si conferma terza economia agricola in Europa

Con circa 12 milioni di ettari di superficie utilizzata, l’agricoltura italiana realizza oltre il 12% del fatturato del settore nell’area Ue, confermandosi terza economia agricola in Europa dopo Francia (17% del fatturato e 28 milioni di ettari) e Germania (13% e 15 mln di ettari). Questo è quanto emerge da un recente rapporto dell’Eurostat, l’Ufficio statistico dell’Unione europea, sul settore agricolo in Europa. In particolare, l’agroalimentare, nel suo complesso, rappresenta una delle maggiori risorse economiche per l’Italia: 61 miliardi di euro di valore aggiunto, 1.4 milioni di occupati (pari al 5,5% degli occupati in Italia), di cui 900 mila impiegati nell’agricoltura, oltre 1 milione di imprese e 41 miliardi di euro di esportazioni. Questi alcuni dei dati presenti nell’ultimo Rapporto sulla Competitività dell'agroalimentare italianorealizzato da ISMEA (Istituto di Servizi per il Mercato Agricolo Alimentare). Dal rapporto emerge che il settore agricolo italiano, confrontato con quello degli altri Paesi europei, sembra che abbia retto e che stia reggendo tuttora meglio negli anni di crisi economica. La riduzione del numero di occupati in ambito agricolo, registrata in questi anni, risulta essere inferiore alla media europea: -6,7% a fronte del 17,5% di media all’interno dell’Unione europea. Inoltre, il settore, sebbene si sia arrestato a partire dal 2013, ha tuttavia recuperato circa il 3% negli ultimi 5 anni. Ciò è dovuto, sottolinea l’ISMEA, soprattutto alla spinta della componente giovanile tra gli occupati in agricoltura, in controtendenza rispetto alla dinamica negativa prevalente nel resto dei Paesi europei (-7,4%). Tuttavia, in Italia il salario medio annuo per il lavoratore agricolo risulta essere ancora tra i più bassi d’Europa: 7.930 euro rispetto ai 20.133 medi di tutte le altre attività economiche del Paese. Altra problematica che riguarda il settore agricolo nostrano è l’uso dei pesticidi, che ha drammatiche ricadute sulla salute degli ecosistemi e dei consumatori. Secondo l’Annuario dei dati ambientali ISPRA (Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale), aggiornato al 2018, le acque superficiali e sotterrane italiane risultano contaminate da pesticidi e altri prodotti fitosanitari, in particolare da glifosato.

Tuttavia, fa sapere Legambiente nel suo rapporto “Stop Pesticidi – Analisi dei residui di pesticidi negli alimenti e buone pratiche agricole”, nel 2017 si sono registrate tracce di un solo residuo di pesticida nel 19,9% dei campioni di frutta, verdura e prodotti trasformati analizzati. Però, emerge dal rapporto, il 38,8% dei campioni analizzati mostrava la presenza di mix di sostanze particolarmente pericolose a causa degli effetti potenziati dall’azione sinergica dei vari componenti. Di qui e dall’urgenza di tutelare la salute del suolo e degli ecosistemi, nonché quella dei consumatori, nasce la richiesta sempre più crescente di prodotti ottenuti da colture biologiche, quindi senza l’utilizzo di sostanze di sintesi. A questo proposito, secondo un rapporto dell’ISPRA, nel 2016 oltre 300 mila ettari di terreno agricolo sono stati convertiti ad agricoltura biologica. Inoltre, secondo i dati SINAB (Sistema d’Informazione Nazionale sull'Agricoltura Biologica), aggiornati al 2017, la superficie adibita ad agricoltura biologica in Italia ha raggiunto quota 1 milione e 796 mila ettari, con una crescita del 20,4% rispetto al 2016. A detenere il record di maggiore superficie coltivata con metodo biologico in Italia è la Sicilia con 363.688 ettari. Seguono la Puglia con 255.853 ettari e la Calabria con 204.527 ettari. Nel complesso, la superficie biologica di queste tre regioni messe insieme detiene il 46% della superficie adibita ad agricoltura biologica a livello nazionale. Le stesse tre regioni sono prime anche nella classifica del numero di operatori nel settore: la Sicilia è in testa con 11.451 aziende operanti nel settore; seguono Calabria con 11.330 e Puglia con 10.029.
 

Al via a Bologna il Salone internazionale del biologico e del naturale

L’agricoltura biologica sarà il tema chiave del Salone Internazionale del biologico e del naturale  in programma a Bologna dal 7 al 10 settembre. Giunto quest’anno alla sua 30esima edizione, il Salone ospiterà numerose aree espositive, convegni e workshop sui temi dell’agricoltura biologica, della sana alimentazione, della cura del corpo attraverso metodi naturali e del green lifestyle. Il Salone è organizzato da BolognaFiere in collaborazione con FederBio e con il patrocinio del ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare e rappresenta un punto di riferimento per coloro che operano nel settore dell’agricoltura biologica, dove l’Italia è tra i maggiori leader in Europa e la cui crescita nel mondo dura ininterrottamente da oltre quindici anni (Figura 1).

 

Figura 1. Paesi dove è presente il comparto dell’agricoltura biologica

 

Secondo BioBank, la banca dati del settore biologico italiano, i negozi specializzati in prodotti bio in Italia sono 1.437, di cui oltre la metà concentrato nel Nord del Paese. In testa alla classifica dei prodotti bio più venduti compaiono uova, gallette di riso soffiato, confetture e affini, sostituti del latte, olio extra vergine d’oliva, latte, pasta integrale/farro (Figura 2). Inoltre, i prodotti bio sono confezionati in modo tale da distinguersi da quelli presenti sugli scaffali dei negozi che non vendono biologico (per il 40% dei consumatori italiani, ad esempio, il packaging ecologico di un prodotto è fondamentale per la vendita del prodotto stesso). In particolare sono due le categorie di prodotti che stanno incontrando sempre maggior interesse tra i consumatori italiani: quelli con proprietà benefiche per la salute e quelli vegetariani e vegani.

 

Figura 2. Prodotti biologici più venduti in Italia (fonte: Nielsen Trade Mis per Assobio, 2018)

 

La vendita dei prodotti vegani e vegetariani è in forte crescita: Mintel stima che l’11% di tutti i prodotti alimentari e delle bevande lanciati sui mercati internazionali nel 2018 siano stati vegetariani (il 5% è stato vegano). Questo significa che circa un prodotto su sei che ha fatto ingresso nel mondo dei consumi afferisce alla sfera “veg” (note a fine articolo). La crescita nelle vendite di prodotti vegetariani e vegani è a livello globale e riguarda non solo i consumatori che hanno intrapreso stili di vita vegetariani e vegani, ma un pubblico sempre più ampio, che attribuisce loro un valore sotto l’aspetto salutistico, etico e qualitativo. Non fa eccezione l'Italia, dove vegetariani e vegani rappresentano oggi circa l’8% della popolazione e dove sono presenti oltre 53 mila ristoranti con menù dedicati ad un'offerta “veg” (Rapporto Eurispes 2018). Al Salone Internazionale del biologico e del naturale a Bologna si parlerà anche di alimentazione vegana: è, infatti, in programma negli stessi giorni del Salone il VeganFest, il più importante appuntamento in Italia sul mondo del vegano.


Nota:

“Vegetariano”: deriva dall’ingl. “vegetarian”, tratto da veget(able), cioè “vegetale”. Il “vegetarianismo” consiste in una alimentazione limitata a cibi vegetali o, nelle forme meno radicali, estesa ad alcuni prodotti animali come uova, latte e i suoi derivati.

“Vegano”: adattamento ital. dell’ingl. “vegan”. Il “veganismo” è la concezione dietetica che rappresenta la forma più radicale del “vegetarianismo”, escludendo dall’alimentazione umana qualsiasi alimento di provenienza animale (e quindi anche latte e derivati, uova, miele) e consentendo solo l’uso di alimenti vegetali.

Fonte: Enciclopedia Treccani (www.treccani.it)

Nel mirino dello spreco principale

Nel mirino dello spreco un terzo della produzione europea di frutta e verdura

Sprechiamo ogni anno a livello globale 1,6 miliardi di tonnellate di cibo per un valore economico di 1.200 miliardi di dollari. Secondo uno studio dell’Università di Edimburgo un terzo della produzione europea di frutta e verdura, circa 50 milioni di tonnellate, viene sprecato perché non rispetta gli standard estetici. Tutto ciò avviene a fronte degli oltre 800 milioni di persone nel mondo che soffrono di denutrizione cronica.


Quanto costa lo spreco alimentare

Nel 2030 sprecheremo in tutto il mondo una quantità di cibo pari a 2,1 miliardi di tonnellate con una frequenza media di circa 66 tonnellate ogni secondo per un valore economico di 1.500 miliardi di dollari. Questo è quanto emerge dal rapporto sul tema dello spreco alimentare del Boston Consulting Group, multinazionale statunitense di consulenza di management. Già oggi, sottolinea il rapporto, vengono sprecate ogni anno 1,6 miliardi di tonnellate di cibo, circa un terzo del cibo prodotto a livello globale, per un valore di 1.200 miliardi di dollari (Figura 1). Tutto ciò avviene a fronte degli oltre 800 milioni di persone, ovvero il 10,7% della popolazione globale, che, secondo le ultime stime della FAO (Organizzazione delle Nazioni Unite per l'alimentazione e l'agricoltura), soffrono di denutrizione cronica. Inoltre, sempre secondo i dati dell’Organizzazione, i rifiuti alimentari e le perdite rappresentano un peso ambientale non indifferente, dal momento che causano l’8% delle emissioni globali di CO2.

 

Figura 1. Lo spreco alimentare in termini economici (fonte: Rapporto 2018 del Boston Consulting Group)

 

In particolare, i maggiori sprechi si registrano nei paesi in via di industrializzazione dove la popolazione è in forte crescita. Tuttavia, mentre nei paesi in via di sviluppo i rifiuti si generano soprattutto durante i processi produttivi, nei paesi ricchi i rifiuti sono causati principalmente dalla grande distribuzione e dai consumatori che buttano via il cibo perché ne hanno acquistato troppo o perché non soddisfa determinati standard estetici (la Figura 2 riporta gli standard estetici per alcuni tipi di frutta presi in considerazione soprattutto dalla grande distribuzione). Tuttavia, ancora oggi, il mondo della piccola agricoltura produce il 70% del totale dei prodotti alimentari. Inoltre, le filiere corte-biologiche-locali contribuiscono a ridurre gli sprechi pre-consumo al 5% a fronte del 30-50% dei sistemi industriali; ciò significa che chi si rifornisce solo attraverso le reti alternative spreca un decimo di chi si usa solo canali convenzionali. Infatti, i sistemi di agricoltura supportata da comunità (CSA) abbattono al 7% gli sprechi contro il 55% dei sistemi di grande distribuzione organizzata. Il tutto considerando solo gli sprechi convenzionali, ovvero sprechi/perdite dalla produzione al consumo (dati ISPRA, 2017).

 

Figura 2. Standard estetici di alcuni tipi di frutta (fonte: Agea – Agenzia pubblica per i controlli  in agricoltura)

 

Lo studio dell’Università di Edimburgo

Del tema degli standard estetici di frutta e verdura si è occupata l’Università di  Edimburgo che in un suo recente studio ha tratteggiato una situazione sconcertante: oltre un terzo della frutta e della verdura prodotto ogni anno in  Europa, circa 50 milioni di tonnellate di prodotti agricoli, non arriva sugli scaffali perché troppo “brutto”, o per la forma, o per dimensioni, secondo gli standard estetici imposti dalla grande distribuzione organizzata. Dallo studio emerge che, all’interno dell’Unione europea, si seguono degli standard estetici ben precisi che vengono usati per la classificazione, l'accettazione, la vendita e il consumo di cibo. Il team di ricercatori che ha condotto lo studio spiega che alcuni standard imposti dall’Unione europea potrebbero essere modificati a vantaggio di tutti, compresi i consumatori. Ad esempio, le carote classificate come “imperfette” per le loro ridotte dimensioni potrebbero rientrare nella categoria “baby carote”. Infatti, secondo lo studio, il 10% della produzione totale di carote in Europa viene scartato ogni anno a causa della forma e o delle dimensioni, incompatibili con gli standard imposti dall’Ue. I ricercatori sottolineano che gli agricoltori che hanno dei contratti con i supermercati generalmente coltivano più cibo di quello che sono obbligati a fornire, dal momento che una percentuale della frutta e della verdura consegnate non saranno ritenute adatte ad essere vendute. Al contempo, i consumatori si sentono più propensi ad acquistare qualcosa di familiare e, a causa della scarsa conoscenza e informazione, ritengono che sia più rischioso acquistare frutta e verdura che non corrispondo a determinate caratteristiche. A ciò si aggiungono, sottolineano i ricercatori dell’Università di Edimburgo, gli enormi costi legati allo spreco alimentare in termini di impatto ambientale: il cambiamento climatico collegato alla coltivazione del cibo sprecato, si legge nello studio, è, ad oggi, pari alle emissioni di anidride carbonica di 400 mila automobili e sarà destinato ad aumentare, se non si prenderanno al più presto provvedimenti al riguardo.
 

I principali provvedimenti contro lo spreco alimentare

La Tabella 1 riporta i principali provvedimenti a livello nazionale ed europeo contro lo spreco alimentare:

PROVVEDIMENTO

FONTE

OBIETTIVO

“Pacchetto “economia circolare”

Commissione Europea, dicembre 2015

Riduzione dei rifiuti alimentari nelle fasi di vendita al dettaglio e consumo finale del 30% per il 2025 e del 50% entro il 2030, rispetto ai valori del 2014.

Piano nazionale di prevenzione dello spreco alimentare (PINPAS)

MAATM, 2014

Si pone l’obiettivo di individuare le azioni prioritarie per la lotta allo spreco alimentare.

Legge n. 166 del 3.8.2016

Parlamento Italiano, 2016

Il provvedimento definisce per la prima volta nell'ordinamento italiano i termini di “eccedenza” e “spreco alimentare”. Le eccedenze alimentari non idonee al consumo umano possono essere cedute per alimentare animali e per autocompostaggio o compostaggio aerobico di comunità.

Strategia nazionale di sviluppo sostenibile

Consiglio dei Ministri, 2 ottobre 2017

Mette in relazione l’obiettivo 12.3 dell’Agenda 2030 sullo spreco alimentare con l’obiettivo strategico “Garantire la sostenibilità di agricoltura e silvicoltura lungo l’intera filiera” all’interno della scelta strategica “Affermare modelli sostenibili di produzione e consumo”.

Nota: Per maggiori dettali, si veda il Rapporto 267/2017, ISPRA (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale.

Tabella 1. Provvedimenti nazionali ed europei contro lo spreco alimentare