cimice asiatica

Trovato l’antagonista naturale della famigerata cimice asiatica

La cimice asiatica colpisce i raccolti di frutta e cereali da Nord a Sud. Il Crea (Consiglio per la ricerca in agricoltura e l’analisi dell’economia agraria) di Firenze ha individuato l’antagonista naturale in grado di parassitare le uova della cimice asiatica impedendone la proliferazione.


Una minaccia per l’agricoltura

È in corso un’invasione, da alcuni definita biblica, della cimice asiatica, nome scientifico Halyomorpha halys. La cimice sta colpendo da Nord a Sud i raccolti di frutta e cereali, causando gravi danni agli agricoltori italiani. Come altri parassiti alieni comparsi in Italia negli ultimi anni, la cimice asiatica si diffonde attraverso le attività umane (trasporti, prodotti vegetali importati e turismo). Non attacca direttamente persone, animali e oggetti anche se emana cattivi odori se schiacciata. Inoltre, fanno sapere gli esperti, se presente in sciami, può procurare danni agli impianti di ventilazione di case ed edifici commerciali. Grazie alla sua elevata polifagia (sono conosciuti più di 120 differenti ospiti) la cimice può causare gravi danni su oltre 300 specie di piante. In Italia, le maggiori perdite sono state riportate presso numerose aziende agricole, soprattutto in Piemonte, Emilia Romagna, Veneto e Friuli, dove ha praticamente distrutto il 40% dei raccolti di soia e frutta. In particolare, sono a rischio soprattutto le coltivazioni di pere e kiwi che rappresentano per il nostro Paese colture di punta nel mercato frutticolo a livello Europeo e mondiale: l’Italia è il primo Paese al mondo per la coltivazione di kiwi, con circa 470.000 tonnellate e il terzo produttore di pere, dopo Cina e USA, con oltre 670.000 tonnellate (Centro Servizi Ortofrutticoli, 2016). La cimice causa danni importanti anche alle coltivazioni di mele, pesche e uva. La puntura della cimice asiatica può essere fatale: se avviene nella fase iniziale di sviluppo del frutto, si creano fossette e aree necrotiche sulla superficie esterna; se, invece, la puntura avviene nella fase di maturazione, si formano  malformazioni che rendono il frutto deprezzato o non commercializzabile.

 

Figura 1. Attacco della cimice su pera  

 

Figura 2. Attacco della cimice su pesca

 

Complice dell’invasione di cimici asiatiche è anche il cambiamento climatico: da anni ormai assistiamo infatti ad autunni con temperature sopra le medie stagionali, che favoriscono il proliferare dell’insetto. La mappa riporta la distribuzione della cimice asiatica a livello globale:

 

Figura 3. Distribuzione dell’Halyomorpha halys (cimice asiatica) nel mondo. Le aree di colore scuro indicano gli habitat più adatti al proliferare della cimice, mentre quelle di colore più chiaro gli habitat meno adatti. Fonte: Tim Haye et al., J. Pest Sci (2015).

 

Di cosa si tratta

L’Halyomorpha halys (cimice asiatica) appartiene alla famiglia dei Pentatomidae, è originario dei Paesi Asiatici e prolifera soprattutto in aree tropicali e sub-tropicali del pianeta. I ricercatori riportano che questo fitofago era presente già dagli anni Novanta in Cina (dove ha finora causato danni per oltre 1 miliardo di dollari), Taiwan, Giappone e Corea del Sud, per raggiungere gli Stati Uniti nel 1998. In Europa, è apparso nel 2004 in Svizzera e in seguito in Francia, Germania, Ungheria, Grecia. In Italia, il primo esemplare di cimice asiatica è stato rinvenuto nel 2012 in Emilia Romagna, nei pressi di Modena. Nel 2013 l’insetto ha raggiunto Piemonte, Lombardia, Veneto e Friuli. Le cimici adulte sono di colore grigiastro-brunastro, hanno bande scure sul bordo esterno dell’addome e raggiungono una lunghezza compresa tra i 12 e 17 millimetri. Appena nate le neanidi (stato giovanile dell’insetto) sono di colore giallastro con punte di colore nero; poi con la crescita presentano piccole spine sul protorace e sul capo.

 

Figura 4. Uova e neanidi di Halyomorpha halys (cimice asiatica)

 

In primavera le cimici fuoriescono dai “ricoveri invernali” e si portano sulla vegetazione, dove si nutrono e si accoppiano, quindi in estate le femmine depongono sulle foglie fino a 285 uova all’anno (Dioli P., Leo P., Maistrello L., 2016). Nelle regioni italiane con un clima più mite, il fitofago compie una sola generazione all’anno, mentre nelle aree subtropicali può arrivare a sei generazioni. Durante lo sviluppo, le giovani cimici si nutrono della linfa vegetale che trovano nelle foglie. Verso settembre, divenuti ormai adulti, gli insetti si aggregano e cercano crepe e fessure nei muri delle abitazioni e nei telai di porte e finestre, dove passano l’inverno (svernamento).

 

Il Crea trova la soluzione

Il CREA di Firenze ha trovato una soluzione alla pericolosa invasione di questo insetto alieno, cercando quali fossero gli antagonisti naturali della cimice. Tra i molti insetti selezionati, ha individuato quello che sembra essere finora l’unico antagonista capace di combattere la cimice.

 

Figura 5. Femmina di Ooencyrtus telenomicida in procinto di parassitare le uova di cimice asiatica

 

Il suo nome scientifico è Ooencyrtus telenomicida ed è un micro-imenottero, con una lunghezza compresa tra i 12 e i 16 millimetri (1 mm in meno della cimice), capace di parassitare le uova deposte dalla cimice asiatica. La femmina di questo micro-imenottero va ad inoculare uova della cimice, annientandone così la progenie. In particolare, secondo i test, una sola femmina di imenottero in 24 ore riesce a parassitare il 35% delle uova della cimice, ma in presenza di più femmine si arriva anche al 100%. La ricerca è stata portata avanti dal Centro di ricerca e certificazione del Crea in collaborazione con i servizi fitosanitari del Mipaaf (Ministero per le politiche agricole, alimentari e forestali) e di alcune Regioni interessate dall’invasione della cimice, nell’ambito del progetto nazionale “Aspropi – Azioni di supporto della protezione delle piante”. Sino ad oggi, l’imenottero è stato studiato in laboratorio e provato in alcune aziende agricole per testarne l’efficacia. L’Ooencyrtus telenomicida si è dimostrato un efficace rimedio naturale per il controllo biologico dell’insetto infestante e rappresenta oggi la speranza di migliaia di agricoltori, soprattutto nel Nord Italia, dove i raccolti sono stati fortemente danneggiati dalla cimice asiatica. Se questo antagonista naturale si dimostrerà efficace, fa sapere il Crea, nel 2018 accanto alle tradizionali rete anti-grandine usate per ridurre l’attacco sui frutteti, potrebbero essere disponibili anche soluzioni efficaci di lotta biologica per combattere la diffusione della cimice asiatica.

Plastica-nemico acqua

La plastica nemico numero uno dell’acqua

Ogni anno finiscono nelle acque di tutto il mondo 8 milioni di tonnellate di rifiuti plastici. Senza le misure necessarie, nel 2050 nei mari e negli oceani ci sarà più plastica che pesci.


Una situazione drammatica

Si stima che ogni anno finiscano nelle acque di tutto il mondo circa 8 milioni di tonnellate di rifiuti plastici, di cui solo 8 mila tonnellate vengono recuperate da associazioni e gruppi di volontari. Questo è quanto sostiene il recente dossier del Word Economic Forum (WEF) dal titolo "The New Plastics Economy”, che sottolinea come l’"usa e getta” dei materiali plastici provochi una perdita per l’economia mondiale pari a 80-120 miliardi di dollari l’anno, equivalente al 95% del valore materiale degli imballaggi in plastica. Secondo il WEF, le migliori ricerche oggi disponibili stimano che vi siano circa 150 milioni di tonnellate di plastica negli oceani. In uno scenario business as usual, cioè senza modifiche al sistema produttivo, entro il 2025 si pensa che per ogni tre tonnellate di pesci vi sarà una tonnellata di plastica. Di recente, i ricercatori dell’Università della Tasmania, in collaborazione con la Royal Society, hanno riportato che sulla Henderson Island, una piccola isola situata nel Pacifico meridionale, si troverebbero quasi 18 tonnellate di materiale plastico, il 68% del quale è composto da frammenti invisibili. L’impressionante concentrazione di questi rifiuti raggiunge i 4.500 pezzi per metro quadro, fino ad una profondità di 10 cm. 

Figura 1. Henderson Island nell'Oceano Pacifico 

 

Questi rifiuti, tra i quali si stima la parte maggiore dovuta all’industria del packaging, una volta in acqua, assumono dimensioni sempre più piccole e vengono inghiottiti da numerose specie marine entrando nel circolo della catena alimentare (di cui fa parte anche l’uomo quando consuma il pesce). Purtroppo, il fenomeno non riguarda solamente le specie che abitano le acque. Secondo uno studio pubblicato nel 2016 sulla rivista internazionale “Proceedings of the National Academy of Sciences” sono stati trovati residui di plastica nelle viscere del 90% degli uccelli marini (gli uccelli che si alimentano di ciò che offrono mari e oceani). 

 

La ricerca presentata a Milano

Il tema dell’inquinamento delle acque da plastica è stato affrontato lo scorso 22 settembre presso la sede del WWF a Milano dove si è tenuto il convegno internazionale “Problem Plastic – l’inquinamento della plastica attraverso gli occhi della scienza” organizzato da WWF Milano Hub in collaborazione con Bio-on, azienda italiana che opera nel settore della chimica ecosostenibile.

Nel corso del convegno i ricercatori Nikolai Maximenko e Jan Hafner del Centro Internazionale di ricerca sul Pacifico dell’Università delle Hawaii hanno presentato la drammatica situazione nella quale si trovano le acque del pianeta. I due ricercatori hanno illustrato modelli matematici per descrivere le cosiddette “rotte della plastica”, cioè i molteplici percorsi che seguono i rifiuti plastici una volta in acqua. In particolare, la ricerca si è avvalsa dell’utilizzo di mezzi sofisticati e di grande precisione come satelliti, boe galleggianti per le osservazioni in mare aperto, la costruzione delle mappe per seguire le correnti marine, le maree e i venti. In particolare, questi ultimi creano molte difficoltà quando si vogliono sviluppare dei modelli per lo studio dei movimenti delle microplastiche in acqua, come hanno evidenziato i due ricercatori dell’Università delle Hawaii. La costruzione di modelli matematici per analizzare il fenomeno dell’inquinamento da plastica degli oceani e dei mari è nato da pochi anni e si trova ancora nella sua fase iniziale, ma dopo il catastrofico tsunami che ha colpito il Giappone nel 2011 (causando la morte di oltre 15 mila persone), ha conosciuto una forte accelerazione grazie all’osservazione di un’elevata quantità di detriti che hanno attraversato l'Oceano Pacifico e raggiunto le Hawaii e il Nord America. 

 

Gli effetti devastanti dello tsunami 

Maximenko e Hafner hanno presentato un modello creato per scoprire dove siano finiti i detriti  trasportati dallo tsunami che ha colpito il Giappone l’11 marzo del 2011. Tra le ipotesi formulate circa il possibile percorso seguito dai detriti, la più attendibile sembra essere quella dell’“atollo Midway”. Nel settembre del 2011 una nave russa ha scoperto nelle acque a largo dell’atollo, a ovest delle isole Hawaii, un peschereccio giapponese. Secondo i dati elaborati dai due ricercatori, lo tsunami ha trasportato 1,5 milioni di tonnellate di materiale plastico sino alle coste del Canada e degli Stati Uniti. In seguito, è stato rinvenuto sulle coste dello Stato dell’Oregon un intero blocco della banchina del porto di Misawa (Giappone) sulla quale, fanno sapere i ricercatori, hanno viaggiato oltre cento specie di animali e vegetali.

 

Figura 2. Tsunami in Giappone

 

Maximenko e Hafner hanno poi sottolineato come molte specie viventi, che hanno colonizzato i detriti plastici dispersi in mare, siano in grado di sopravvivervi anche per anni, un tempo sufficiente per raggiungere terre lontane e invadere ecosistemi marini di altre aree del mondo. I due ricercatori sono riusciti ad identificare quali specie aliene potrebbero arrivare in una nuova area, mediante modelli probabilistici. Maximenko e Hafner hanno annunciato che i loro studi verranno presto estesi a tutte le aree del mondo, con particolare attenzione per il mar Mediterraneo grazie anche al contributo della società Bio-on, organizzatore insieme con il WWF del convegno tenuto a Milano. Per quanto riguarda le soluzioni da adottare contro il fenomeno dell’inquinamento da plastica, il World Economic Forum (WEF) sostiene la necessità di avviare velocemente soluzioni verso l’economia circolare per contrastare non soltanto il degrado ambientale ma anche per evitare gli enormi sprechi di energia dell’industria della plastica. Il WEF sottolinea, infatti, che la produzione di plastica, che è aumentata dai 15 milioni di tonnellate degli anni sessanta ai 311 milioni di tonnellate nel 2014, potrebbe arrivare a una quantità tripla entro il 2050, con un consumo di energia che, secondo le stime del WEF, costituirebbe il 20% dell’impiego mondiale di fonti fossili.

 

Una foto che fa riflettere

Una delle foto finaliste del concorso internazionale "Wildlife photographer of the year 2017”, che rappresenta uno dei più prestigiosi premi al mondo sulla fotografia naturalistica, mostra quello che è stato definito lo “stridente abbraccio” tra un cavalluccio marino e un cotton fioc

 

Figura 3. Foto finalista al concorso internazionale "Wildelife photographer of the year 2017" (foto: Justin Hofman)

 

La foto, scattata a largo dell’Indonesia dal fotografo Justin Hoffman, sta facendo il giro del mondo in questi giorni e sembra che sia diventata il simbolo  "mare di plastica" che invade e inquina le nostre acque. Una foto che deve far riflettere sulla gravità del problema. Secondo uno studio realizzato dalla Fondazione MacArthur insieme con il Centro Studi McKinsey, e presentato al Forum economico di Davos nel 2016, nel 2050 nei nostri mari e oceani ci saranno più plastica che pesci. In altre parole, se non si prenderanno provvedimenti al più presto, nel giro di circa trent’anni, sacchetti, bottiglie, reti ed altri oggetti di plastica sostituiranno i pesci presenti nelle acque di tutto il mondo. È ormai più che evidente che occorrono misure urgenti da parte dei governi di tutto il mondo per impedire che continui il fenomeno dell’inquinamento da plastica, con interventi immediati sul quadro legislativo, produttivo e sulla gestione dei rifiuti.

lo spreco alimentare a un anno dala Gadda_principale

Lo spreco alimentare in Italia a un anno dalla legge Gadda

Dopo un anno di battaglia contro lo spreco alimentare, i risultati si vedono ma non sono sufficienti. Secondo gli ultimi dati oltre il 90% degli italiani insegna ai propri figli a non sprecare.


È passato un anno dalla Legge

Il 14 settembre 2016 è entrata in vigore la Legge Gadda (prima firmataria della Legge, la deputata PD Maria Chiara Gadda), la prima legge nazionale contro gli sprechi alimentari e farmaceutici  in Italia. La legge prevede una serie di norme volte ad incentivare il riuso e la donazione di cibo e farmaci in eccedenza, tramite semplificazioni burocratiche, sgravi fiscali e bonus per i donatori (enti pubblici, aziende e privati cittadini), con il fine ultimo di diffondere una maggiore sensibilità ambientale tra i cittadini. I primi dati sugli sprechi sembrano essere positivi. Secondo le stime della Fondazione Banco Alimentare, Onlus impegnata nel recupero di cibo per le strutture caritative e per i più bisognosi, il recupero delle eccedenze alimentari nella Grande Distribuzione Organizzata (GDO) ha registrato un aumento del 20% da settembre 2016 (approvazione della legge) sino ad oggi.  In particolare, secondo i dati forniti dal Banco Alimentare, sono stati recuperati oltre 4 milioni di chili di cibo (700 mila in più rispetto al 2015). La Fondazione ha inoltre avviato una serie di accordi con Costa Crociere per il ritiro di cibo in eccesso dalle cucine delle navi e con l’Istituto zooprofilattico di Torino per il recupero delle porzioni di cibo integre e sane che solitamente rimangono nei laboratori dopo le esecuzioni delle analisi (9 quintali di cibo ogni anno, secondo dati del Banco Alimentare). Per dare seguito al sistema premiale (incentivi e bonus) previsto dalla Legge Gadda, il Mipaaf (Ministero per le politiche agricole, alimentari e forestali) ha recentemente pubblicato un bando nazionale che prevede lo stanziamento di un fondo anti-spreco di 500 mila euro destinato a finanziare le migliori idee per la gestione e il recupero del cibo in eccesso e per lo sviluppo di packaging innovativi (con un tetto massimo di 50 mila euro per ogni proposta). Nonostante i successi registrati nell’ultimo anno, la situazione degli sprechi in Italia resta drammatica. Una recente indagine condotta dall’associazione Last Minute Market mostra gli ultimi dati sullo spreco alimentare.

 

L'indagine di Last Minute Market

È stata svolta in collaborazione con l’Università di Bologna nell’ambito della campagna europea di sensibilizzazione promossa da Last Minute Market “Spreco Zero 2017”. Secondo quanto emerso dall’indagine, lo spreco alimentare italiano vale in termini economici 15,5 miliardi di euro, un valore pari all’1% del PIL nazionale. Di questi, 12 miliardi sono riconducibili allo spreco domestico mentre i rimanenti 3,5 miliardi derivano dallo spreco che si fa all’interno dell’intera filiera alimentare, ovvero dai campi (946.229.325 euro) alla produzione industriale (1.111.916.133 euro) alla distribuzione (1.444.189.543 euro). Per quanto riguarda lo spreco domestico, i dati sono stati elaborati sulla base dei test “Diari di Famiglia” eseguiti dal Ministero dell’Ambiente insieme con il Dipartimento di Scienze e Tecnologie Agroalimentari dell’Università di Bologna e con l’azienda di sondaggi SWG, nell’ambito del progetto “Reduce 2017”. I test sono stati condotti nelle scorse settimane su un campione statistico di 400 famiglie in tutta Italia e saranno resi noti nell’ambito di un convegno internazionale che si terrà a febbraio 2018, in occasione della Quinta Giornata Nazionale di Prevenzione dello Spreco alimentare. 

 

I dati sono promettenti

Gli ultimi dati, forniti dall’Osservatorio Waste Watcher (osservatorio nazionale sugli sprechi nato per iniziativa di Last Minute Market), sono rassicuranti: 7 italiani su 10 sono a conoscenza della Legge Gadda e il 91% di loro considera lo spreco alimentare una questione di primaria importanza per il nostro Paese. A tal proposito, Last Minute Market responsabile della campagna “Spreco Zero”, riporta un dato incoraggiante: “il 96% degli italiani insegna ai propri figli a non sprecare”. Altri dati positivi provengono dall’ultimo Food Sustainability Index, che colloca l’Italia al primo posto su 25 paesi europei considerati, per le politiche attuate nel 2017 in materia di lotta allo spreco alimentare. La Legge Gadda ha dunque permesso al nostro Paese di allinearsi e addirittura superare gli altri paesi europei. Nei paesi dell’Unione Europea il valore economico del cibo sprecato resta comunque alto: 143 miliardi di euro (inclusi anche i costi legati all'acqua e all'impatto ambientale), di cui 98 miliardi imputabili esclusivamente al cibo gettato tra le mura domestiche. In particolare, l’Unione Europea si è imposta di ridurre ulteriormete lo spreco alimentare entro il 2025, che non a caso è stato proclamato “Anno Europeo contro lo spreco alimentare”.